Il Cairo a piedi
Non so se sono contento di aver speso una paccata di soldi – quasi duecento euro, tra tutto – per concedermi una giornata extra al Cairo; comunque, i soldi spesi in visitare posti nuovi non sono mai sprecati, e quindi pubblicherò ancora qualche appunto preso sul posto.
La città , come ogni altro posto, è interessante; certo io l’ho presa di punta, e ho rischiato di esserne travolto. Difatti, invece di lasciarmi spaventare dalle storie di turisti rapinati o minacciati, mi sono lasciato convincere dall’allegro entusiasmo della mia Lonely Planet, e da buon ingegnere ho pianificato un giro a piedi che toccasse tutti i punti principali.
Peccato che abbia capito soltanto dopo che il motivo per cui la Lonely Planet insisteva sul prendere spesso il taxi non era soltanto la fatica; questa, oggi, non è una città turistica, e anzi in certi tratti ero totalmente perso nel magma di quartieri che potevano tranquillamente (anche in termini di distruzione e sporcizia) essere a Baghdad o a Kabul. Non credo di essere mai stato veramente in pericolo, ma in certi punti ero chiaramente l’unico occidentale nel raggio di un paio di chilometri, e il modo con cui sono stato guardato – pur avendo una faccia che da queste parti non dà troppo nell’occhio, e pur essendo abituato a scivolar via con lo sguardo basso, la macchina foto ben chiusa e ben stretta, e l’autocontrollo sufficiente per non reagire assolutamente a niente – mi è piaciuto poco.
Il mio giro è iniziato da Garden City, il quartiere coloniale dei grandi alberghi, seguendo la passeggiata sulle rive del Nilo. Il fiume è uno spettacolo, sa già di mare anche se siamo a duecento chilometri dalla foce, ed è coperto dal vento, tanto da esser pieno di barche a vela. La passeggiata quindi non è male, ci sono le panchine e le piante e le coppiette locali che si scambiano effusioni sconce in maniera disgustosa – voglio dire, due si tenevano addirittura per mano! Sembra molto Borghetto Santo Spirito, però a Borghetto non ci sono quattro corsie di traffico impazzito e strombazzante subito a fianco della fila di magnolie, perciò alla fine Borghetto S.S. 1 – Il Cairo 0.
Il problema è quando poi lasci la riva del fiume e ti addentri nelle case, cercando di risalire verso la collina della Cittadella. Non solo l’orientamento è complicato, visto che poche vie hanno il nome scritto anche in inglese e che comunque la cartina di quella zona sulla Lonely Planet è molto deficitaria; a un certo punto vai a sbattere contro un cavalcavia. Ora, io in tre giorni ho già acquisito abilità stupefacenti in questo continuo Frogger dal vivo che è attraversare la strada al Cairo; per dire, sono in grado di fermarmi sulla riga tratteggiata tra due file di traffico che sfrecciano a sessanta all’ora a non più di tre centimetri dal mio naso, o di sfruttare lo spazio triangolare dinamico generato temporaneamente da due veicoli che stanno lentamente divergendo, o di attraversare a pancia retrattile, cioè davanti a un veicolo in movimento e ritraendo la pancia sopra il cofano per superare gli ultimi venti centimetri con un salto proprio quando già esso pare avere le ruote sopra di me. In generale, comunque, mi metto a valle di un locale usandolo come scudo umano e stando però attento a calcolare bene il parallasse, che se no dove passa lui poi non ci passo più io.
Comunque, tutto questo va bene, ma a percorrere a piedi un cavalcavia largo come una macchina più una zanzara non ci penso proprio; e così ho dovuto tuffarmi nelle viscere del quartiere, trovare la stazione della metro, usarla come scavalco, attraversare il mercatino di carabattole (tutte made in China) che occupava la stazione degli autobus iniziata e mai finita che stava dall’altro lato, e poi trovare un vialone che risaliva verso nord, in un quartiere popolare, fino a una grande piazza occupata da una moschea dove si intravedevano torme di donne velate, e non son certo andato ad indagare. Ecco, questo pezzo qui è stato uno dei più inquietanti, anche perché ho dovuto interpretare la mappa sempre un po’ di soppiatto e senza fermarmi in mezzo alla strada con il libro bene in mano (il che equivale a “ehi, sono qui, sono straniero e mi sono perso, fate di me ciò che volete”).
La salita verso la Cittadella però è interessante, perché si svolge per una strada tranquilla piena di ruderi che si rivelano essere pezzi di chiese copte del nono secolo abbandonati lì e usati come discarica di letame, oppure come motoofficina o come stalla per gli asini che tirano i carretti, sempre abbondanti per queste vie. A metà salita, però, c’è la Moschea di ibn-Tulun ed ecco, questa è la cosa che valeva il viaggio: un gigantesco quadrato circondato da un porticato, il più antico edificio ad archi a sesto acuto che si conosca. Al centro del grande cortile, a rompere la luce del mezzogiorno, c’è una cupola che copre una fontana, o un altare, o chissà cosa.
Mi siedo lì sotto e mi godo il vento e la bellezza mozzafiato del luogo. Ignoro le mezze richieste di mancia dei custodi – che svolgono anche il lavoro di fornirti i copriscarpe di tela – e percorro il cortile esterno fino al minareto; salgo proprio in cima, e c’è una vista mozzafiato su tutta la città , con la Cittadella da un lato, e dall’altro una distesa di case tutte coperte di parabole satellitari; la più vicina ha anche un attico al quarto piano sul cui terrazzo c’è una capra che fa la cacca.
Il resto della giornata, invece, è snervante; alla Cittadella nemmeno entro, ho letto che non vale la pena, ma proprio lì davanti vengo abbordato. E’ normalissimo venire abbordati nei paesi arabi, di solito è qualcuno che in inglese ti chiede da dove vieni, e poi si offre di farti da guida, e alla fine ti porterà in un negozio di un amico da cui prende commissioni, oppure ti chiederà soldi lui, o entrambe le cose.
Qui hanno una tecnica più raffinata; basta un attimo di esitazione per offrirsi di aiutarti, e poi la seconda battuta è “oh lì dove vuoi andare è chiuso, ma vieni con me, ti porto in un altro bellissimo posto”. Io sapevo benissimo che la Cittadella era aperta, ma ciò è irrilevante: questi sono capaci di dirti “vedi quel bar lì dove c’è una folla che prende il gelato? quel bar lì è chiuso, ma vieni con me”. L’unica soluzione è sorridere, dire no grazie, e partire con decisione nella direzione opposta, non importa quale sia e dove porti (potete sempre fermarvi dietro il primo angolo).
Dalla Cittadella poi vi è una lunga discesa in un altro quartiere simil-Baghdad (ho incrociato una vecchia 131 che aveva ancora la targa di Milano, vecchio sistema arancio su nero, sopra cui avevano direttamente incollato quella egiziana…), dove l’asfalto finisce e si scende una via stretta piena di ogni cosa, auto, moto, bici, persone, animali, vecchiette sedute, cumuli di monnezza, scavi di non si sa bene cosa e altro ancora.
Ogni tanto sul lato si vede qualche edificio medievale davvero bello, alcuni restaurati, altri meno. La sporcizia è davvero pesante: qui è proprio pieno Terzo Mondo, c’è un livello di schifo elevato persino per l’Africa, sembra quasi Napoli. I bambinetti però sono simpatici, e dopo un po’ ti abitui a schivare con le orecchie le auto e i pick-up che scendono per la via a velocità folle. Qui vedo anche il mio primo incidente: da una via secondaria arriva a tutta velocità un ragazzino più piccolo su una bici, che viene centrato in pieno da un ragazzino più grande su una moto che percorreva la via principale. Il colpo è secco e il più piccolo vola per almeno un paio di metri sulla sabbia, ma i due mica litigano; semplicemente il più grande dà un bacio in fronte al più piccolo e poi ognuno riparte.
Arrivo alla fine a Bab Zuweila, la porta con i due minareti, un altro edificio molto bello e suggestivo: dalla porta si entra nella città vecchia, lasciando fuori questo borgo di case affastellate e piene di bambini (un paio provano anche ad attaccar briga, ma io li ignoro decisamente). Dentro comincia il mercato, e mano a mano la via si riempie di bancarelle di jeans e borse cinesi; non c’è assolutamente niente di interessante se non vestiti e zainetti delle tre marche che vanno fortissimo tra i giovani egiziani, cioè Diesel, Diessil e Dolce (non ho capito che ne abbiano fatto di Gabbana). Non ho nemmeno capito se quelli che hanno scritto Diesel facciano i bulli con quelli che hanno scritto Diessil o viceversa. Lungo questo percorso però ci sono edifici ancora più belli, tra cui la grande fontana di Pasha che purtroppo non ho potuto fotografare a causa dei banchetti del mercato.
Giungo infine al famoso Cairo Islamico, pensando chissà che, visto quanto era islamico tutto il resto. Invece si rivela una mezza delusione; l’antica università è piena di gente che prega e batto in ritirata; oltre la piazza Hussein, superati i caffè pieni di turisti e di acchiappaturisti, comincia un altro quartiere piuttosto degradato; c’è qualche altro bell’edificio medievale, ma la zona del mercato (Khan Al-Khalili) è sostanzialmente una grossa carta moschicida per mosche da torpedone (e qui, dopo tre ore di cammino, vedo i primi occidentali, ad eccezione forse di un paio incontrati dentro ibn-Tulun).
Qui è dove scoppio: c’è semplicemente troppa gente, troppo rumore, troppe cose strane e troppa sensazione di essere un alieno in un mondo forse non proprio ostile, ma certamente non amichevole; raramente mi sono sentito così rigettato come qui.
Faccio per ritornare, e mi tocca percorrere una infinita via di mercato, dove nel mezzo metro libero dalle bancarelle turisti e locali si superano a varie andature. Il mercato è infinito, arriva fino in piazza dell’Opera, interrotto solo da corso Porto Said, che si supera con un sovrappasso pedonale perché lì nemmeno un locale ce la farebbe ad attraversare. Mi chiedo cosa vendessero queste bancarelle prima che arrivassero le importazioni cinesi.
Alla fine scopro ancora un’altra anima del Cairo, il cosiddetto Downtown: una zona di vie dritte e palazzoni all’europea, mal tenuti ma comunque imponenti, e parecchio estesi. Qui il traffico è ancora peggio, e compaiono pure alcuni semafori, anche se sono del tutto inutili perché non li guarda nessuno, e parecchie volte trovo le auto col verde diligentemente ferme in attesa che le altre auto col rosso rallentino, per potersi infilare. Trovo però anche parecchi giovani in giro per shopping con un gelato in mano, e una timida rivendita di panini e bevande dove con circa un euro e venti centesimi pranzo (alle quattro passate) con un paninone di shawarma e una Pepsi Light.
Devo ancora laurearmi in attraversamento, per riuscire a superare piazza Tahrir, e poi arrivo al mio albergo; l’ultimo attraversamento è proprio sulla curva di un vialone a tre corsie dove le auto sfrecciano, eppure lo faccio in souplesse, calcolando in automatico che le auto si sposteranno leggermente più all’interno o più all’esterno a seconda della posizione del pedone che attraversa tre metri più a monte di me, e quindi sfruttando i coni di spazio che egli crea. Arrivo in albergo dopo cinque ore di giro, e ovviamente l’idea di andare ancora al Museo Egizio è passata da parecchio; anzi crollo sul letto a guardare i cartoni animati, finché non arriva un bellissimo tramonto sul Nilo.
Credo di aver capito che pochi percorrono il Cairo a piedi, senza guida e senza un veicolo. Sono contento di averlo fatto, però che stanchezza!
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