Nati stanchi
È sicuramente interessante leggere questo articolo sul karoshi, il fenomeno tutto giapponese dei morti da iperlavoro: ragazzi di vent’anni che si suicidano o muoiono d’infarto per lo stress, dopo aver lavorato stabilmente sessanta o settanta ore la settimana per anni. La cultura giapponese è anche questa; potete chiedere a qualche giapponese che ricordo ha di suo padre, e spesso otterrete risposte come “sì ce l’ho presente, lo vedevamo ogni tanto a cena” e “era gentile, alle volte la domenica non andava a lavorare per stare con noi”. Non tutte le posizioni lavorative sono così impegnative, ma certamente per i giapponesi il lavoro è un dovere quasi mistico, lo sforzo con cui ripagano la collettività per il piacere di farne parte.
Già so come reagiranno molti italiani stamattina, leggendo quell’articolo su Repubblica: “anch’io, anch’io!”. Esiste in Italia una categoria che non si lamenti di lavorare troppo? Lo fanno molti insegnanti, diciotto ore in classe la settimana “ma abbiamo anche i compiti da correggere e le attività integrative” (quelli che lo fanno seriamente; esiste tutta una categoria di insegnanti che svolte le diciotto ore se ne va a casa). Lo fanno i dipendenti delle Poste, cinque ore e mezza di sportello al giorno. Lo fanno anche quegli impiegati del privato che stanno in ufficio dalle nove alle sei, ma facendo una pausa caffé ogni ora, inframmezzata a pause giornale e a pause telefonata; e si stupiscono quando apprendono che all’estero il lavoro è lavoro, e l’idea di una pausa ogni ora è vista come insensata.
E’ indubbio che nella società moderna esista un problema di iperlavoro, che è collegato al più generale problema di una società orientata a produrre di più invece che a vivere meglio. In Italia, però, questo problema riguarda una minoranza di lavoratori, ancora più piccola che altrove: lo stesso articolo di cui sopra dice che i lavoratori che lavorano troppo, svolgendo in media più di cinquanta ore a settimana, sono il 28% in Giappone, circa il 10% nei maggiori paesi europei, ma solo il 4% in Italia. Non ci sono invece i dati a proposito della percentuale di lavoratori che si lamenta di lavorare troppo, ma scommetterei che i valori sono rovesciati.
Quel 4%, in Italia, è spesso ben pagato; si tratta di persone che per le loro aziende sono difficilmente sostituibili, perché più bravi della media, e perché disposti a tappare anche i buchi lasciati dai loro colleghi. Non si tratta insomma necessariamente di sfruttamento, ma piuttosto di una libera scelta: tu mi paghi di più perché io rinunci al mio tempo libero; io faccio carriera e mi costruisco una esperienza di valore, magari sapendo che tra qualche anno mi chiamerò fuori e capitalizzerò il sacrificio. Finché è fatto liberamente e non arriva a minare la salute, mi sembra uno scambio più che legittimo.
In Italia però non piace, perché dimostrare che lavorare meglio e di più è possibile implica evidenziare quanto male e pigramente lavorino tanti colleghi; e allora arriva l’invidia, l’accusa di essere crumiri, o anche solo il perverso ragionamento cartaceo, “visto che il nostro livello e le nostre mansioni sulla carta sono le stesse, dovrei guadagnare anch’io come lui”. Perché da noi chi si sbatte più della media, chi non si approfitta di ogni minima opportunità per perdere tempo, è spesso considerato un fesso o un provocatore.
Mi spiace quindi di reagire male quando vedo gli italiani che si lamentano o che si paragonano ai giapponesi, senza avere la minima idea di cosa voglia dire lavorare come in Giappone. Di solito mi danno del fascista o del padrone schiavista. Sarà . Penso però che prima di imbracciare la “decrescita felice” – che pure è l’unico progetto sociale sensato per i prossimi cinquant’anni – dovremmo ogni tanto aver imbracciato la crescita.
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