Contabilità giudiziarie
Ogni tanto mi viene da fare qualche considerazione impopolare; deve esserci da qualche parte nella mia personalità un elemento antisociale.
Alle volte sono osservazioni innocue o semplicemente in contrasto con il segno dei tempi. Per esempio, ieri ho commentato la lettera di un genitore che si lamentava che alla sua figlia di tredici anni avessero dato troppi compiti per le vacanze; naturalmente ho suggerito che il genitore, volendo, era libero di dire alla figlia di non fare i compiti e di passare il tempo in discoteca, ma che poi non si lamentasse se da grande lei si sarebbe dimostrata scarsamente vogliosa di studiare e se come risultato fosse finita nel gorgo del precariato da call center. Come risultato, mi sono beccato una selva unanime di critiche e di lazzi, sia dai genitori di bimbi stressati, scarsamente interessati ad esercitare la faticosa autorità che gli spetta, sia dai lavoratori offesi dei call center che rivendicavano la propria assoluta professionalità e preparazione, sia dai moralisti indignati per l’insinuazione che d’estate una ragazzina di tredici anni possa andare in discoteca e magari farsi pure baccagliare (mi sa che non hanno visto Thirteen).
Tutto questo per dirvi che le recenti evoluzioni finanziario-giudiziarie della vicenda Thyssen-Krupp mi lasciano francamente perplesso. Bisogna ovviamente fare tutte le dovute premesse, cioè che nessuna cifra può restituire una persona cara di trent’anni morta in condizioni simili, e che allo stesso tempo è assolutamente giusto che le vedove e i figli ricevano una compensazione più che adeguata. Trovo quindi giusta non solo la sottoscrizione che, sull’onda dell’emozione pubblica, ha portato (si dice) diverse centinaia di migliaia di euro ad ognuna delle famiglie, ma anche la transazione con cui l’azienda ha appena versato una cifra mediamente di due milioni di euro per famiglia, in cambio della loro volontaria rinuncia a costituirsi parte civile al processo.
Credo che, se fossi stato nelle stesse terribili condizioni, avrei fatto anch’io la stessa scelta: alla morte non si può comunque rimediare, ma con due milioni di euro si può garantire un futuro agiato ai propri figli, perdipiù per famiglie operaie che non avrebbero di norma alcuna speranza di vedere nella propria vita anche solo un decimo di quella cifra.
Allo stesso tempo, è inevitabile – lo prevede la legge stessa – che la firma di un accordo di conciliazione tra le parti, con congruo risarcimento economico, attenui la posizione processuale dei dirigenti Thyssen, nonostante l’ampia quantità di fatti che parrebbero sostenere la tesi secondo cui loro sapessero perfettamente quali erano i rischi e avessero coscientemente deciso di correrli per risparmiare. E quindi, trovo incoerente accettare un assegno ieri e poi oggi presentarsi in tribunale per invocare l’ergastolo e financo (letteralmente) le fiamme dell’inferno per quelli che l’hanno firmato; ognuno fa legittimamente le proprie scelte, ma un dignitoso silenzio sarebbe stato meglio. Altrettanto triste il messaggio conclusivo del sindacalista, una cosa che suona come “ok, vi abbiamo aiutato a firmare l’accordo, avete incassato, adesso dateci la nostra parte”; triste per la richiesta di soldi, e triste per l’ipotesi sottintesa che le famiglie possano ora scappare con il risarcimento fregandosene di tutto e di tutti.
Ma forse la tristezza è complessiva, e sta in una vicenda dove sin dal principio le vite umane sono state trattate come una voce di bilancio, dove esse sono state poi sfruttate e contese a fini elettorali, e che si conclude con una ulteriore monetizzazione, con conseguenti – garbate ma evidenti – discussioni su dove vada meglio impiegato il ricavato (e non abbiamo nemmeno parlato dei tanti morti di serie B, deceduti in fabbriche meno politicizzate o in angoli meno centrali della penisola, e conseguentemente presto dimenticati dai media e dalla solidarietà ). Anzi, è più che triste: è normalmente umano.
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