Decisamente altrove
Non è facile spiegare l’esigenza di essere ogni tanto altrove; nasce per caso e non riguarda tutti. C’è chi vivrebbe volentieri nello stesso posto tutta la vita e chi vivrebbe volentieri ovunque, pur di sperimentare ogni volta un’esperienza diversa. Credo che sia una forma mentale che si sviluppa e che se si sviluppa non può essere ritirata; e se una volta la conseguenza più tipica era una vita da marinaio, al giorno d’oggi viaggiare è molto più semplice ed economico e lo si può fare con comodo. Certo, resta il problema di scegliere dove andare; perché si può andare a cercare una piccola replica di casa propria, piena di italiani pizzerie e partite di pallone, oppure, appunto, si può andare altrove.
Se c’è un posto che rappresenta bene l’altrove, questo è appunto l’Islanda, un posto dove non si capita per caso – a meno che, come è successo a me, non ci si finisca in quanto attaché a una missione di lavoro. Io ci sono dunque finito per caso e ne sono molto lieto, perché il caso è la vera guida della vita e ad esso tanto vale arrendersi subito.
Ho conosciuto l’Islanda per gradi crescenti, così come si deve a una signora. Il primo impatto è stato con la zona attorno all’aeroporto, che è una specie di Irlanda piatta e coperta d’erba gialla. Il secondo impatto è stato con il cerchio d’oro, l’itinerario turistico più famoso, che partendo da Reykjavik porta alla piana dove fu fondato il primo Parlamento della storia, e poi a Geysir (l’originale) e alla grande cascata di Gullfoss; e quella è Scozia, la città pare una Inverness con una periferia e la statale 36 potrebbe benissimo essere una qualsiasi strada in mezzo alle Highlands.
Poi abbiamo preso per la costa meridionale e le cose si sono fatte serie; quando si esce dalla popolosa pianura e ci si avvicina alla zona dei ghiacciai e dei vulcani, l’unico paragone possibile è con la Nuova Zelanda (ed è un grosso complimento). Grazie a un timido sole (ma non temete, il tempo cambia ogni trenta secondi circa) abbiamo scoperto alcuni luoghi assolutamente magici; per esempio Seljalandsfoss, una cascata vertiginosa che finisce in un laghetto tra le rocce, da cui esce un ruscello chiarissimo che attraversa la pianura d’erba che si estende fino all’orizzonte (se non è abbastanza, cento metri più in là c’è la versione che cade in uno stagno nascosto e visibile solo attraverso una fessura nella roccia). Oppure Dyrholaey, una penisola di roccia vulcanica collegata alla terraferma solo da una pista di ghiaia, in cima alla quale si può vedere un’idillica baia di sabbia nera circondata di prati e fattorie, ma anche una spiaggia tormentata su cui si schiantano onde d’oceano alte diversi metri, con spruzzi di schiuma bianca ovunque, mentre una serie di faraglioni lottano per la sopravvivenza in mezzo al mare.
Ma non è sufficiente; proseguendo, il paragone cambia ancora, e questa volta è direttamente con la Luna. A un certo punto, per una ventina di chilometri, si attraversa una pianura completamente nera, fatta soltanto di sabbia e ghiaia prodotte dalla frammentazione della roccia vulcanica da parte dei ghiacciai. In molte parti non c’è alcuna forma di vita, nemmeno il muschio; è una zona chiamata Öræfi (devastazione) ed è il risultato di eruzioni medievali e di piene glaciali (il vulcano erutta sotto il ghiacciaio, il ghiacciaio si scioglie, dopo qualche settimana una quantità d’acqua grande come un Lago di Garda arriva a bucare la punta del ghiacciaio e si scarica nel giro di un paio di giorni sulla pianura, scagliando blocchi di ghiaccio di cento tonnellate contro tutto quello che trova).
E poi… in certi punti il paragone è solo con un punto interrogativo. Come descrivere per esempio una pianura gialla e grigia, fatta di terreno vulcanico e di erba consumata dal vento? Oppure una distesa di chilometri di grosse pietre tonde e lisciate dall’acqua, accatastate l’una sull’altra e ricoperte da uno spesso e morbido tappeto di muschio verde, come se fosse il fondo del mare tirato fuori stamattina e nemmeno ancora asciugato?
Ogni dieci chilometri il paesaggio cambia completamente e molto spesso ciò che appare è privo di senso, richiede uno sforzo di fiducia nei propri occhi. Eppure quel che colpisce di più, sopra il paesaggio, è insieme l’assenza e la presenza umana; l’assenza perché la densità di popolazione è minima, e ogni zona è individuata dal nome dell’unica fattoria che vi (r)esiste, nonostante qui non cresca nulla (tantomeno gli alberi) e nonostante vulcani, ghiacciai, tempeste, e un vento incredibile che spesso costringe a guidare di bolina, col volante che punta alla scarpata per riuscire ad andare diritti. E la presenza perchè nonostante tutto un po’ di persone ci sono, aggrappate col cuore a questa terra inospitale, e con meritato orgoglio.
E questo dimostra molte cose; dimostra che l’uomo può quasi tutto, se la determinazione e il coraggio lo accompagnano; dimostra come noi abbiamo pateticamente limitato le possibilità della natura, uniformando il 90% della Terra a una sciatta periferia urbana; e dimostra che questo pianeta sarebbe davvero meraviglioso, se solo i suoi abitanti fossero un decimo di quello che sono.
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