Sky
Vittorio vb Bertola
Affacciato sul Web dal 1995

Sab 21 - 18:19
Ciao, essere umano non identificato!
Italiano English Piemonteis
home
home
home
chi sono
chi sono
guida al sito
guida al sito
novità nel sito
novità nel sito
licenza
licenza
contattami
contattami
blog
near a tree [it]
near a tree [it]
vecchi blog
vecchi blog
personale
documenti
documenti
foto
foto
video
video
musica
musica
attività
net governance
net governance
cons. comunale
cons. comunale
software
software
aiuto
howto
howto
guida a internet
guida a internet
usenet e faq
usenet e faq
il resto
il piemontese
il piemontese
conan
conan
mononoke hime
mononoke hime
software antico
software antico
lavoro
consulenze
consulenze
conferenze
conferenze
job placement
job placement
business angel
business angel
siti e software
siti e software
admin
login
login
your vb
your vb
registrazione
registrazione

Archivio per il mese di Settembre 2011


domenica 4 Settembre 2011, 19:31

Guidare negli Stati Uniti (5) – Fare benzina

Lo so che pensate che gli americani, in materia di auto, siano stupidi; tutti ci siamo chiesti che cosa li spinga a comprare delle auto inutilmente grosse e pesanti, che consumano come un carro armato. E’ davvero impressionante osservare le auto per le strade americane; se nelle città si trovano generalmente auto come le nostre, solo più lunghe e pesanti, fuori città quattro auto su cinque sono SUV o pickup, alcuni talmente grossi da avere sei ruote (quattro sullo stesso asse posteriore) per aumentare la portata. Anche i camper sono giganteschi, grossi spesso come i nostri TIR – e più di una volta mi è capitato di incrociare un camper con attaccata dietro, al traino… un’auto per le piccole gite!

Va detto che negli Stati Uniti, a parte la costa est, i veicoli fuoristrada hanno un certo senso. Il territorio è molto meno densamente abitato che da noi, e vi sono ovunque grandi estensioni di praterie, foreste, montagne e deserti in cui le strade sono spesso sterrate, anche in posti molto turistici. In più, come abbiamo detto, gli americani sono pessimi guidatori, piuttosto paurosi e comunque abituati ad avere strade lisce e curate, dunque spaventati quando non lo sono.

Se non ci credete, leggete le recensioni della Monument Valley su TripAdvisor: tutti gli americani si lamentano che quei maledetti indiani Navajo – la cui considerazione da parte dell’americano medio è simile a quella che l’italiano medio ha per i rom – essendo i proprietari del parco non riparano la strada, che è “impercorribile” perché la sua prima parte, giù per una collina con un paio di tornanti, viene lasciata sterrata e piena di enormi buche, in modo da poterla percorrere solo coi veicoli speciali dei tour a pagamento.

Ora, io mi ci sono avventurato con la mia macchinina giapponese a noleggio e francamente le buche non sono peggio di quelle di certe strade di Torino, pur col fondo in terra battuta invece che in asfalto; se poi parliamo di una qualsiasi strada sterrata o ghiaiosa delle nostre colline e montagne, piena di gradini, rocce che spuntano, fossi… rispetto a quelle la Monument Valley è un’autostrada.

Insomma, l’americano ha comunque dei motivi per dotarsi di un veicolo 4×4 con ruote alte, in parte perché è mediamente più pauroso a guidare di noi, e in parte perché si trova più spesso su strade non asfaltate, e anche in mezzo a piene improvvise, tornado, nevicate di tre metri… anche il tempo americano è un po’ diverso. Ma non lo farebbe se non ci fosse un elemento fondamentale: il prezzo della benzina.

Noi avevamo i soldi abbastanza contati, e dunque io ogni sera consultavo il mitico Gasbuddy.com (è un peccato che la sua versione italiana non prenda troppo piede) per scoprire dove trovare benzina a buon prezzo; alla fine, ho pagato il carburante prezzi variabili dai 3,359 ai 3,999 dollari a gallone, ovvero 60-70 centesimi di euro al litro, meno della metà che da noi. (Certo, se fate l’errore di arrivare senza benzina nella Death Valley, dove ci sono solo due distributori nel raggio di oltre cento chilometri, preparatevi a pagarla ben oltre cinque dollari al gallone… il mercato non perdona.) Ma gli americani sono comunque furiosi perché la benzina è diventata mostruosamente cara: rispetto a due anni fa è quasi raddoppiata! Aggiungeteci che buona parte del petrolio mondiale sta sotto il loro terreno, e capite come mai non si siano mai fatti problemi a consumarlo; ancora quest’anno, io sono riuscito a percorrere quasi 7000 chilometri con circa 400 euro di benzina.

Anche fare benzina, in America, ha delle particolarità che bisogna sapere, sin da quando entrate in un distributore. Ricordate infatti che le pompe americane sono molto più corte delle nostre, per cui è obbligatorio che vi fermiate con il tappo del serbatoio dal lato della pompa e proprio davanti ad essa. Non fate come me nel 2007, che mi sono messo davanti alla pompa, ho fatto accreditare 40 dollari, e poi mi sono accorto che il serbatoio era dal lato sbagliato e ho dovuto fare manovra e inversione in mezzo al distributore con un bel macchinone americano, tra gli altri che facevano benzina, facendo a portellate con un coreano per evitare che si piazzasse lui alla mia pompa e mi fregasse i 40 dollari!

Infatti, in qualsiasi modo si faccia benzina, negli Stati Uniti non esiste che il serbatoio venga riempito prima di avere pagato! Il modo più comune di fare benzina è in contanti, in biglietti da massimo 20 dollari. Negli Stati Uniti solo i papponi e gli spacciatori usano i biglietti di taglio superiore a 20, per cui evitate di farveli rifilare dalla vostra banca; il modo migliore per procurarsi i dollari è avere un bancomat italiano con il logo Cirrus/Maestro e prelevarli sul posto, anche se il miglior tasso di cambio lo avrete pagando tutto con carta di credito.

Comunque, dopo aver parcheggiato la macchina davanti alla pompa, dovete scendere e dare i soldi al cassiere; se volete fare il pieno, fate una stima di quanta benzina ci può stare e arrotondate la cifra ai 10-20 dollari successivi. Il benzinaio, negli Stati Uniti, non esiste più da un pezzo, e le pompe sono self-service, comandate a distanza da un cassiere che sta dentro a un gabbiotto blindato, dialogando con voi tramite un microfono e scambiando i soldi tramite un cassetto mobile; in alternativa, il cassiere sta dentro l’immancabile supermercatino aperto 24 ore su 24, che è anche un’ottima risorsa per bibite e cibo di emergenza, e in qualche caso sta persino alla cassa di un adiacente fast food. Mentre gli date i soldi, ditegli il numero della pompa; il cassiere a quel punto abiliterà la vostra pompa ad erogare fino alla cifra che gli avete dato.

A questo punto potete ritornare alla pompa e fare benzina; per prima cosa dovete selezionare quale carburante volete, premendo uno dei pulsanti per scegliere tra tre diversi gusti di benzina (regular, medium e premium), che differiscono per potenza e additivi vari, o eventualmente il diesel, che però è piuttosto raro e costa pure di più; poi potete estrarre la pistola e rifornire. Io sono rimasto fregato (due volte!) da un vecchio tipo di pompa, che non ha il pulsante per selezionare il tipo di benzina; in queste pompe bisogna prendere la pistola e poi sollevare verso l’alto la base su cui essa normalmente sta appoggiata. Se alla fine non ci sta tutta la benzina che avete pagato, come è normale se fate il pieno, non preoccupatevi; lasciate lì la macchina, tornate dal cassiere e chiedetegli il resto. Non preoccupatevi, anche qui, come per lo stop a quattro vie, gli americani sono abituati ad attendere con pazienza, anche se magari davanti alle pompe c’è una lunga coda.

L’unico caso diverso che ho incontrato è in Oregon, la già citata provincia profonda, in cui una legge dello Stato vieta agli automobilisti di farsi benzina da soli (troppo tonti? concorrenza sleale con i benzinai “serviti” quando esistevano ancora?). In quel caso, c’è presso le pompe un benzinaio che si fa dare i soldi (o in alternativa vi grida “pay inside” per mandarvi dal cassiere dentro il gabbiotto) e poi vi rifornisce.

Vi stupirete forse che negli Stati Uniti non esistano come da noi i distributori automatici che leggono direttamente le banconote; in realtà non esiste praticamente il concetto di lettore automatico di banconote, perché tutti hanno in tasca una carta di credito e dunque è molto più comodo svolgere le transazioni automatiche con quella. Esistono solo le macchinette venditrici di bibite e cibarie a moneta; l’unica macchinetta che prendesse banconote che io abbia visto era quella per i biglietti del tram di Phoenix, che nell’ottica americana è un servizio per barboni e clandestini e dunque può anche darsi che una volta ogni tanto si presenti qualcuno con delle banconote, anche perché se avesse in tasca una carta di credito sarebbe invece andato a noleggiare un’auto.

Comunque, un certo numero di distributori dispone del “pay at pump”, che vi permette di pagare alla pompa, senza dover andare dal cassiere, con una carta di credito o di debito. Il problema è che spesso la procedura vi richiede di inserire il PIN o peggio ancora il vostro ZIP code (codice postale), e difficilmente funziona con una carta italiana: dunque la benzina è una delle pochissime cose che ho sempre pagato in contanti. Se il sistema americano vi pare strano, c’è di peggio; in Islanda esistono praticamente solo distributori automatici non presidiati che accettano solo la carta di credito richiedendo il PIN… niente carta o niente PIN uguale niente benzina.

Negli Stati Uniti le distanze sono enormi; non sottovalutate il problema della benzina o rimarrete senza, magari a cinquanta chilometri dalla pompa più vicina!

[tags]guida, auto, stati uniti, benzina, carburante[/tags]

divider
sabato 3 Settembre 2011, 12:14

Guidare negli Stati Uniti (4) – Segnali e precedenze

Le puntate precedenti sono state pubblicate il 28, 29 e 30 agosto.

I segnali americani non vi sconvolgeranno più di tanto, perché sono piuttosto semplici e, a patto di conoscere bene l’inglese, facilmente comprensibili. E’ solo dopo un po’ di tempo che vi accorgerete che sono piuttosto diversi dai nostri.

Girando per l’Europa, i cartelli non cambiano; al massimo sono diversi i tipi di carattere e i dettagli dei disegni. Negli Stati Uniti, invece, dei nostri segnali ne sopravvivono molto pochi; in sostanza, lo stop, il dare la precedenza, il senso unico e il senso vietato. Esistono poi i limiti di velocità, che sono un rettangolo con scritto “SPEED LIMIT” e la cifra, e i segnali di pericolo, che però non sono triangolari, ma gialli e romboidali; alcuni hanno al centro un disegno che illustra il tipo di pericolo, diverso dai nostri ma non troppo da non essere riconoscibile, ma molti hanno semplicemente una scritta. Non esistono invece i segnali di direzione obbligatoria, se non il divieto di svolta (quello rotondo con la direzione della curva sbarrata, che da noi è stato abolito una dozzina di anni fa).

La scarsità di segnali grafici è il risultato di una scelta culturale radicalmente opposta alla nostra. Da noi, i segnali sono “muti”, codificati appunto secondo uno standard grafico che richiede di essere studiato quando si prende la patente; senza tale studio, non si avrebbe modo di sapere cosa vuol dire quando si trova il triangolo rovesciato della precedenza o il cerchio sbarrato del senso vietato. Al contrario, negli Stati Uniti la logica è che il cartello deve essere comprensibile anche a chi non ha studiato o non si ricorda le lezioni, all’unica condizione che parli la lingua nazionale (l’inglese).

Per questo motivo, anche i pochi segnali grafici sono sottotitolati; su tutti i segnali di senso vietato c’è scritto “DO NOT” sopra e “ENTER” sotto la barra bianca; su tutti i triangoli per dare la precedenza c’è scritto “YIELD”, e peraltro sono molto più rari dello “STOP” ottagonale, che è ubiquo; sulle frecce oblunghe del senso unico c’è scritto “ONE WAY”. Come detto, i segnali di pericolo sono più spesso scritti che disegnati; dove noi avremmo il cartello triangolare col disegno del dosso, trovate un rombo con scritto “BUMP” o “DIP”; alle strettoie c’è scritto “ROAD NARROWS”; dove la strada è dissestata c’è scritto “ROUGH ROAD” o “LOOSE GRAVEL”.

I cartelli di direzione illustrano bene una delle caratteristiche della segnaletica americana, quella di essere più scarsa della nostra. Ad ogni incrocio tra strade a senso unico, noi abbiamo solitamente un cartello di preavviso delle direzioni consentite (tondo blu), spesso ripetuto su entrambi i lati della strada, poi all’incrocio un segnale rettangolare orizzontale di senso unico all’inizio delle direzioni consentite, e un segnale di senso vietato in quelle non consentite. Troppa grazia! A San Francisco, in molti incroci dentro i quartieri l’unica indicazione del fatto che la traversa è a senso unico è un segnale rettangolare di “ONE WAY”, posizionato però dal lato opposto rispetto a noi, cioè quello in cui non si può andare. I segnali di senso vietato sono usati con parsimonia e soprattutto in situazioni “frontali”, cioè in cui c’è del traffico che arriva di fronte e altrimenti proseguirebbe contromano (in generale, ci sono meno strade a senso unico che da noi). In compenso, negli incroci più trafficati – dove peraltro si capisce di non poter svoltare in una direzione semplicemente dall’assenza della relativa corsia – spesso c’è una scritta “NO LEFT TURN” o “NO RIGHT TURN” che ribadisce il concetto.

Anche la precedenza è interpretata in maniera piuttosto diversa. E’ piuttosto raro che si arrivi a un incrocio senza che vi siano segnali di precedenza, proprio perché il concetto di “precedenza a destra” è un’altra cosa che bisogna sapere e che non è desumibile semplicemente leggendo i cartelli. Ci sono mediamente più semafori, almeno nelle città; molte città sono costituite da grandi isolati (blocks) delimitati da strade che hanno un semaforo a ogni singolo incrocio, e al loro interno hanno soltanto stradine residenziali, spesso senza uscita, che si immettono su quella grande con uno stop. (Sono, in sostanza, costruite a isole; uno naviga nel mare aperto della città fino all’ingresso della sua isola, che nei quartieri ricchi può avere anche un cancello e una guardia, e poi vi entra per cercare la singola casa; questo riflette una società in cui ricchi e poveri convivono gomito a gomito, ma stando ben attenti a far finta di non conoscersi.)

E poi, c’è la grande invenzione americana dello “stop a quattro vie”, che è quasi onnipresente all’interno delle singole isole, ossia nelle zone residenziali dove il traffico non giustifica il mettere un semaforo ad ogni incrocio. Alla mia prima visita negli Stati Uniti rimasi completamente basito, arrivando a un incrocio e trovando il cartello ottagonale di stop messo su tutte e quattro le direzioni di accesso… che vuol dire?

Noi siamo abituati a considerare il segnale di stop come un dare la precedenza un po’ più autoritario; non solo devi dare la precedenza, ma devi anche fermarti perché l’incrocio è pericoloso. Negli Stati Uniti, invece, lo stop indica di fermarsi ma non necessariamente di dare la precedenza; la precedenza va data solo se la strada da cui arrivano le altre auto non ha essa stessa uno stop. Se invece anche loro hanno lo stop – cosa che si può dedurre perché guardando si vede l’inconfondibile forma ottagonale del cartello, anche se a rovescio, e perché generalmente sotto il tuo stesso stop c’è scritto “4-WAY” o “ALL-WAY” – conta l’ordine di arrivo sulla riga bianca tracciata sull’asfalto; si occupa l’incrocio uno per volta (due solo in casi eccezionali, se le due traiettorie non si sfiorano nemmeno) e si aspetta che chi passa sia uscito dall’incrocio per passare al successivo veicolo in ordine di arrivo.

In realtà, è un metodo molto intelligente; è sicuro, perché tutti si devono fermare e nessuno abborda l’incrocio ad alta velocità pensando di avere diritto di passaggio; in caso di traffico, dato che conta il momento in cui il singolo veicolo arriva sulla riga bianca (e non quello in cui si accoda), si passa a turno uno per volta da ciascuna delle quattro vie, evitando quelle situazioni in cui immettersi dalla strada che non ha precedenza è difficoltoso e si forma una lunga coda; se devi girare a sinistra, non stai lì ad attendere una vita che siano passati tutti, ma passi anche tu secondo ordine. Ha l’unico problema che è un metodo lento, perché ci si deve fermare, perché passa un veicolo per volta e perché ogni volta c’è un attimo di suspence da western per capire chi è il prossimo che passa, cosa che in incroci un po’ grossi può non essere immediatamente evidente a tutti. Noi italiani, fidatevi, finiamo per passare velocemente perché siamo abituati a buttarci in mezzo al traffico per riuscire ad immetterci, il che ci dota di riflessi molto migliori di quelli degli americani.

In generale, gli americani hanno una concezione dello spaziotempo al volante molto diversa dalla nostra. Una volta mi sono trovato a Los Angeles su un vialone, sulla corsia più a sinistra di tre, improvvisamente bloccato dietro a un tizio fermo prima di un incrocio con la freccia a sinistra, accanto allo spartitraffico. L’incrocio era senza semaforo, vuoto, e non arrivava nessuno né nel senso opposto, né dalla strada laterale. Ho cominciato a bestemmiare pensando che il tizio avesse accostato lì, nel bel mezzo della carreggiata, per farsi i fatti propri, o magari per aspettare qualcuno – come sarebbe stato da noi. Ho aspettato che passasse il traffico e poi ho cambiato corsia per aggirarlo, bestemmiando… e ho capito.

In pratica, il tizio doveva girare a sinistra, ed è vero che non c’erano macchine in vista se non nella nostra direzione; ma là dall’altra parte, oltre la siepe, oltre le quattro corsie in direzione opposta, oltre la fila di auto parcheggiate, sul bordo del marciapiede c’era un pedone che sembrava voler attraversare sulle strisce la strada laterale in cui lui voleva svoltare. E dunque, lui non poteva occupare l’incrocio fino a che tutto quello che doveva passare con precedenza, compreso il pedone sulle strisce, si fosse tolto di mezzo.

Da noi, l’auto avrebbe svoltato di corsa per non rischiare di perdere il momento di tregua sul viale nella direzione opposta, e poi, se gentile, si sarebbe fermata un po’ in mezzo tra la strada e le strisce, facendo passare il pedone; più facilmente, sarebbe passata di corsa anche sulle strisce, intimando al pedone di non muoversi. Da noi è normale attraversare in stile Frogger, per cui, se un pedone attraversa sulle strisce, le auto ferme in attesa (nel raro caso in cui si siano fermate) cominciano subito a passargli dietro o davanti, a venti centimetri dal naso o dalle spalle, non appena si è liberato un varco sufficiente. Se lo faceste là, persino a Los Angeles – città dal traffico tremendo, dove ovviamente si guida un po’ più sportivo e ho persino sentito suonare il clacson un paio di volte – sareste considerati dei probabili serial killer.

Almeno, però, avete capito come fanno a crearsi quegli ingorghi giganteschi: ottimizzando le regole per la sicurezza anziché per la velocità, la portata del sistema diminuisce. Da noi sarebbero tutti subito infuriati, ma basterebbe dotarsi di pazienza…

[tags]guida, auto, stati uniti[/tags]

divider
venerdì 2 Settembre 2011, 13:23

La politica e la casa

Ultimamente odio la politica, non solo quella della casta ma anche quella di certi colleghi, per cui il problema fondamentale del momento è se Grillo faccia o meno togliere i video da Youtube o come organizzare la fronda contro il famigerato Casaleggio.

La odio perché so che i problemi veri sono altri; per esempio, dopo la vicenda dell’anziano senza casa morto in macchina a Lanzo, ora finalmente i giornali si accorgono che non è un caso isolato. A Torino – a tre isolati da casa mia, in una zona che si vanta spesso di non avere i problemi di Barriera o di Porta Palazzo – una intera famiglia, due anziani e figlia trentenne, vive in un parcheggio sotterraneo dopo lo sfratto (la storia intera è qui).

E’ la crisi che avanza; in passato, vi si è sempre fatto fronte con il blocco forzoso degli sfratti, scaricando il costo dell’assistenza sui proprietari. Ora però questo non è più possibile, perché sempre più spesso i proprietari hanno bisogno del reddito della casa per sopravvivere o per aiutare a sopravvivere i propri figli, e talvolta ne hanno bisogno perché sono loro stessi finiti in mezzo a una strada.

Rispondere è non solo possibile, ma doveroso. Nel caso della famiglia di via Lera, ad esempio, il problema è duplice: queste persone hanno un reddito, ma non riescono a mettere insieme i soldi per la caparra di un nuovo alloggio; inoltre, sono in attesa dei tempi burocratici per ottenere un assegno di invalidità.

Il Comune – invece di rispondere, come hanno fatto le assistenti sociali, che la casa non è una competenza del loro ufficio – può farsi carico di assistenza temporanea; magari non è nemmeno questione di soldi, ma di aiutare persone poco esperte a trovare e gestire l’ingresso in un nuovo alloggio. Servirebbe un ufficio che, previa la massima trasparenza, possa dare su due piedi piccoli aiuti pratici o economici a persone che si trovano all’interno di una serie di condizioni predefinite – senza casa e senza lavoro, innanzi tutto anziani, senza dipendenze e senza pendenze penali.

Resta comunque la questione di fondo: ha senso che a Torino esistano 50.000 alloggi vuoti e contemporaneamente persone che letteralmente muoiono di stenti per strada? Ovviamente no, ma domanda e offerta non si incontrano; il Comune, pur provandoci, non ha soldi per pagare affitti anche calmierati per tutti quelli che non hanno una casa (e tantomeno per costruire un numero apprezzabile di case popolari); i proprietari, in assenza di offerte di mercato, preferiscono tenere sfitte le case proprio per la paura di non riuscire più a cacciare gli inquilini, e per i nuovi quartieri c’è anche la paura di “svalutare la zona” accogliendo inquilini squattrinati.

Nel lungo periodo bisognerebbe arrivare, a livello nazionale, a una legge che permetta di recuperare forzosamente almeno gli stabili lasciati in abbandono, che già sarebbero sufficienti a tamponare l’emergenza. Nel breve, quel che si può fare è assumersi ognuno la propria responsabilità; i proprietari potrebbero arrivare ad accettare affitti stracciati in cambio di garanzie assicurative su possibili danni e legali sugli sfratti; le fondazioni bancarie potrebbero metterci dei soldi. Il Comune dovrebbe essere efficiente nell’individuare e gestire i singoli casi, nel fornire soluzioni tampone per i periodi di passaggio, nel sollecitare le altre istituzioni a fare la propria parte.

Non è che non si faccia già, ma la dimensione del problema è destinata ad esplodere; o ci attrezziamo, o finiremo presto come negli Stati Uniti, dove in molte piazze e giardini delle città ci sono più barboni che foglie per terra.

[tags]politica, casa, torino, movimento 5 stelle, sfratti, edilizia, assistenza, povertà[/tags]

divider
giovedì 1 Settembre 2011, 18:10

Fassino bum bum e la chiusura di Porta Nuova

Come sapete, il consiglio comunale di Torino è ancora in ferie; l’ultima commissione si è riunita il 29 luglio e la prossima sarà lunedì mattina. L’Italia, tuttavia, non si ferma, e nemmeno apprezza queste cinque settimane di ferie; e allora, che fare?

E’ semplice: basta far finta di lavorare, e anzi sfruttare la mancanza di notizie politiche per occupare i giornali amici con la classica “politica degli annunci” imparata da Berlusconi: ogni giorno, a turno, spararne una grossa per ottenere l’agognata “visibilità”. E così, Fassino e i suoi assessori da alcuni giorni si danno il cambio ad annunciare di tutto un po’.

Il punto più basso – mi ha fatto veramente incavolare – l’ha toccato secondo me l’assessore allo Sport Gallo, che sabato scorso è passato con un lungo servizio al TGR Piemonte nel quale si raccontava come egli, a nome della Città, abbia donato un “kit” al velista professionista Marco Nannini, reduce da un fantozziano disalberamento dopo sole due ore di gara nel Rolex Fastnet 2011, per accompagnarlo nelle sue prossime competizioni. E io a chiedermi: ma con tutte le volte che mi avete detto che non ci sono i soldi per l’assistenza, per le strade, per i servizi, ma perché dobbiamo spenderne (anche pochi, la quantità non importa) per fare un regalo a un ex banchiere della City, che manco risiede a Torino, e che di mestiere gira gli oceani… solo perché così l’assessore può passare per due minuti al telegiornale?

La sparata più grossa tuttavia l’ha fatta il sindaco, annunciando di avere deciso di chiudere la stazione di Porta Nuova per farci, indovinate un po’, un centro commerciale, seguito da palazzine nello spazio occupato dai binari. A parte la scarsa fantasia, io mi sarei aspettato che una decisione del genere fosse perlomeno discussa col consiglio comunale prima di essere annunciata, anche perché non mi pare di averla letta nel programma che Fassino ha presentato solo a luglio. Evidentemente Fassino considera i consiglieri comunali della sua maggioranza degli yes-men, dando per scontato che, se lui così vuole, loro pigeranno i pulsanti per approvare senza aprire bocca; e ritiene, come da abitudine del PD, che il dialogo con l’opposizione e le relative procedure democratiche siano un fastidio inutile.

Ora, esaminiamo meglio nel dettaglio questa sparata. C’è qualche problemino tecnico: si dice che i treni che ora partono e arrivano da Porta Nuova (stazione con venti binari) partiranno invece da Porta Susa e Lingotto. Peccato che Porta Susa abbia solo sei binari, e che siano già ampiamente prenotati per il traffico attualmente previsto (ricordate che per una decina d’anni, secondo questa gente, dovrebbero pure passarci le famose millantamila tonnellate di merci provenienti dal Tav Torino-Lione).

L’idea sarebbe allora di far partire e arrivare i treni a Lingotto, per fermarsi a Porta Susa giusto il tempo per caricare i passeggeri. Ora io lo voglio proprio vedere, un bel Torino-Lecce estivo che deve caricare tutti in un minuto per liberare il sotterraneo di Porta Susa; e poi, se il treno va a Genova o a Piacenza o a Savona o a Modane cosa fa, parte da Lingotto, va a Porta Susa e poi torna indietro? Ma anche così facendo, Lingotto ha comunque solo quindici binari, già in buona parte utilizzati. Dove li mettiamo i treni di Porta Nuova?

Capite insomma che questa gente parla senza sapere? L’unico scenario in cui una roba del genere può stare in piedi è quello in cui si elimina la gran parte del traffico ferroviario di medio-lungo raggio da e per Torino, lasciando solo i treni suburbani e l’alta velocità, e privando la città dell’ottimo servizio – sia per il traffico business che per i turisti – di una stazione a distanza di camminata da tutto il centro.

In compenso, così gli amici potranno realizzare una grande speculazione edilizia e commerciale, usufruendo oltretutto di costosi servizi pensati per la stazione – la metropolitana, il tram 4, il parcheggio sotterraneo per il quale hanno anche abbattuto l’alberata di via Sacchi – mentre noi dovremo pagare di nuovo per ricrearli a Lingotto, la stazione più irraggiungibile della città.

C’è davvero da sperare che sia solo una sparata estiva per finire sul giornale… nel dubbio, però, abbiamo prontamente presentato due interpellanze (qui e qui) e vediamo che spiegazioni tireranno fuori.

[tags]media, politica, torino, fassino, porta nuova, treni, speculazioni, urbanistica[/tags]

divider
 
Creative Commons License
Questo sito è (C) 1995-2024 di Vittorio Bertola - Informativa privacy e cookie
Alcuni diritti riservati secondo la licenza Creative Commons Attribuzione - Non Commerciale - Condividi allo stesso modo
Attribution Noncommercial Sharealike