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giovedì 16 Settembre 2010, 16:48

La storia del genocidio lituano

Questa mattina all’IGF non c’era niente di interessante, dunque mi sono preso la mezza giornata per andare a visitare il Museo del Genocidio di Vilnius. Qui come già in Estonia, per “genocidio” si intende l’occupazione sovietica, estesa a tutto il periodo in cui la Lituania ha fatto parte dell’Unione Sovietica, cioè fino al 1990.

Per farvi capire il contesto, è necessaria qualche breve nota storica: la Lituania è una piccola nazione che ha vissuto il suo unico momento di gloria alla fine del quattordicesimo secolo, periodo in cui dominava la Bielorussia e gran parte dell’Ucraina e in cui Vilnius fu fondata e divenne la capitale; dopodiché è stata schiacciata e devastata dalle guerre tra i suoi ben più grandi vicini (Polonia, Russia, Prussia e Svezia), finendo infine in Russia con cui c’entra poco (i lituani sono cattolici e usano l’alfabeto latino).

All’inizio del ventesimo secolo, Vilnius e gran parte della Lituania facevano parte dell’Impero Russo; nel 1915, con la prima guerra mondiale, la Lituania passò ai vicini tedeschi (come sicuramente ricorderete, fino al 1915 l’attuale exclave russa di Kaliningrad era l’exclave tedesca di Königsberg, dunque la Germania confinava con la Lituania). Nel 1918, con la ritirata dei tedeschi, la città divenne la capitale della neonata Lituania indipendente, ma solo per pochi mesi, dato che nel 1919 fu occupata dai sovietici che li inseguivano. I trattati di pace assegnarono la città alla Lituania, ma all’epoca la maggior parte della popolazione era di etnia polacca (i rimanenti erano quasi tutti ebrei); dunque nel 1920 Vilnius passò ancora di mano, venendo invasa ed annessa dalla Polonia (la Lituania rimase un piccolo stato con capitale Kaunas).

Nel 1939 la Polonia crollò sotto l’invasione nazista; per effetto del patto Molotov-Ribbentrop, la Lituania ricadde sotto la sfera di influenza sovietica. Si trattava tuttavia di uno stato indipendente; dunque i sovietici offrirono di restituire Vilnius alla Lituania, ma in cambio pretesero di poter installare ventimila soldati in Lituania per difendersi da ulteriori avanzate tedesche. Dopo questa prima concessione forzata, nel 1940 i sovietici ne ottennero una seconda tramite un ultimatum, inviando ulteriori truppe e ottenendo un cambio di governo a loro favorevole, che poi convocò elezioni fantoccio in cui il 99,2% votò per l’unico partito ammesso, quello comunista, creando così un Parlamento che “chiese” l’annessione; la Lituania venne così “accettata” nell’Unione Sovietica. Nel 1941 tuttavia i nazisti avanzarono, e il fronte passò attraverso Vilnius, che divenne dunque tedesca fino al 1944, quando ritornarono i sovietici, che rimasero fino alla perestroika e all’indipendenza del 1990.

In sostanza, nel ventesimo secolo Vilnius ha cambiato nazionalità dieci volte, e ora mi è dunque più chiara la struttura misteriosa di questa città, con palazzi ottocenteschi che improvvisamente finiscono dentro un prato e vie che finiscono nel nulla; credo che sia stata bombardata parecchio. Il museo, tuttavia, si concentra soltanto su una cosa: le malefatte dei sovietici. Sui nazisti c’è soltanto un video in un angolino di una stanza e un cartello che segnala lo sterminio di 200.000 ebrei, ma tutto il resto è dedicato al comunismo sovietico (a Tallinn, più onestamente, avevano scritto chiaro nei commenti che “molto meglio i nazisti dei sovietici”).

Si comincia con la parte sui partigiani lituani; fino ai pieni anni ’50 migliaia di lituani si diedero alla macchia, vivendo in bunker nei boschi, per combattere i sovietici, credendo ingenuamente alla promessa fatta da Churchill e Roosevelt all’inizio della seconda guerra mondiale – “nessun Paese perderà l’indipendenza alla fine di questa guerra” – e attendendo un attacco occidentale all’Unione Sovietica che ovviamente non sarebbe mai avvenuto. Si prosegue con le deportazioni; circa 20.000 abitanti di Vilnius – tutta la borghesia e tutti gli oppositori alla sovietizzazione – vennero deportati durante l’occupazione del 1940, mentre altri 120.000 furono deportati tra la fine della guerra e la morte di Stalin.

Le persone politicamente impegnate venivano spedite direttamente ai lavori forzati nei gulag, mentre gli altri venivano “rilocati” in Siberia o in Kazakistan, e utilizzati come manodopera a basso costo; non erano formalmente prigionieri, ma non potevano lasciare il luogo di lavoro né comunicare con amici e parenti in Lituania, ed erano tenuti nella totale povertà. Tra i deportati c’erano anche circa 15.000 bambini, di cui un terzo morì di stenti nei campi. Solo a metà degli anni ’50 fu permesso ai deportati di ritornare in Lituania, dove peraltro non avevano più nulla, e solo dopo il 1989 fu permesso ai parenti di esumare le salme dalle fosse comuni in Siberia e riportarle a casa.

La parte veramente interessante del museo però si trova nel sotterraneo, dove è possibile visitare la prigione politica usata dal KGB durante tutti gli anni del comunismo. Nonostante non ci si aspetti certo una passeggiata di piacere, ci sono alcuni punti veramente impressionanti. Per esempio, ci sono due celle in cui il pavimento è stato scavato in una vasca, al centro della quale è stata messa una piccola piattaforma rotonda di ferro appoggiata su un sostegno centrale instabile; i prigionieri dovevano riuscire a stare in equilibrio sulla piattaforma, muovendo continuamente le gambe, per non cadere nella vasca piena di acqua gelida, e venivano lasciati lì anche per giorni. Vi è poi la stanza delle esecuzioni, con la parete sforacchiata dietro il punto dove venivano messi i condannati.

La stanza più impressionante però è quella delle torture: è una cella buia e vuota, senza finestre, di tre metri per due, in cui tutte le pareti sono state imbottite, compreso il pavimento, che è fatto da uno strato di pelle come di un divano. Lo scopo era quello di poter torturare i prigionieri senza che all’esterno si sentissero i colpi o le grida; ed ha in sé qualcosa di così intrinsecamente malvagio che è impossibile guardarla senza stare male.

[tags]lituania, vilnius, storia, unione sovietica, polonia, germania, guerra, comunismo, occupazione, genocidio, tortura, resistenza[/tags]

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5 commenti a “La storia del genocidio lituano”

  1. .mau.:

    giusto per rompere le palle: nel 1915 Königsberg non era un’exclave tedesca, vedi http://de.wikipedia.org/wiki/Datei:Deutsches_Reich1.png . È stata un’exclave dal 1919 al 1939, quando fu creato il corridoio di Danzica.

  2. vb:

    Ok, grazie per la precisazione (mi sembrava già abbastanza complicato così).

  3. valeskywalker:

    adesso ti manca l’uprising museum di varsavia, inaugurato nel 2004, fortemente voluto da Lech Kaczynski (il gemello morto) quando era sindaco di varsavia, (e gli sarebbe convenuto rimanere sindaco visto che era molto + amato ed efficiente come tale che da presidente della repubblica)

  4. for those...:

    Fuori dall’Europa la visita della famigerata S-21, la scuola trasformata in prigione dei Khmer Rossi in Cambogia, è un altro di quei posti da dove si esce con un groppo in gola.
    Ricordo ancora che io e la mia compagna rimanemmo quasi mezz’ora senza riuscire a dirci una parola all’uscita.

  5. Carlo:

    Ciao ho appena finito di leggere ‘Avevano spento anche la luna’ che parla appunto delle deportazioni dei lituani durante il regime di Stalin.

    Tu hai fatto più che bene a portare questa tua testimonianza: è proprio quello che chiede espressamente l’ autrice.

    La cosa che non mi quadra è che al termine del romanzo nei ringraziamenti si dice che durante le persecuzioni societiche 1/3 dell’ intera popolazione delle 3 Repubbliche baltiche persero la vita durante.

    Una cosa che veramente mi ha lasciato sconcertato nel racconto è oltre al fatto che l’ unica colpa di questi poveri deportati era di solito si appartenere provenire da una famiglia dell’ elite intellettuale o militare baltica: famiglie di professori universitari, dottori, artisti ( la cosa ricorda più che da vicino la repressione cambogiana) è che quando anche riuscirono a ritornare dai campi negli anni ’50 non trovarono i propri beni, non trovò più il proprio nome, perchè i sovietici avevano adottato anche i loro nomi ed furono costretti a vivere in campi sorvegliati costantemente dal KGB. Gli era fatto altresì divieto di parlare di ciò che avevano subito onde evitare una nuova condanna nei gulag siberiani….e questo si protrasse sino al 1990….proprio bella roba il Comunismo..

    Ciao

 
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