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Archivio per la categoria 'Culturaculturacul'


giovedì 3 Dicembre 2009, 17:53

Il prosciutto dell’ideologia

Raramente mi è capitato di trovare un caso da manuale di prosciutto ideologico sugli occhi come quello riportato oggi da La Stampa: la vicenda di un bambino di nove anni che a scuola (elementare) viene regolarmente picchiato da un compagno di classe, rom del vicino campo nomadi, fino a dover andare in ospedale a farsi medicare. Il preside, tuttavia, minimizza e dice che in fondo non è poi così grave, che è meglio lasciar stare, che sono bambinate, che “gli ha fatto solo 24 ore di prognosi”, e che tutto questo potrebbe portare cattiva pubblicità alla scuola e far calare le iscrizioni.

Il preside è un militante del PD, vicepresidente di circoscrizione, 58 anni – dunque, si presume, un sessantottino. E infatti l’articolo butta lì ripetutamente che tutti considerano il preside “troppo buono”, che in quella scuola non si punisce mai nessuno, che le maestre sono in lacrime, forse in preda agli allievi meno gestibili, giunti al punto da organizzare su Facebook l’assassinio del preside – anche questo un gesto minimizzato e non punito in alcun modo. Uno di quegli insegnanti che hanno poco da insegnare, figli di una ideologia che li porta a giustificare le violazioni delle regole e a concepire una educazione fatta soltanto di premi e di libertà.

E un preside che ha molto a cuore l’integrazione dei rom della zona, tanto da difenderli sempre e comunque: questa è l’accusa esplicita dei genitori del bambino picchiato, secondo cui a parti invertite il bimbo italiano sarebbe già stato punito duramente. Leggendo questa affermazione, immagino che il preside abbia pensato: “leghisti!” – ma non so se queste persone lo siano davvero, o siano magari un po’ accecate dall’emozione. Perché magari questi genitori pronti all’accusa hanno sorvolato sul fatto che, come dice il preside, il loro figlioletto continuava a prendere in giro lo zingaro e a insultarlo in modo razzista; del resto, si sa, la famiglia italiana media concepisce una educazione fatta solo di premi e libertà per chi fa parte della famiglia stessa, e di punizioni e vendette per chi dall’esterno osi mettersi in mezzo, sia una famiglia concorrente o un insegnante che pretende il rispetto delle regole da parte del bambino; peggio ancora se la famiglia è di rom.

E la famiglia rom, in tutto questo? Naturalmente minaccia di portare via i figli dalla scuola e denuncia il razzismo che ha subito. Per molti rom, come per molti stranieri furbi e disonesti, qualsiasi cosa dica loro un italiano è razzismo, o può essere strumentalizzato come tale. Vuoi evitare che mandino i bambini ad elemosinare? Sei razzista. Dici una banale verità, cioè che basta girare un campo nomadi per notare molte auto di lusso che nessun italiano normale può permettersi se non rubando? Sei razzista. Anzi, non te lo dicono nemmeno più loro, te lo fanno dire dai presidi buonisti del PD; e non so se questa sia ideologia, una ideologia di una cultura nomade in cui gli stanziali sono per definizione alieni e ostili, o se sia più banalmente furbizia.

Dunque, chi ha ragione? Non è possibile saperlo; non esiste una versione accertata dei fatti, e anche esistesse difficilmente sarebbe riportata su un giornale senza venire stravolta. Anche per quanto riguarda questo blog, le persone in questione potrebbero essere, anzi probabilmente sono, molto diverse da come le abbiamo raccontate, affidandoci a stereotipi e non alla conoscenza diretta. Probabilmente anche questa è una ideologia: l’ideologia per cui una persona, stando seduta in poltrona a digitare su un blog, possa trarre conclusioni sul mondo reale.

[tags]ideologia, torino, nomadi, rom, razzismo, scuola elementare, mirafiori, bullismo, pd, informazione, comunicazione, verità[/tags]

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domenica 29 Novembre 2009, 18:44

Yatta!

Per fortuna che c’è Internet: e così, molto prima che ne venga fatto un adattamento italiano, è possibile vedere il film dal vivo di Yattaman, uscito nei cinema giapponesi nella primavera di quest’anno e in DVD da poche settimane. Grazie, file sharing! Grazie, fansubbing! Questa è la canzone del Trio Drombo (qui una delle esecuzioni originali) in tutto il suo splendore: soltanto dei giapponesi potevano riprodurre dal vivo gli ambienti, i costumi e le movenze di un cartone animato con tale maniacale precisione.

P.S. Uno si chiede quanto poco ne dovessero capire di giapponese i traduttori italiani della prima ondata di fine anni ’70 (generalmente adattati a partire da una precedente versione inglese) per italianizzare Doronjo in Dronio anziché “drongio” come effettivamente si legge. Del resto, con Lupin ci siamo tenuti per anni Fujiko pronunciato come se fosse un nome francese…

[tags]anime, cartoni animati, giappone, yattaman, cinema[/tags]

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giovedì 26 Novembre 2009, 17:17

Il resto del pianeta

I bambini di oggi, almeno nelle città, spesso nascono e crescono in maniera iperprotetta. Passano il tempo tra un impegno e l’altro, scarrozzati in auto di qua e di là, tra una scuola, una palestra e un corso di qualche cos’altro. Quando non sono in giro, sono chiusi in casa davanti a un computer o a una console. E se sono in giro, sono sempre sotto controllo tramite il telefonino, tranne quando lo usano per scaricare suonerie o per giocare. Sono, insomma, sempre chiusi e isolati dall’ambiente circostante, che viene considerato come una fonte di pericolo, piena di rischi, di malintenzionati e di brutte avventure.

C’è, però, un momento in cui il bambino esce dal ciclo casa-scuola-playstation: il momento del viaggio. Un viaggio di una certa lunghezza, fuori città, costringe bambini e ragazzi ad accorgersi dell’esterno. In auto, infatti, non c’è molto da fare; e sono ben poche le famiglie in cui un viaggio diventa una occasione per una lunga conversazione. Mentre il papà guida e la mamma ascolta la radio, privi dell’elettronica e dell’abbondanza di ammennicoli che caratterizza molte camerette, sul sedile posteriore i bambini non possono fare altro che guardarsi attorno e scoprire il mondo; vedere la campagna, la montagna, gli animali, il paesaggio, il cielo.

Ma forse è meglio dire “c’era”. Non solo perché cellulare e playstation portatile già da anni colpiscono anche in auto, ma perché in questi giorni ho visto partire le campagne pubblicitarie dell’ultimo ritrovato da ammiraglia familiare: lo schermino sul retro dei sedili anteriori, che permette ai giovani virgulti di rincoglionirsi davanti a un DVD o a un giochino anche durante l’ora di viaggio verso le piste da sci o la casa al mare.

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Suppongo che sia un passo avanti necessario, per crescere generazioni di persone con il terrore di qualsiasi contatto con la terra, la paura delle malattie più fantasiose e l’intima convinzione che la verdura cresca nei sotterranei del supermercato, direttamente in cassetta; certi che l’habitat naturale di un cane sia un appartamento al terzo piano. Persone per cui la parte di pianeta non urbanizzato sia soltanto un fastidioso elemento di ritardo tra Milano, Milano Marittima e Courmayeur, o altri posti che, pur trovandosi fuori dalle metropoli, dispongano di condomini di almeno cinque piani e di una strada principale rigorosamente intasata di auto; un “resto del pianeta” da attraversare sempre più velocemente e sempre più indifferentemente, avendo come massimo momento di interesse l’acquisto di una rustichella all’autogrill.

[tags]terra, campagna, bambini, televisione, educazione, natura[/tags]

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lunedì 23 Novembre 2009, 14:19

Questione di articoli

E di articoli su Brenda ne sono stati scritti parecchi, in questi giorni; di belli e di brutti. Ma quasi tutti con l’articolo sbagliato: perché per la maggior parte dei nostri giornalisti, nonché degli italiani, Brenda è “un transessuale”. Eppure non dovrebbero esserci dubbi: una persona che si veste da donna, si comporta da donna e soprattutto si sente donna, che abbia subito interventi chirurgici o meno, che abbia cambiato sesso all’anagrafe o meno, ha una identità di genere femminile e come tale dovrebbe venire chiamata.

Per il Corriere della Sera, tuttavia, Brenda è “il transessuale”; lo è anche per La Stampa e molti altri giornali. Il Tempo si produce in un fantastico articolo in cui “le amiche” del titolo diventano “i transessuali amici” nel testo. Repubblica invece parte bene, ma poi si incaglia: se negli articoli Brenda è consistentemente “la transessuale”, la sua “amica China” diventa poi “il compagno della transex”. Probabilmente l’idea che due transessuali da maschio a femmina possano poi fare sesso tra loro fonde il cervello dell’italiano medio.

La Stampa, in uno stridio di arrampicata sugli specchi, sostiene che si può dire quel che si vuole, in quanto sul dizionario “transessuale risulta essere sia maschile che femminile”. Beh, certo, anche “cantante” sul dizionario può essere maschile o femminile, ma nessuno scriverebbe “il cantante Gianna Nannini” o “la cantante Vasco Rossi”.

Probabilmente, visto come viene trattata la transessualità in Italia, questo è davvero l’ultimo dei problemi; spesso sono le stesse persone in questione, comprendendo la difficoltà altrui, ad accettare senza problemi l’uso di entrambi i generi; e io non sono nemmeno particolarmente appassionato al tema della correttezza politica delle parole, dato che spesso aggiustare le parole mi sembra un pretesto per non voler affrontare la sostanza dei problemi e delle discriminazioni.

Credo però che, da parte di chi scrive per mestiere e parla agli italiani, ci vorrebbe più attenzione verso una persona che, comunque la si consideri, è stata di questo caso la vera vittima. Non oso pretendere che si arrivi, come all’estero, a parlare di queste persone per il loro lavoro o per le loro capacità, invece di anteporre sempre la loro condizione di genere a qualsiasi altra cosa; ma già cominciare a rispettare il loro animo sarebbe un bel passo avanti. Forse la morte di Brenda potrebbe servire a qualcosa, se in mezzo a tutto questo squallore spuntasse almeno un po’ più di coscienza, e un po’ più di rispetto, per la situazione socialmente complicata dei suoi pari.

[tags]lingua, genere, transessualità, brenda, giornalismo, stampa, discriminazione[/tags]

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martedì 17 Novembre 2009, 11:32

Perché in Italia non si fa la rivoluzione

Il filosofo Umberto Garimberti e padre Alex Zanotelli spiegano qual è il vero potere che controlla la società. Al di là delle conclusioni personali inserite nella seconda parte del video da chi lo ha fatto, quelle dei due intervenuti mi sembrano osservazioni interessanti e molto centrate.

Per chi volesse saperne di più, mercoledì 2 dicembre (ore 21 al Teatro Araldo di via Chiomonte 3/a) Torino a 5 Stelle presenta il telepredicatore finanziario Eugenio Benetazzo, che nel suo spettacolo spiega a suo modo le dinamiche dell’economia mondiale. Non ho mai visto lo spettacolo e non so se sarò d’accordo con tutte le sue conclusioni (del resto, non ho nemmeno comprato la biowashball) ma ne ho sentito parlare bene da chi l’ha già visto. Il biglietto costa 7 euro, una parte va a lui (che di questo ci vive) e una parte va a pagare le spese del teatro e, se ci avanza qualcosa, a finanziare l’associazione. Ecco una piccola anteprima:

[tags]economia, rivoluzione, italia, wto, banca mondiale, garimberti, zanotelli, benetazzo[/tags]

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sabato 14 Novembre 2009, 20:29

Novecento (3)

Per caso, in queste ultime settimane, mi sono capitati sottomano contemporaneamente due romanzi che, in questo contesto di ventennale, si sposano in maniera piuttosto interessante.

Il primo è il romanzo d’esordio di Mauro Pagani, Foto di gruppo con chitarrista, uscito ormai da qualche mese. Suppongo che sappiate tutti chi è Pagani: uno dei musicisti che hanno fatto la storia della musica moderna italiana, partendo dall’epopea della Premiata Forneria Marconi – l’unico gruppo italiano che abbia mai sfondato le classifiche internazionali non alla voce “pacchianate” ma alla voce “rock” – per passare per il periodo anni ’80 di De André, ossia Creuza de ma, e poi tanti altri esperimenti musicali di ogni genere. Certo, il curriculum di Pagani si è macchiato con la recente Domaaaaaaaaaniiiiiiiiiii per l’Abruzzo, ma insomma, dagli eventoni musicali benefici non si può pretendere troppo in termini di originalità (forse che era bella We Are The World?).

Tempo fa ebbi anche occasione di finirci a pranzo, grazie a Fiorello Cortiana che abita nel suo stesso palazzo, e l’impressione fu ugualmente buona. Il romanzo, tuttavia, letterariamente non è granché; e l’immutata stima per il Pagani musicista non può nascondere il fatto che esso sia pieno di dialoghi in cui le persone parlano come in un libro stampato (alzi la mano chi di voi ha mai usato l’espressione “sciogliersi come neve al sole” parlando con un amico) e di donne immancabilmente gnocche e disponibili, e che alla fine esso si riveli come un sottile “veicolo” per permettere a Pagani di sfoggiare dubbia modestia sulle proprie abilità musicali e di ripetere l’annosa lagna sulla PFM che avrebbe conquistato il mondo del rock globale per sempre, se solo non fosse stato per un complotto pluto-giudaico-massonico e per l’inspiegabile cattiva reazione degli americani all’idea di mettere la loro bandiera accartocciata in copertina. Chicca finale, la citazione di De André in quarta di copertina: furbata dell’editore, in quanto questo romanzo parla di De André più o meno quanto una confezione di cioccolato Kinder parla dei bambini tedeschi.

Nonostante questo, è un romanzo piuttosto interessante da leggere: un romanzo di fantascienza ambientato a Milano tra il 1969 e il 1979, che racconta da vicino i cambiamenti sociali di quegli anni. Immagino che per chi in quegli anni c’era possa essere una interessante riflessione su ciò che è successo, sull’evoluzione dal movimentismo all’impegno politico e poi al terrorismo oppure allo sculettìo in discoteca come John Travolta. Per noi attuali trentenni, vale per estensione la chiosa di Leonardo“il ’68 ci ha strasfracellato i coglioni” – e però c’è un certo fascino perverso nel leggere queste storie improbabili di giovani che pur in età universitaria non facevano un cazzo nella vita se non menarsi, scopare e drogarsi, e infatti sono diventati la classe dirigente che ha mandato l’Italia a puttane (ormai nel senso letterale del termine).

Noi trentenni, invece, rispondiamo con l’altro libro che mi è capitato per le mani: Studio illegale di Duchesne, pseudonimo sotto cui si è nascosto un praticante legale (aka precario della giurisprudenza) di un grande studio di Milano. Il libro è divertente e racconta con precisione l’ambiente affaristico di Milano di questi anni, tutto basato su paroloni inglesi usati a sproposito, mestieri la cui utilità nessuno riesce veramente a spiegare, ansie carrieristiche e necessità di apparire, e su una dose da cavallo di squallore e volgarità gratuite che solo la disponibilità di soldi e potere di chi la esibisce riesce a rendere accettabile per necessità. E’ un libro che riassume bene i motivi per cui nel 2002 scelsi di fare altre cose invece che trasferirmi a Milano a fare il manager: del resto, a un certo punto i protagonisti si trovano a fare una veloce “colazione di lavoro” davanti a un panino bresaola e caprino – e lì ho esultato come davanti a una tripletta di Rolando Bianchi.

Ai cinquantenni che ci strasfracellano i coglioni con gli anni ’70, io risponderei con la preghiera di leggere quest’ultimo libro: giusto così, per capire che bella società hanno messo in piedi per noi.

[tags]libri, letteratura, romanzo, mauro pagani, pfm, musica, anni ’70, de andré, studio illegale, duchesne, volgarità, una milano da inculare[/tags]

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martedì 10 Novembre 2009, 11:28

Novecento (1)

Naturalmente vorrei anch’io, in questi giorni, scrivere qualche pensiero per il ventennale della caduta del Muro, sollecitato dall’attenzione generalizzata di questi giorni. Sono però malato, per cui vi dovrete accontentare di qualche appunto sparso ogni tanto.

La caduta del muro è in realtà la fine della seconda guerra mondiale: la seconda parte del Novecento è davvero una appendice quarantennale di guerra gelida progressivamente disciolta, vinta non con le armi ma parte per fame e parte per darwinismo: nulla batte il mercato come sistema per promuovere l’innovazione, dunque a lungo andare i sistemi ad economia centralizzata sono rimasti sempre più indietro, tecnologicamente e socialmente, fino a crollare.

Qualcosa della seconda guerra mondiale, è vero, tuttora resta, partendo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ma vedrete che più prima che poi cambierà pure quello, anche se sarà l’ultimo mattone. Il resto sono frattaglie, talvolta con effetti che, non fossero seri, tendono all’esilarante: per esempio a tutt’oggi il Liechtenstein si rifiuta di riconoscere la Slovacchia come stato sovrano e viceversa, per via delle proprietà liechtensteinesi in Cecoslovacchia confiscate dal regime comunista subito dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Se gli anni ’70 (su cui magari torneremo nei prossimi giorni) sono stati il periodo della lotta impegnata, gli anni ’80 sono stati quelli del “rush finale” verso il traguardo ormai vicino. Le ideologie, apparentemente più forti che mai, già stavano morendo in mezzo alle “metropoli da bere” e al gigantismo plasticato. Ed è per questo che per capire il clima che portò alla caduta del muro ho ripescato una chicca che apparentemente c’entra poco.

Era il 1985 e per capire che anno fosse vi dico solo due date: marzo 1985, We Are The World; luglio 1985, Live Aid. Dopo due cose così, era chiaro come la musica fosse la nuova propaganda dell’Occidente, e gli artisti friggevano per essere generosi. E dunque, a fine anno, uscì questo:

Artists United Against Apartheid era il progetto di Little Steven – storico chitarrista di Bruce Springsteen – contro il casinò-villaggio vacanze sudafricano di Sun City, una roba che oggi considereremmo mostruosa per l’impatto ambientale, ma che vent’anni fa era mostruosa perché riservata ai vizi dei ricchi bianchi, tra i quali figurava in modo prominente l’ascoltare concerti di Cher.

Godetevi questo video, con Bruce vestito da Fonzie che cammina per la strada, Lou Reed in mezzo a due camionisti che passavano di lì per caso, Bono col pizzetto e una pettinatura improbabile (ma che voce!), Ringo Starr che suona la batteria col figlio ragazzino, i primi rapper di una tristezza indicibile… A tratti sembra una imbarazzante demo di un sistema di videomontaggio, di quelle dove ogni effetto disponibile deve essere sfruttato almeno tre volte per dimostrare la straordinaria potenza della macchina (all’epoca l’impatto doveva essere mozzafiato). Ma tutto faceva brodo, in una ondata di buonismo sincero, in cui il credere di poter cambiare il mondo finì, una volta tanto, per cambiarlo davvero.

Ecco, questo era il clima che portò il muro a cadere. Gli amanti del comunismo si lamentano spesso che quel clima fosse falso, che sotto sotto ci fossero i soldi e gli interessi industriali. E’ vero, ma relativo; perché non c’è alcun dubbio che, con tutti gli enormi limiti dell’attuale situazione politica globale, rispetto a vent’anni fa il nostro sia oggi davvero “un altro pianeta”, dove le guerre sono affari locali anziché planetari, e dove tutti gli uomini di buona volontà possono conoscere e apprezzare tutti gli altri. Dunque, come in tutte le cose umane, ci tocca tollerare il fatto che esse incorporino necessariamente delle belle contraddizioni.

I Queen, per esempio, nel 1985 andarono a Wembley per il Live Aid e, contro la fame nel mondo, diedero quella che è generalmente considerata la più grande performance live di tutti i tempi. Un anno prima, erano andati a suonare a Sun City.

[tags]muro, berlino, novecento, storia, comunismo, musica, concerti benefici, sun city, apartheid, sud africa, little steven, bruce springsteen, lou reed, bono, queen, live aid[/tags]

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domenica 25 Ottobre 2009, 10:30

Musei un po’ così

Ieri siamo andati a vedere il nuovo allestimento della Galleria d’Arte Moderna, approfittando del fatto che, come lancio, l’ingresso è gratuito per tutto il weekend.

La collezione è quella che è: qualcosa di interessante c’è anche (tra cui l’ottimo Warhol dei cinque morti undici volte in arancione, un bel po’ di Fontanesi, le pecore ideologiche di Pellizza da Volpedo), ma per buona parte del giro si sonnecchia; le cose migliori sono probabilmente quelle di arte più contemporanea, da Pistoletto a Gilbert & George fino ad alcune installazioni interessanti appena realizzate.

Tuttavia, vi invito a non mancare una parte speciale della mostra, il sotterraneo. Esso è dedicato a opere d’arte ultracontemporanea che vengono presentate senza nemmeno il titolo. In pratica, si gira per una cantina bianca, luminosa e apparentemente vuota, poi in un angolino si trova, che so, un sacchetto di cellophane rotto e buttato in terra: dopo un po’ (ma solo andando per esclusione, in quanto non c’è nient’altro lì attorno) capirete che quella è l’opera d’arte. Questo fa ovviamente sorgere dei dubbi: infatti anche la sedia di plastica trasparente del guardiano è un’opera d’arte, o è solo la sedia di plastica trasparente del guardiano? Io non lo so, però ho pensato che forse in quella cantina potevano metterci i profughi della Clinica San Paolo: sarebbe stato uno scopo decisamente più degno.

[tags]arte, arte contemporanea, musei, galleria d’arte moderna, gam, profughi[/tags]

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mercoledì 21 Ottobre 2009, 14:17

Crisi e formaggio

Il formaggio è un cibo che necessita di cura, amore e investimento a medio termine: invece di consumare il latte normalmente, bisogna prenderne una grande quantità e lavorarla fino a farla diventare un piccolo grumo quasi solido, che poi va messo a riposare per mesi, talvolta anni, prima di essere consumato. Per quanto il latte ormai costi meno dell’acqua in bottiglia, la produzione di formaggio – tanto più quanto più il formaggio è duro e invecchiato – è dunque una delle meno remunerative in funzione del tempo impiegato, e in ottica industriale è una di quelle che richiedono un bel po’ di capitale circolante.

Ora è arrivata la crisi, e anche nella vita quotidiana lo si vede da tanti segnali: per esempio il fatto che sul banco macelleria dell’LD siano comparsi i “nervetti di bovino cotti Montana”, ossia non solo si siano ricominciati a vendere pezzi di bestia che ormai sopravvivevano più soltanto nei piatti storici o nel trito per cani, ma che addirittura li si sia “brandizzati” con un marchio di fama, i cui marchettari un tempo si sarebbero ben guardati dall’arrischiare una associazione con un taglio di scarto.

E così, anche il formaggio mostra segni di crisi. Infatti si è costretti ad abbassare il prezzo, e per abbassare il prezzo che si fa? Tagliare su costo e quantità del latte è difficile, visto che il prezzo è già minimo e che “gonfiare” il formaggio non è facile (per quanto si vociferasse di caseifici che buttavano nel calderone della mozzarella un po’ di plastica fusa, tanto se non è troppa non si sente); dunque si taglia sul capitale circolante, ovvero sull’invecchiamento. Invecchiare il formaggio infatti vuol dire spendere in cemento per avere lo spazio per tenerlo, ma soprattutto vuol dire ritardare l’incasso, dato che la spesa per latte e personale effettuata oggi produrrà una vendita tra sei o dodici mesi.

E dunque, ecco il profluvio di formaggi freschi freschi, che paiono appena coagulati, dal colore pallido pallido e – come riportano le confezioni cercando di vendertelo come un plus – dal “gusto delicato” (traduzione: non sa di niente). I banchi dei discount sono pieni di formaggi che guardati in faccia si vergognano da soli; di imitazioni misteriose (oggi all’LD c’era “lo svizzero”, impacchettato in modo da sembrare Emmental ma chissà cos’era) e sottoversioni sprotette (sempre per l’Emmental, va forte l’“Emmental bavarese”); ogni tanto arrischio un acquisto, ma me ne pento sempre regolarmente.

Più preoccupante è però il fatto che la stessa tendenza sia seguita anche da chi il formaggio lo fa sul serio: la stessa formaggeria cooperativa della Val d’Ayas ha smesso da un paio d’anni di fare la fontina stagionata, vendendo soltanto più le forme invecchiate al minimo di legge o quasi; formaggio che ovviamente è sempre di un altro pianeta rispetto a quello della grande distribuzione, ma che ha un gusto timido e dolce, adatto forse ai cerbiatti ma non certo ai rudi montanari. D’altra parte, perché tenere la fontina a invecchiare per mesi in più, quando la differenza finale sul prezzo è del 10% al massimo, e quando comunque i turisti milanesi si ingoiano con convinzione qualsiasi cosa purché ci sia il marchietto sopra?

E così, per trovare la fontina termonucleare – quella tenuta lì per anni, di colore tra il marrone scuro e il rosso acceso, con un etto della quale sarebbe possibile alimentare per un anno la centrale di Trino – bisogna battere le fiere e le cascine… oppure andare a Cheese, l’altra faccia del pianeta formaggio: roba buonissima per gente che può pagare 16 euro una forma da pochi etti di pecorino di Pinzani.

Chissà: temo che questa sia l’inevitabile conseguenza di un mondo che considera il cibo soltanto più una merce come tutte le altre, dimenticando il patrimonio di cultura, storia, emozione e piacere che il cibo dovrebbe portare con sé, per rendere le nostre vite un po’ più ricche. Speriamo che si riesca ad invertire la corrente.

[tags]formaggio, latte, discount, industria alimentare, crisi[/tags]

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martedì 20 Ottobre 2009, 11:16

Tagliarsi da soli

Che l’Università sia luogo di sprechi, favoritismi, raccomandazioni e imboscamenti è noto a tutti; che negli ultimi vent’anni, grazie a una pioggia di fondi pubblici nazionali e locali, siano fioriti ovunque corsi di laurea bizzarri e atenei improbabili, creati soprattutto per dare lustro ai politici locali e per moltiplicare cattedre e stipendi, è altrettanto chiaro. Ben vengano dunque una razionalizzazione e un sano taglio a spese insostenibili e soprattutto inutili.

Questo, tuttavia, non può giustificare il fare di ogni erba un fascio; per questo lascia davvero perplessi l’idea (forse rientrata, non si sa per quanto) del Politecnico di Torino di chiudere tutte le sue sedi decentrate, comprese le due – ormai storiche e molto frequentate – di Mondovì e Vercelli. Ammetto di esserci affezionato – quando a metà anni Novanta ero rappresentante degli studenti nel Consiglio d’Amministrazione del Poli erano aperte da poco, e noi di Torino facevamo la spola per far nascere anche lì un po’ di animazione studentesca – ma davvero non riesco a capire i motivi razionali di una scelta del genere.

Intanto, non si capisce come mai i tagli più pesanti tocchino a una delle migliori università italiane, una di quelle che risultano tra le prime in tutte le classifiche nazionali e che ancora possiedono un po’ di prestigio internazionale. Poi, non si capisce bene il senso di un taglio che porterà con sé inevitabilmente anche un taglio degli studenti – dubito che quelli di Novara o di Savona verranno fino a Torino, più facile che vadano a Milano e Genova – e dunque delle entrate; anche perché chiudere le sedi vuol dire forse risparmiare qualche affitto (spesso peraltro pagato dagli enti locali) e un po’ di docenti a contratto, ma certo non permette di licenziare il personale regolarmente assunto. Insomma, anche in termini strettamente “aziendali” è una scelta strategica e finanziaria che equivale più che altro a un taglio dei propri attributi.

Queste scelte accademiche risultano solitamente da lotte di potere e accordi sottobanco tra le baronie interne; in questo caso non sono addentro e non so quale sia la posta in gioco, anche se alcuni giornali hanno scritto che l’obiettivo del rettore Profumo è “tagliare i costi della didattica per poter investire sulla ricerca”, che temo nella realtà rappresenti il desiderio di smettere di avere sul groppone quei rompiscatole di studenti e quelle noiose ore di lavoro fisso derivanti dall’insegnamento, e di potersi invece fare i fatti propri in ufficio, possibilmente con più soldi per farsi finanziare viaggi all’estero per convegni e qualche portatile nuovo. (Non tutti i docenti sono così, specie al Poli ce ne sono molti che danno l’anima per il proprio lavoro compresa la didattica, ma se voi foste un insigne accademico preferireste sperimentare nuove teorie che vi diano la fama o insegnare per l’ennesima volta le nozioni di base a un manipolo di ventenni, magari rumorosi e svogliati?)

Tuttavia, il vero problema dell’Università è un altro: come nella scuola, è l’ennesimo patto al ribasso di questa Italia. Qui il patto è: ti do pochi soldi (gli stanziamenti italiani per l’Università sono generalmente la metà che nel resto d’Europa) ma puoi farne quel che vuoi, nessuno ti verrà a rompere le scatole se assumi tuo figlio o se il tuo ultimo lavoro scientifico risale al secolo scorso. Il risultato è il profluvio di scandali e sprechi dei nostri atenei, che a sua volta giustifica agli occhi dell’opinione pubblica ulteriori tagli, che finiscono per ridurre ancora lo spazio per fare istruzione e ricerca di alto livello, il che fa scappare all’estero le persone capaci e lascia gli atenei nelle mani di mediocri e raccomandati, che causano altri scandali e sprechi e così via, in una spirale di degrado senza fine.

E’ lì che bisogna intervenire: aumentando i fondi in modo che l’Università non torni ad essere un privilegio per pochi, ma nel contempo introducendo una meritocrazia feroce e un controllo spietato su come questi fondi vengono usati.

[tags]università, politecnico, torino, tagli, gelmini, mondovì, vercelli[/tags]

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