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Archivio per la categoria 'Friends&Food'


lunedì 18 Agosto 2008, 18:09

Consigli per le sagre (2)

Per quest’anno ormai è finita, ma sabato sera abbiamo provato per voi una ulteriore sagra: per la precisione, la Sagra del Cinghiale di Pontey (AO), anche se sarebbe più corretto definirla la Sagra della Coda di Pontey (AO). Infatti, siamo giunti sul posto alle 19:20 – prendendocela anche un po’ comoda, temendo di arrivare troppo presto – e ci siamo trovati in mezzo a un ingorgo da festa di San Giovanni a Torino, con grumi di auto che si inerpicavano su per una stradina per parcheggiare accanto al campo sportivo, dove si tiene la fiera, e poi sopra e su per i monti in ogni tornante e angolo disponibile.

Così, dopo aver parcheggiato, alle 19:35 ci siamo messi in coda; una coda che attraversava tutto il tendone della sagra, poi usciva da un angolo e lo costeggiava per un ulteriore lato, e poi si sfrangiava nel mezzo del campo di calcio. I più esperti si erano dotati di generi di conforto, ma noi non eravamo preparati e siamo così rimasti in piedi praticamente per un’ora e mezza, sbucando davanti al punto di distribuzione del cibo alle 21:00 precise.

Gli è infatti che qui sono valligiani; invece di adottare, come in qualsiasi altra sagra, una coda per la cassa e poi una coda per la distribuzione del cibo – o ancora meglio un servizio al tavolo come a Cortanze -, questi hanno pensato bene di fare un’unica fila modello self service, in cui si prendono i piatti man mano che si scorre e si paga alla fine. Il problema è che i piatti sono cucinati al momento, per cui, su sette o otto pietanze, ce n’è sempre una che è in cottura: a quel punto, invece di far scorrere quelli che non la vogliono, al primo avventore che la richiede tutta la coda si ferma completamente per tre o quattro minuti, in attesa che arrivi la pietanza mancante. Insomma, solo a servire la coda ci sono una decina di volontari del posto, ma per la maggior parte del tempo otto o nove di loro sono lì con le mani in mano a guardare l’unico che deve servire il suo piatto. Aggiungeteci che non sono molto pratici (vabbe’, è una sagra) né molto oculati nelle scelte – mitica la “grigliatina”, piatto che costringe chi lo serve a prendere sei o sette pezzettini di carne inseguendoli uno per uno per il tegame e mettendoci mezzo minuto – e il risultato è un vero disastro.

La coda ha però avuto almeno il vantaggio di farci ammirare due tipi da leggenda: lui, cinquantacinquenne vestito da vela (in piena montagna?) e tutto sportivo; lei, squinzia quarantacinquenne un po’ passatella, tipo “so’ donna dell’omo vero”. Si sono infilati bellamente poco davanti a noi approfittando di una distrazione, poi hanno passato un’ora e mezza in coda affiancati senza dirsi una parola, nemmeno ciao: un grande rapporto! Alla fine dubitavamo persino che stessero insieme, e invece no, perché verso la fine hanno conversato per trenta secondi, argomento “cosa prendiamo”. E poi sono riusciti a prendere l’antipasto (l’unica cosa quasi priva di cinghiale) e la grigliata, schivando le cose più buone. Mah.

Bene, direte voi, dopo tutta questa coda – che mi ha permesso di pianificare abbondantemente le critiche da fare sul blog e le lettere di lamentela da inviare all’edizione locale della Stampa – il giudizio non potrà che essere negativo? E invece no: perché il cibo era davvero ottimo, con punte di eccellenza. Per qualcosa meno di venti euro a testa abbiamo preso un primo, un secondo e un dolce, più vino o acqua; le porzioni erano abbondanti e soprattutto buone. Sia i ravioli al cinghiale che la pasta al forno al ragù di cinghiale erano ottimi, ma la cosa davvero eccezionale era il cinghiale al civet con polenta, con la carne tenerissima e il sugo speziato al punto giusto. La grigliatina di cinghiale, in confronto, era soltanto passabile, consistendo di due bistecchine con l’osso e tre-quattro salsiccette, buone ma non indimenticabili. Infine, il dolce: la torta di pere e cioccolato era buonissima, ma la crema di Cogne – una crema pasticcera con dentro pepite di cioccolato fondente, da mangiare con un torcetto che era burro croccante – era davvero speciale.

Appuntamento quindi al Ferragosto dell’anno prossimo, rigorosamente non oltre le 18:45, che così magari in un’oretta ce la facciamo.

[tags]sagre, pontey, valle d’aosta, cinghiale[/tags]

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mercoledì 13 Agosto 2008, 10:55

Consigli per le sagre

Ieri sera, prima di partire per la montagna, abbiamo provato l’annuale Sagra dell’Agnolotto e della Grigliata di Cortanze (AT), che si tiene quest’anno da ieri fino al 17 agosto. Il paese non è lontano da Torino, ci si arriva in meno di un’ora o da Villanova via stradine e Montafia, o da Asti ovest per la comoda strada della valle, o dal traforo del Pino, Chieri e Andezeno per gli amanti delle statali. La sagra è nell’unica piazza del paese, anzi si lascia la macchina direttamente lungo la salita.

Vale la pena di andare solo per gli agnolotti, che sono eccellenti; ma ci sono tante altre cose buone, tra cui un’ottima caponata di zucchine e la grigliata. Noi abbiamo mangiato abbondantemente per 22 euro ciascuno, comprensivi di un antipasto a testa, una porzione e mezza di agnolotti a testa, una grigliata in due che constava di una bistecca, uno spiedino, due costine e due gnocconi di salsiccia speziata, più le patatine, poi un dolce a testa, un bicchiere di vino e acqua.

Da giovedì ci sono anche i tradizionali involtini rumeni di carne e riso; da stasera c’è anche il ballo liscio (cioè, stasera c’è addirittura Tony D’Aloia, non so se mi spiego: l’equivalente piemonliscio degli U2). In alternativa potete fare un giro del paese, cosa che si può ottenere anche restando fermi al centro della piazza e girando su se stessi, che la dimensione è quella lì. Il castello però è carino, anche se al matrimonio per cui vi andammo mesi fa gli agnolotti non erano buoni come quelli della signora della sagra (che poi mi chiedo, ma a fare a mano gli agnolotti per sei sere per centinaia di persone a sera, ma quanto tempo ci vuole?).

Insomma, questo è il periodo delle gite fuori porta, cosa aspettate?

[tags]cibo, sagre, cortanze[/tags]

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domenica 3 Agosto 2008, 01:14

Cibo

Oggi – cioè ieri, per voi che leggete (cioè sarebbe oggi, ma io scrivo stasera e metto il post in pubblicazione per domani mattina, che però per voi sarà ancora oggi, ma solo se sarete svegli molto presto, quindi sono quasi sicuro che sarà domani e quindi parliamo di ieri) dicevo, oggi sono andato a Otaru, secondo l’ufficio del turismo “the romantic city of Hokkaido”, nella realtà un magico incontro tra il porto industriale di La Spezia e le periferie di Los Angeles. E’ stato comunque piacevole – la cosa migliore è la linea ferroviaria che corre chiusa per alcuni chilometri tra le montagne e la spiaggia, anche se mi sembra di averne già viste del genere nella mia vita – ma ve lo racconterò poi, perché stasera parliamo di cibo.

Sapevo infatti che, finita la conferenza, avrei rischiato di morire di fame: la mia riluttanza ad andare al ristorante da solo è notevole, per cui quando sono all’estero vivo di fast food, di supermercati o comunque di posti dove posso prendere del cibo e mangiarmelo al volo per i fatti miei. Soffro comunque il complesso del commesso, per cui se la lingua del posto non è l’inglese devo anche vincere la resistenza secondo cui, entrato nel negozio, alla mia incapacità di comunicare nella lingua locale verrà opposta una sonora risata, dopodiché tutti i presenti nel negozio si fermeranno per gridarmi in coro “ah-ha”, e poi spunterà d’improvviso la mia maestra delle elementari per cacciarmi a bacchettate nell’angolo in castigo.

Immaginate quindi come sia per me l’idea di andare a chiedere del cibo in un posto dove non solo non capisco una parola della lingua (beh, tre o quattro le capisco, ma non di più), ma dove non so nemmeno pronunciare i nomi dei piatti, anzi nemmeno i numeri (cioè quelli li saprei, ma poi ho paura di sbagliare e allora non li dico).

Ieri sera, per dire, volevo provare il ramen: Sapporo è famosa per avere una “via del ramen” piena dei classici negozietti, quelli che si vedono in manga come Ranma 1/2 o Naruto, dove il protagonista si siede su uno sgabello al bancone e ordina ramen in quantità (per i non esperti: il ramen è spaghetti + brodo + eventuale altro materiale edibile sparso nel brodo). Così sono arrivato alla via, e mi sono reso conto che è proprio come nei fumetti: anzi, ci deve essere una legge che vieta di vendere ramen se la superficie del locale è superiore a tre metri quadri. In pratica, bisogna ordinatamente mettersi in fila – qui c’è una fila per tutto, altro che Londra – e attendere il turno, poi negoziare il posto al bancone o in un microtavolino, poi ordinare – e non c’era mezza riga di menu in inglese. Così, già intontito dalla folla, ho lasciato perdere: ho risolto comprandomi un sacchetto di patatine al 7-Eleven.

(La folla è un altro problema: io non ho mai avuto paura della folla, ma qui si esagera; in una serata qualsiasi di un giorno feriale, il marciapiede era rigonfio di centinaia di giovani, alcuni punk, alcuni in kimono, tutti in giro per la città. Qui tutti si muovono istintivamente in maniera ordinata, alla stessa velocità, procedendo esattamente diritto, il che permette di evitare scontri; per noi, abituati a sbracciarci e cambiare direzione di botto, è un delirio. Peraltro ho detto a un amico “che folla, qui!” e lui, mentre sincronizzava perfettamente il passo con la persona davanti e quella dietro per evitare l’urto, ha risposto “ma no, qui non c’è nessuno, non hai visto Shibuya!” Domani vedo Shibuya e vi dico.)

Comunque, anche il supermercato è un problema: perché c’è un intero supermercato pieno di roba da mangiare e da bere che sembra la nostra, ma non lo è. Qui ogni assaggio è una sorpresa: le normali convenzioni di associazione tra colore, forma, consistenza e gusto sono tutte definitivamente sospese. Insomma, ci sono scaffali e scaffali di cose, ma quasi nessuna ha un equivalente in occidente; ho trovato giusto in un angolino delle patatine simil-Pringles; come snack dolci, ci sono gli Snickers e un po’ di cioccolato, ma nulla d’altro; ci sono brioche e simili, però spesso hanno i ripieni più strani; gli snack salati sono un delirio, tipo crackers che sanno di fumo, bastoncini che sanno di pesce, palline che sembrano caramelle ma sanno di qualcosa tipo maiale in agrodolce, o chissà cosa. Anche tra le bevande, la Coca Cola sta dimenticata in un angolino (mai vista una cosa del genere); gli scaffali sono pieni di decine di tipi di té e succhi di frutta, oppure di caffé e caffelatte in lattina (non ho ancora osato).

Alla fine, oggi mi sono vergognato di me stesso e ho deciso: basta, oggi compro del cibo serio. Ho passato la mattinata sotto la pioggia, con in più un vento di direzione casuale che tirava l’ombrello dove voleva lui. Poi, all’ora di pranzo, volevo andare a prendere il treno per Otaru: ho quindi pensato di mangiare alla stazione. Sapevo che nel sotterraneo di uno dei tre enormi centri commerciali che costituiscono la stazione (dieci piani l’uno) c’era una food court; però era già tardi, e non volevo perdere tempo, per cui ho deciso di mangiare dai chioschetti davanti all’ingresso dei binari. La scelta era quindi limitata: c’era un bar che faceva curry bianco e altra roba troppo raffinata, una panetteria/pasticceria e un caffé con roba fritta.

Ho girato in tondo per dieci minuti, poi ho detto: basta, adesso proviamo. Il caffé-fritto aveva i fritti in vetrina vicino alla cassa: ho pensato che, mal che andasse, avrei indicato.

Effettivamente la cassiera, molto gentile, non parlava nemmeno mezza parola d’inglese, nemmeno “thank you”. Però, con la forza del dito indice, sono riuscito a ottenere un pezzo di pesce fritto e uno spiedino di palle di puré, o almeno sembravano delle palle di puré di media grandezza immerse nella pastella, poi infilzate nello spiedino e fritte, però c’era un retrogusto di qualcosa che sembrava tipo acetone o carcassa di animale, comunque quasi buono; il pesce era eccellente. Sicuramente ho commesso svariate scortesie, anche se non ho contato il resto; per esempio credo di aver portato dentro l’ombrello, e mi sa che non si fa; sono riuscito a non soffiarmi il naso, ma una volta ho starnutito e un’altra mi sono grattato la testa, e quelli vicino a me si sono allontanati. E poi ovviamente io ho usato la salviettina per pulirmi le mani dopo aver mangiato e non prima.

Comunque, galvanizzato dal successo, sono entrato nella pasticceria self service. In pratica è un self service – questo era piccolo, ma poi ne ho visto un altro enorme al piano di sotto, proprio come fosse il Brek – dove tu ti addentri con vassoio e pinzette, e lo carichi di dolci di ogni genere: brioche, pezzi di torta, cioccolato, palline ripiene… Questo aveva anche (sempre da prendere con le pinzette) pezzi di pizza e patatine: a saperlo prima… Poi arrivi alla cassa, porgi il vassoio, e qui…

…ecco, ho scoperto un’altra cosa che noi occidentali ignoriamo: questa è la civiltà dell’imballaggio. Qualsiasi cosa è imballata singolarmente, poi messa in un contenitore che viene imballato, chiuso e messo in un sacchetto – anche se stai comprando degli stuzzicadenti. Due giorni fa ho comprato dei biscottini, tipo quelli americani ma più piccoli: mi è stato dato il sacchetto, con dentro la scatola di alluminio stampato, che dentro aveva il vassoietto di plastica, che dentro aveva venti piccoli imballaggi di alluminio stampato con un biscotto ciascuno. Oppure, ho preso caffelatte e muffin a uno Starbucks: mi hanno dato un sacchetto di carta, dentro il quale hanno messo una base di cartone rigido con un buco tondo, in cui hanno infilato il contenitore di cartone spesso del caffelatte, tappato con una palettina di plastica che permette anche di girare la schiuma; a fianco, c’era un buco quadrato in cui hanno infilato il muffin, avvolto in un sacchettino di carta, e poi hanno ancora aggiunto un pacchettino di plastica contenente la salviettina umidificata. Fanno otto pezzi diversi di materiale, per caffelatte e muffin; l’Amazzonia ringrazia, ma loro sono ossessionati dall’igiene.

Anche nella pasticceria mi hanno avvolto ciascun pezzo in un sacchettino, poi mettendo il tutto in un sacchetto; così sono uscito, ho preso anche da bere alla macchinetta, e poi mi sono seduto su una panchina a mangiare, e solo lì ho realizzato che ero l’unico in tutta la stazione a mangiare sulla panchina. Ho il forte sospetto che non si faccia, anzi, a dire il vero non ho mai visto nessuno mangiare o bere alcunché per strada, nonostante sia pieno di negozi che vendono roba da portar via. Indagherò.

Stasera, quindi, ho tentato il gran colpo: ho provato il mercato del cibo del supermercato Esta, sotto la stazione. E’ come fosse un piano di Rinascente occupato da banchetti che vendono cibo fatto sul momento, di ogni genere; la cosa interessante però è che, siccome erano già le otto e un quarto e alle nove chiudevano, come in un vero mercato la roba era in svendita. Così per circa tre euro ho portato a casa il classico contenitore a scomparti chiuso, contenente riso e bistecca da una parte, e riso e bistecca di altro tipo dall’altra. Per meno di un euro ho preso uno spiedino di pollo; per un altro euro ho preso un dolce dal gusto imprevisto (qualcosa tipo cannella) ma buono, in un’altra pasticceria self service; poi alla macchinetta ho preso il mio té al limone; e, avendo capito le usanze, mi sono portato tutto buono buono nella mia camera d’albergo, dove ho spazzolato ogni cosa: tutto ancora tiepido, quindi fatto da non troppo tempo, e molto buono.

Sono quindi piuttosto contento: ho dimostrato a me stesso di poter provvedere alla necessità più basilare, quella di procacciarmi del cibo, anche in condizioni estreme come queste: io, cinquemila yen in mano, e qualche centinaio di bar, ristoranti, supermercati e distributori automatici nel raggio di cinquecento metri. Però mi son tenuto le bacchette: se trovo un altro posto del genere a Tokyo, sono tranquillo.

[tags]giappone, sapporo, cibo, viaggi, mangiare[/tags]

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martedì 29 Luglio 2008, 01:49

Nouvelle cuisine

Irrici! Che caso d’ubriachezza molesta
mi féste diventare per la cena,
e già io vi arrivai in ritardo
per via del compleanno di Salvofan, e non importa
e poi anche perché su Google Maps
lo stesso sito del ristorante Le Chiuse
la bandierina segnaposto segna nel posto sbagliato.

E poi è un ristorante lento lento,
lento, lento lento, leeeeeeento
leeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeento
leeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeento
anche se il cibo era buono.

Finisce così all’una di notte
quando il taxi del mattino è prenotato alle cinque e quindici
(i locali volevano le cinque e dieci, ma i tedeschi si sono imposti)
(avevano sonno e li capisco)
insomma dormirò quattro ore
ché ora devo ancora fare la valigia.
Però, che pieghe dritte alla camicia!

Saluti di qui all’amico Lauri
l’uomo che inventò il Nokia Padellone
(quella roba grigia che si usava a fine anni ’90)
e poi inventò anche il Nokia Forum
che noi usammo in abbondanza per chiedere dettagli delle midlet
perché Java in pratica è un pacco e non funziona mai.

Chiedete a chiunque se funziona Java: non funziona!

Ho visto però in atto un Nokia nuovo
che fa da computer con Linux sopra
e insomma, il mio HTC fa anche le foto
ma non è la stessa cosa
affatto.

Devo piegare la cravatta? E che succede
se la cravatta poi è spiegazzata
già oggi sono stato zitto tutto il tempo
e non avrò certo impressionato
e bon, però la sorpresa di festa c’è stata
anche se ero due ore e mezza in ritardo. Càpita!

C’è solo più una cosa da ridire
mentre estraggo il nastro da pacchi per chiuder la valigia:

basta nouvelle cuisine, e che cavolo!

[tags]dublino, viaggi, ristoranti, quell’espressione un po’ così[/tags]

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domenica 27 Luglio 2008, 12:36

Una giornata per immagini

dublino-sequenza.jpg

P.S. Il fish & chips viene da Burdock’s, che sta al fondo di Temple Bar, dove la strada principale piega attorno alla chiesa gotica in cima alla salita; proprio lì, sulla sinistra, c’è una viuzza dove, praticamente all’inizio, si trova il posto con il miglior merluzzo & patatine del pianeta: è fatto con pesce fresco (niente surgelati) e, pur essendo unto a dovere, una volta addentato sa di pesce esattamente come se aveste preso il merluzzo e l’aveste fatto al forno. Di fronte, tra la chiesa e gli uffici comunali, c’è pure il giardinetto per mangiarlo a morsi (il posto infatti è un buco e fa solo asporto).

P.P.S.: Linate = Terzo Mondo.

[tags]viaggi, dublino, howth, fish & chips[/tags]

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sabato 19 Luglio 2008, 10:05

Grom

Il mio esperto personale di gelato comunica che secondo lei anche da Grom hanno ceduto, e hanno cominciato a usare il latte condensato; sarà perché hanno appena aperto il terzo punto vendita in via Garibaldi?

Effettivamente era un po’ di tempo che non ci andavo; ci siamo andati ieri sera ed è stato un po’ deludente. Il gelato è comunque molto buono, per carità; è tutto il contorno che sta diventando un po’ troppo stucchevole.

Tu arrivi lì e ti metti in coda. Intanto, devi essere fortunato, perché c’è spesso una lunga coda; in più, da Grom non è ancora arrivata la magica invenzione del distributore di numerini, che ormai ha pure il panettiere sotto casa. E così, sei costretto a stare in piedi e fermo lì per dieci o venti minuti, a presidiare il tuo posto. Ora, se ci pensate, c’è un solo motivo per cui possono non aver messo i numerini: per costringere la gente a stare in piedi in fila, e fare in modo che ci sia sempre la coda fuori ben visibile, trasmettendo a chiunque passi di lì l’idea che quello sia un negozio molto richiesto e quindi valga la pena di provarlo. Tutto questo al costo di far stare scomodi i propri clienti, con evidente disprezzo nei loro confronti (e non solo nei loro: la coda, quando è lunga, ostacola anche il passaggio nella via, e provate a passare di lì in bici…).

La coda è artificialmente lunga: infatti ci mettono una vita a servirti, facendo mille mossettine che non ho mai visto fare in altre gelaterie, ma che dubito contribuiscano al gusto del gelato; in più, sempre per fare i fighi, ti chiedono se vuoi il cono di wafer o di biscotto, creando nelle persone dilemmi esistenziali che bloccano tutto per ore, anche se poi i due coni hanno esattamente lo stesso gusto. Ieri avevamo due persone davanti a noi, ma ci abbiamo lo stesso messo un quarto d’ora…

In compenso, è interessante il tipo di frequentazione: buona parte della clientela è infatti costituita da quelli che devono assolutamente andare in un posto carissimo e alla moda (e Grom è entrambe le cose) per sentirsi fighi. Questa parte di mondo è a sua volta divisibile in due sottocategorie: quelli che hanno i soldi e quelli che non hanno i soldi.

Quelli che hanno i soldi si presentano normalmente con un macchinone, che abbandonano in mezzo alla strada proprio davanti al portone, anche se c’è un posto meno problematico tre metri più in là. Spesso il macchinone è un SUV o un monovolume di quelli enormi, anche se sono in due. Tutti i componenti del gruppo sono firmatissimi; in genere cercano di passare davanti, e comunque prendono come un insulto personale il fatto di dover fare la coda come gli altri. Il peggio capita con i bambini: non solo vedi creature di tre o quattro anni con vestiti firmati dalla testa ai piedi, ma in genere tali creature sono prive di qualsiasi educazione e cominciano a correre qua e là, a saltare addosso al bancone e a fare i capricci sul gusto del gelato.

Quelli che non hanno i soldi sarebbero più normali, anche se poi arrivano al bancone in cinque e ordinano due coppette piccole (comunque due euro l’una per un’oncia di gelato); però ogni tanto cominciano a fare i capricci anche loro, per sentirsi più ricchi.

Io ci torno ogni tanto, perché il gusto al cioccolato extra è proprio buono; ma alla fin fine preferisco il caos allegro, popolare, ben organizzato e a prezzi ragionevoli del Siculo di via San Quintino.

[tags]torino, gelaterie, grom, negozi[/tags]

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sabato 28 Giugno 2008, 23:54

Mangiare a Parigi

Apparentemente, mangiare a Parigi è facilissimo: ovunque, ci sono solo ristoranti e brasserie.

Se però volete fare in fretta, perché siete in giro per visite e volete ridurre il costo e il tempo impiegato, diventa già un po’ più difficile. Nei quartieri d’affari, ci sono spesso dei supermercati con l’angolo “pranzo pronto”: e non parlo solo di tramezzini, ma di preparazioni di ogni genere già vendute con le posate dentro. Ho persino visto il bicchiere di vino monouso, un bicchierino di finto vetro con dentro una decina di centilitri di vino, chiusi da un tappo di alluminio tipo quello dello yogurt…

Dimenticatevi il fast food: a Parigi si usa pochissimo. Ci sono, è vero, parecchi McDonald’s e parecchi Quick, la locale catena concorrente; ma non sembrano granché invitanti. Il pranzo veloce nazionale è invece la baguette ripiena; qualsiasi bar ne ha una pila, e se vi limitate a quelle più semplici avete persino speranza di evitare le salsine e limitarvi al burro (per esempio burro e salame è ottimo). Esistono varie catene di panineria e bar, alcune delle quali, come Pomme de Pain, adottano il modello del fast food: vassoi e menu centrati sul panino, volendo anche caldo (io ne ho mangiato uno con cipolle, pomodori, bacon e raclette ed era decisamente buono).

Anche qui ho trovato poi una roba tutta francese, ossia il fast food della pasta: catene come Mezzo di Pasta, Nooi e Viagio (ce n’è un paio nelle vie attorno a Les Halles). In pratica, scegli una pasta, scegli un sugo, e per qualcosa come cinque o sei euro ti danno la bibita e un contenitore di carta, a tronco di piramide rovesciata, riempito della tua pasta fatta sul momento. I sughi sono adattati ai gusti francesi, quindi non hanno mai meno di cinque ingredienti mescolati con delle spezie, però il risultato è notevole, e la pasta è più che passabile, spesso buona.

Un’altra buona alternativa, che abbiamo usato ieri sera, è il Flunch di Les Halles, un self service / mensa dove mangi con meno di dieci euro. Non solo il cibo era migliore del Flunch italiano provato all’Ipercoop, ma il Flunch francese ha “legumes a volontè”: in pratica, dopo aver comprato un piatto, puoi rifornirti all’infinito di contorni, che comprendono non solo verdure varie, puré e patate fritte, ma anche riso in bianco e pasta al sugo. E lì, insomma, ci ho dato.

Esistono anche, a uso dei turisti, catene di livello un po’ più elevato, come Hippopotamus (hamburger di carne vera) e Leon de Bruxelles (moules et frites, anche se le recensioni dicono che il costo è relativamente alto e il livello è bassino). Se no, ci sono milioni di brasserie.

Siccome però oggi era l’ultima sera e volevo un vero ristorante, ho recuperato questo sito e ho provato a cercare un locale che sembrasse buono nella zona del Marais, che è un po’ l’equivalente parigino del nostro quadrilatero. Siamo così finiti al ristorante-vineria Le Rouge Gorge, sulla rue Saint-Paul; per gli standard parigini è un posto alla mano ed informale, il che significa che è elegantissimo ma del genere “finto sciupato”, con tavoli di legno da vecchia osteria però lucidi e tiratissimi, e un sacco di vecchi oggetti e bottiglie usate alle pareti, e un padrone gentile che si mette in jeans per fingere di essere tra amici.

Per 35 euro a testa – che per Parigi è una cifra medio-bassa, equivalente per i livelli torinesi a un 20-25 euro – abbiamo preso ognuno un antipasto, una portata principale e mezzo dolce; era tutto decisamente buono, e anche la quantità era generosa, almeno per le abitudini di qui (in termini di porzioni italiane la si sarebbe giudicata appena sufficiente). Io ho mangiato uno sformatino di paté solido di sardine che era davvero ottimo, per niente burroso, e un carrè di agnello al forno altrettanto buono; il dolce poi era un fondente al cioccolato con panna e salsa di lamponi, eccellente. In più, io ho aggiunto un’altra dozzina di euro per due bicchieri di vino, un bianco e un rosso; erano tutti e due eccezionali, insomma ne valeva la pena.

La sensazione quindi è che, potendo spendere, a Parigi ci sia spazio per esperienze culinarie di ottimo livello, almeno se si evitano i posti troppo turistici. Secondo me vale la pena di fare come noi, cioè sopravvivere con supermercati e fast food per i pasti normali, ma poi concedersi un buon ristorante almeno per una sera.

[tags]viaggi, parigi, cibo, ristoranti, fast food[/tags]

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mercoledì 25 Giugno 2008, 08:53

Reminiscenze ancora, di Parigi

Succede ogni tanto nella vita: una serata inattesa che ricorderai a lungo, per la strana combinazione di fattori. In questo caso, è successo che dovessi una serata fuori a Izumi; pensavamo di andare insieme al party del punto Bretagna (.bzh per la precisione), ma poi avremmo incontrato i nostri colleghi dell’At Large e il cibo mi sarebbe andato di traverso.

Per questo lui ha estratto la sua guida giapponese – come ogni giapponese, in qualsiasi parte del mondo ha una guida del posto in giapponese, che gli dice cosa è sano fare per un giapponese – e ha scodellato il ristorante giapponese Yen, a San Germano ai Prati, che poi è within walking distance da dove siamo noi, a Monparnaso.

La passeggiata d’andata è stata molto professionale, un circondare il grosso birillone della torre nera che sovrasta la stazione, e poi una lunga discesa per negozi sulla via di Renne. Arrivati davanti alla chiesa di san Germano, abbiamo subito individuato il nostro posto, in una via laterale; temevamo non ci fosse posto, e invece era deserto. Peccato che ci fosse un piccolo problema: nell’intero quartiere mancava la luce!

Ci siamo così assisi lo stesso, dopo una lunga discussione relativa ai dettagli della conferenza di ICANN e alla mia incombente visita in Giappone. Non c’erano però chance di avere del cibo, e così, mediante una contrattazione trilingue – lui in giapponese, io in francese, e tra noi in inglese – ci siamo accontentati di una bottiglia di bianco.

Dopo un’ora di chiacchiericcio, eravamo già quasi parenti; complice il bianco secco secco e molto buono. Stavamo, è vero, chiedendoci che fare, giacché di elettrico non v’era nulla, e di conseguenza non c’era cibo in vista. Dopo oltre un’ora, alle otto e un quarto, il boato: l’intero quartiere in piedi ad applaudire l’azienda elettrica, che improvvisamente ristora l’energia in tutte le locande.

La cena è stata ottima, provando un po’ di tutto: melanzane fritte e insalsate, pezzetti di pollo in esplosione di pastella, ben tre pezzi in due di pesce arrostito in maniera egregia, e poi il piatto principale, la soba: che sarebbero spaghetti freddi da intinger nella soia, naturalmente dopo averla riempita di wasabi e di un’altra erbetta il cui nome già mi sfugge, ma che era molto buona. E non dimenticate che dopo averlo finito dovete farvi portare l’acqua della pasta, e mescolarla al fondo della soia: e trincare tutto ciò che ne deriva. Altro che ramen, che – come mi disse Izumi – è roba depravata da cinesi.

Ci siamo anche baccagliati un francese e un belga al tavolo a fianco, e insomma la serata è scorsa via memorabile, soprattutto per la sua improbabilità: quand’altro vi capita un tete a tete con un giapponese in un ristorante privo di elettricità, ma con una seconda bottiglia di bianco fruttato e inimitabile? Non capita, e quindi cosa importa dei dettagli, tipo il conto da centotré euro a testa, questi – ahimé – che già ho pagato io. Si vive una volta sola, e una volta sola nella vita si congiungono gli astri e ti regalano quella combinazione in particolare: non è forse meglio gioirne, e lasciar stare le questioni terrene di denaro?

Segue anche il ritorno pedestre da San Germano ai Prati, completamente e totalmente ubriachi, evitando le macchine sfreccianti per grazia divina, o perché illuminati dal buon bacio degli dèi. Ci scappa persino il taiwanese che ci offre il caffé, ma rifiutiamo: e che diavolo, mica ci ubriacammo per niente. C’è indubbiamente fraternità nell’alcool, o meglio nella velocità del rendersi ebbri, tra il sottoscritto e i giapponesi; anche se quello che a fine cena versava il vino nell’acqua e l’acqua sul tavolo era lui, badate bene! Ma a ben vedere sotto quell’acqua c’era un bicchiere immaginario: quello della fratellanza inusitata.

Saluti, mentre emetto un dolce e sublime odor di soia! Viva le serate a caso, preordinate.

[tags]italia, francia, giappone, ristorante, soba, parigi, san germano ai prati, fratellanza, casi della vita, serate da ricordare, ubriachezza immodesta, cioè veramente ho pagato un conto da centotré euro e sto qui solo lievemente turbato?[/tags]

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sabato 14 Giugno 2008, 14:30

Tema: Alessandria

L’altra sera io e un gruppo di amici ci siamo ritrovati ad Alessandria. Eravamo lì per un motivo troppo nerd per essere spiegato, ma ciò che conta è che erano quasi le otto e volevamo trovare un bel posto per mangiare; Osterie d’Italia alla mano, abbiamo mirato al ristorante Cappelverde, via San Pio V.

Il problema è che nessuno di noi aveva un navigatore; quello di Simone era finto, nel senso che sul cellulare compariva soltanto l’ingrandimento di uno screenshot di Google Maps relativo al posto dove eravamo andati prima. Cosa fanno allora quattro amici per trovare via San Pio V ad Alessandria?

Per prima cosa abbiamo consultato l’atlante del Touring, che ha una cartina della città, ma sfortunatamente non riporta tale via. Allora il sottoscritto ha pensato di individuare una centrale operativa fissa – un amico, un parente, chiunque fosse davanti a un computer – a cui telefonare per chiedere di collegarsi a Google, cercare l’indirizzo e dare indicazioni. Certo, c’era anche la possibilità di fermarsi e chiedere, come ha sottolineato l’unica donna del gruppo, ma noi siamo uomini e non dobbiamo chiedere mai. E così anche la centrale operativa è stata rimandata: ci siamo dati la sfida di percorrere sistematicamente in auto tutto il centro di Alessandria fino ad incocciare per caso nella via in questione.

Dopo venti minuti di giro, abbiamo realizzato che Alessandria ha una peculiarità: non solo tutte le vie sono intitolate per qualche misterioso motivo a città venete o emiliane, ma sono anche vie strette e piene di auto abbandonate a caso. Siamo così sbucati di nuovo sulla circonvallazione, e dato che la fame premeva stava per scattare lo scaricamento di barile con conseguente rissa, quando io ho esclamato: “là!”. Effettivamente, c’era un cartello con scritto “via San Pio V”, e con la fame che avevo l’ho visto senza fallo da un centinaio di metri.

Trovata la via, abbiamo parcheggiato e siamo arrivati a piedi al ristorante: peccato fosse in ferie. Abbiamo così deciso di allargare la ricerca, e percorrere il centro fino a trovare un locale di nostro gradimento. Ecco, non è che non l’abbiamo trovato: semplicemente, in centro ad Alessandria non esistono locali. Non esistono nemmeno abitanti, direi: è un’unica sequenza di basse cascine e condomini, trasformati in una conurbazione che alle otto di sera di un mercoledì di giugno risulta deserta. L’unica cosa aperta erano i negozi cinesi; per il resto, nulla di nulla, nemmeno nelle piazze più centrali: sembrava la città fantasma di Chernobyl.

Alla fine, comunque, è andata bene: Fabbrone c’era già stato ed ha individuato l’unico ristorante aperto nel raggio di chilometri, il ristorante giapponese Zen, che si è pure rivelato ottimo, niente affatto caro e pieno di belle ragazze. La serata così è finita in gloria, però siamo rimasti con l’inquietante dubbio di cosa facciano i mandrogni la sera: c’è chi suggerisce che rimangano chiusi in casa con le belle ragazze, e se è così, siamo contenti per loro.

[tags]alessandria, cibo, fame, san pio v, ristoranti giapponesi, deserto[/tags]

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venerdì 25 Aprile 2008, 12:10

Cibo europeo

Se oggi – ma anche domani o dopodomani, finisce domenica sera – siete in giro per Torino, al V2-Day o all’anti-V2-Day o anche solo per i fatti vostri, vi consiglio caldamente di passare dalla Fiera Europea: si tratta di un grosso mercatino di cibo di strada da tutta Europa, dove potrete mangiare o comprare le specialità culinarie di vari paesi. Si tiene ai Giardini Reali, cominciando dall’uscita sul portico di piazza Castello e scendendo fino a corso San Maurizio. C’ero stato gli anni scorsi, mangiando un mix di paella, bratwurst e pecorino sardo, e meritava!

[tags]torino, cibo, fiera europea[/tags]

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