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Archivio per la categoria 'Itaaaalia'


mercoledì 2 Dicembre 2009, 12:34

Furbetti d’Italia

Questo video invece è dedicato al nostro Presidente della Repubblica: un presidente furbetto per un paese di furbetti. Ciò che ha fatto con i suoi rimborsi spese quando era parlamentare europeo non è strettamente illegale (dato che si erano approvati da soli la norma che consentiva di farlo) e per gli standard italiani è anzi considerato… peggio che normale, scontato; per gli standard del resto del mondo è un furto bello e buono ai danni della collettività, e il fatto che sia legale non lo rende meno immorale.

A me sembra sempre un po’ ipocrita puntare il dito sugli altri, tra l’altro in maniere mediaticamente manipolabili, quando non conosco praticamente alcun italiano, me compreso, che non sia mai almeno una volta uscito da un negozio senza scontrino o non abbia mai pagato l’idraulico in nero; anche perché a forza di puntare il dito su tutto indistintamente si finisce per perdere il senso della misura, e per condannare allo stesso modo chi ruba una mela per fame e chi ruba i miliardi sugli appalti, o persino per non condannare chi ruba i miliardi sugli appalti perché tanto “tutti rubano” (le mele).

In questo caso però, ci si chiede che bisogno di mele debba avere Napolitano, e perché, nelle alte posizioni istituzionali che ha sempre occupato, non abbia ritenuto di dover dare l’esempio anche su queste relativamente piccole cose, perdipiù non avendo nemmeno il coraggio di sostenere la responsabilità delle proprie scelte davanti a un giornalista.

[tags]napolitano, presidente, repubblica, rimborsi spese, parlamento europeo, onestà, legalità[/tags]

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martedì 24 Novembre 2009, 18:20

Acqua pubblica o acqua privata

Quella per l’acqua pubblica è una battaglia che Grillo porta avanti da anni, e prima di lui già molti altri; dunque in questi giorni sono stato bersagliato da messaggi di indignazione per l’approvazione in Parlamento della legge che permette la privatizzazione del servizio idrico. Al di là dell’ovvia considerazione che l’acqua è un bene vitale e dunque è vitale anche che esso sia gestito nel pubblico interesse anziché come una merce qualsiasi, là dove la privatizzazione è stata fatta le bollette sono andate alle stelle.

Del resto, non vi sfuggirà che al momento quella dell’acqua è l’unica bolletta di cui la maggior parte di noi nemmeno si accorge, al punto che viene emessa al condominio e divisa in maniera presunta, in base agli abitanti degli alloggi, perché le cifre in ballo sono talmente piccole che non vale la pena di installare contatori individuali. Qualcuno deve essersi chiesto: tanto la gente non smetterà comunque di comprare l’acqua, dunque perché non ne facciamo salire il prezzo per intascarci la differenza?

La vicenda è interessante anche perché tocca una questione fondamentale, quella della divisione di ruoli tra pubblico e privato. Molti di coloro che difendono l’acqua pubblica intendono tale difesa nel senso più rigido possibile: secondo loro, l’intero servizio idrico deve essere gestito da una società al 100% pubblica. Io, in linea di massima, non sono d’accordo; specialmente in Italia, è evidente a tutti come molti dei servizi affidati a società pubbliche siano gestiti al minimo indispensabile, se non lasciati allo sfascio, e i casi virtuosi rappresentino una eccezione. E’ utopistico pensare che questo possa cambiare facilmente, per via della mentalità italica per cui ciò che è di tutti non è di nessuno o al massimo è in uso privato alla persona o al partito che lo amministra.

La questione dunque non è se privatizzare o nazionalizzare; la questione è che il pubblico ha un ruolo irrinunciabile rispetto alle risorse fondamentali, quello di indirizzo e controllo. Il fatto che l’azienda che offre il servizio sia pubblica o privata dovrebbe essere irrilevante, perché lo Stato dovrebbe porre regole a garanzia degli interessi della collettività e dovrebbe garantirne il rispetto. All’interno di quelle regole, è poi giusto che un privato cerchi di massimizzare l’efficienza economica e dunque creare benessere, posti di lavoro, buon uso delle risorse: e questo vale anche per l’acqua, dato che la principale fonte di sprechi sono i nostri acquedotti pieni di falle che nessuno ha interesse a tappare.

Come al solito, il vero problema dell’Italia è la svendita dello Stato; la trasformazione dei politici in servi degli interessi economici privati, e l’abolizione per mancanza di risorse del sistema giudiziario. In queste condizioni, tutto il discorso che abbiamo appena fatto va a farsi benedire: perché alle teoriche efficienze del privato si sostituiranno gli arbitrii, le speculazioni e lo sfruttamento per interesse privato di antichi investimenti collettivi, lasciati nelle mani dei soliti amici degli amici; come è già successo per Alitalia, per Telecom, per le autostrade. A questo punto, meglio il servizio pubblico, che poi in molte città, compresa Torino, non è affatto male.

[tags]pubblico, privato, privatizzazione, nazionalizzazione, acqua, servizi[/tags]

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lunedì 23 Novembre 2009, 14:19

Questione di articoli

E di articoli su Brenda ne sono stati scritti parecchi, in questi giorni; di belli e di brutti. Ma quasi tutti con l’articolo sbagliato: perché per la maggior parte dei nostri giornalisti, nonché degli italiani, Brenda è “un transessuale”. Eppure non dovrebbero esserci dubbi: una persona che si veste da donna, si comporta da donna e soprattutto si sente donna, che abbia subito interventi chirurgici o meno, che abbia cambiato sesso all’anagrafe o meno, ha una identità di genere femminile e come tale dovrebbe venire chiamata.

Per il Corriere della Sera, tuttavia, Brenda è “il transessuale”; lo è anche per La Stampa e molti altri giornali. Il Tempo si produce in un fantastico articolo in cui “le amiche” del titolo diventano “i transessuali amici” nel testo. Repubblica invece parte bene, ma poi si incaglia: se negli articoli Brenda è consistentemente “la transessuale”, la sua “amica China” diventa poi “il compagno della transex”. Probabilmente l’idea che due transessuali da maschio a femmina possano poi fare sesso tra loro fonde il cervello dell’italiano medio.

La Stampa, in uno stridio di arrampicata sugli specchi, sostiene che si può dire quel che si vuole, in quanto sul dizionario “transessuale risulta essere sia maschile che femminile”. Beh, certo, anche “cantante” sul dizionario può essere maschile o femminile, ma nessuno scriverebbe “il cantante Gianna Nannini” o “la cantante Vasco Rossi”.

Probabilmente, visto come viene trattata la transessualità in Italia, questo è davvero l’ultimo dei problemi; spesso sono le stesse persone in questione, comprendendo la difficoltà altrui, ad accettare senza problemi l’uso di entrambi i generi; e io non sono nemmeno particolarmente appassionato al tema della correttezza politica delle parole, dato che spesso aggiustare le parole mi sembra un pretesto per non voler affrontare la sostanza dei problemi e delle discriminazioni.

Credo però che, da parte di chi scrive per mestiere e parla agli italiani, ci vorrebbe più attenzione verso una persona che, comunque la si consideri, è stata di questo caso la vera vittima. Non oso pretendere che si arrivi, come all’estero, a parlare di queste persone per il loro lavoro o per le loro capacità, invece di anteporre sempre la loro condizione di genere a qualsiasi altra cosa; ma già cominciare a rispettare il loro animo sarebbe un bel passo avanti. Forse la morte di Brenda potrebbe servire a qualcosa, se in mezzo a tutto questo squallore spuntasse almeno un po’ più di coscienza, e un po’ più di rispetto, per la situazione socialmente complicata dei suoi pari.

[tags]lingua, genere, transessualità, brenda, giornalismo, stampa, discriminazione[/tags]

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venerdì 20 Novembre 2009, 08:47

Mi sono rotto i coglioni di Berlusconi

Anch’io, come già trecentomila italiani, mi sono rotto i coglioni di Berlusconi e voglio gridarlo forte.

Mi sono rotto i coglioni di essere preso per il culo tutte le volte che metto il naso all’estero, da qualche tedesco o francese che ricorda l’ultima buffonata o l’ultima sparata del nostro Presidente “più alto che educato”.

Mi sono rotto i coglioni di un Paese che va alla deriva perché tutta l’energia del nostro governo è concentrata sul fermare in qualsiasi modo i processi del suo premier, a costo di lasciare in libertà anche tutti gli altri criminali.

Mi sono rotto i coglioni di un sistema politico funzionale a una sola persona, in cui la maggioranza prende ordini da lui e l’opposizione lo usa come sponda nei propri giochi di potere interni, guardandosi bene dall’attaccarlo seriamente.

Mi sono rotto i coglioni dell’Italia degli ultimi vent’anni e credo che dirlo una volta di più non sia mai troppo.

Per tutte queste ragioni, vi invito a partecipare al No Berlusconi Day, il 5 dicembre: una manifestazione completamente apartitica, nata dalla rete e da Facebook. Chi può, salti su uno dei pullman e vada a Roma. Per chi non può, stiamo organizzando un raduno alternativo in piazza Castello in contemporanea con la manifestazione principale, con proiezioni di video, musica dal vivo, le immagini da Roma e tanti saluti a Silvio.

Per chi viene dal Piemonte, questo è il gruppo Facebook con tutte le informazioni; questa è la fan page nazionale a cui iscrivervi per segnalare il vostro supporto morale, e questo è l’evento torinese se pensate di venire in piazza Castello. Troverete gazebo informativi nel fine settimana sia in piazza Castello che in piazza San Carlo (io non sarò ai gazebo questo weekend, ci sarò il prossimo).

Concludo dicendo che l’altra sera sono andato per la prima volta alla riunione del gruppo organizzativo torinese, a titolo completamente personale in quanto la manifestazione è apartitica e stiamo tutti cercando di evitare che venga strumentalizzata in qualsaisi maniera (anche se sono piuttosto certo che il 5 dicembre, dopo che queste persone non avranno mai mosso un dito, spunteranno in piazza abbondanti bandiere dell’IDV e dei partiti di sinistra… vedremo come fare). Tranne un paio di noi grillini e un ragazzo di Sinistra e Libertà, tutti gli altri erano cittadini che non avevano mai fatto politica – esattamente come eravamo noi un paio di anni fa quando abbiamo cominciato a lavorare all’idea delle liste a cinque stelle. E’ stato davvero bello vedere che ci sono ancora tanti italiani che non mollano, e che sfruttano le potenzialità della rete per cercare di salvare il nostro Paese… e dunque vi lascio con la foto dell’altra sera.

nobday-pnuovo.jpg

P.S. Ovviamente il PDmenoL non aderisce, preferendo un “approccio costruttivo” basato su “azioni concrete” (tipo D’Alema tentato ministro in Europa con il supporto di Silvio). E un bell’“esticazzi” non ce lo vogliamo mettere? Una risata li seppellirà.

[tags]berlusconi, no berlusconi day, facebook, politica, cittadini, italia, protesta, manifestazione, torino[/tags]

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giovedì 19 Novembre 2009, 14:54

Topo Gigio raddoppia

Poco fa, sulla Rai, ho visto passare una nuova pubblicità di Topo Gigio, di quelle pagate coi nostri soldi che parlano dell’influenza suina.

Nonostante tutti i tentativi dei media di montare un’ondata di panico, gli italiani non si sono lasciati infinocchiare più di tanto: hanno capito che la grande campagna di vaccinazione serviva più agli interessi delle case farmaceutiche che a quelli della salute pubblica. E’ giusto prendere le nuove pandemie con cautela e proteggere le fasce più a rischio della popolazione, ma qui stiamo parlando di una influenza che, almeno nei paesi sviluppati, ha un tasso di mortalità inferiore a quello della normale influenza invernale, e per combattere la quale si sta cercando di imporre a milioni di persone vaccini sperimentali, perdipiù in un momento in cui il picco dell’infezione pare già passato (anche se è difficile trovare fonti credibili in materia).

Comunque, attualmente noi cittadini stiamo continuando ad acquistare milioni di dosi di vaccino che, data la debole risposta alle numerose campagne di vaccinazione, rimarranno a giacere negli scatoloni – ma intanto le abbiamo pagate. E naturalmente non contribuisce alla fiducia pubblica nell’operazione il fatto che il ministro della Salute Sacconi sia il marito della signora Enrica Giorgetti, direttore generale di Farmindustria ossia l’associazione delle industrie farmaceutiche: un lievissimo conflitto d’interesse.

Dunque, qual è la reazione del governo al flop dei primi giorni di vaccinazione e del primo spot di Topo Gigio? Beh, il secondo spot di Topo Gigio, che dice che sì, l’influenza suina sta passando, ma già che ci siete vaccinatevi due volte, anche contro l’influenza stagionale! Per fortuna che la popolarità e la credibilità del Topo Gigio di pezza sono più o meno simili a quelle del Topo Gigio umano, Walter Veltroni: dunque anche questo spot sarà accolto con una risata.

[tags]influenza, topo gigio, pubblicità, vaccino, farmaci, sacconi, industria farmaceutica[/tags]

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mercoledì 18 Novembre 2009, 17:17

Le scale fisse

Io, di mestiere, non fabbrico scale mobili. Eppure non riesco a capacitarmi di una cosa: come è possibile che le scale mobili siano così spesso rotte?

In particolare mi riferisco a quelle della metropolitana torinese, che sembrano rompersi con una frequenza preoccupante. Forse le cose sono leggermente migliorate da qualche settimana, ma c’è stato un periodo in cui alla stazione Rivoli, dove io scendo, sia la scala mobile che porta dalla piattaforma all’atrio che quella che porta dall’atrio alla strada erano regolarmente rotte. Ma la stessa cosa mi è successa alla fermata della metro di Porta Nuova qualche settimana fa, a quella Re Umberto ieri, alla nuova Porta Susa sotterranea la settimana scorsa.

Eppure si tratta di impianti nuovissimi o comunque con due-tre anni di vita al massimo, eppure le scale mobili sono una tecnologia consolidata e vecchia di cent’anni… come è possibile? O chi gestisce i nostri soldi per queste grandi opere compra apparecchi di scarsa qualità, o forse risparmia sulla manutenzione, finendo poi per spendere il triplo in riparazioni; o magari vuole proprio spendere il triplo in riparazioni, chissà. Oppure, più facilmente, chi è responsabile della cura di questi impianti se ne frega, tanto lo stipendio a fine mese arriva comunque.

Io credo però che siano proprio queste piccole cose che danno più fastidio, e che lasciano nel cittadino il segnale più amaro: quello che ormai il bene pubblico, anche quando appena costruito con gran profluvio di denaro, sia abbandonato all’incuria nell’indifferenza generale.

[tags]torino, metro, ferrovia, porta susa, scale mobili, manutenzione, appalti, grandi opere, cura del bene pubblico[/tags]

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lunedì 16 Novembre 2009, 16:27

Treni vuoti, però velocissimi

Dal 13 dicembre, con l’orario invernale, entra in funzione per intero la nuova linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Milano.

Essa sarà percorsa da ben sette treni al giorno, che collegheranno le due città in un’ora e permetteranno di andare da Torino a Roma in 4 ore e 10 minuti, ritardi permettendo. I treni non sono nemmeno cadenzati; da Milano i ritorni partono due ai :00 da Centrale, quattro ai :58 da Porta Garibaldi, uno dai :15 da Centrale – portatevi dietro gli orari.

Il tutto, per il modico e accessibile prezzo di 31 euro (per Milano) o 93 euro (per Roma), sola andata di seconda classe: andarci da soli con una berlina costa la metà.

Ah già, e però, per velocizzare l’attraversamento di Milano, nella maggior parte dei casi questi treni non andranno a Milano Centrale, ma a Milano Porta Garibaldi (l’unica stazione principale di Milano senza una metro che porti in Duomo) e poi a Milano Rogoredo. Se volevate scendere a Milano Centrale per prendere un treno per, che so, Venezia, Lugano, Pavia, Parma… o i bus per gli aeroporti milanesi, dovrete metterci in mezzo un tratto in metropolitana.

Infine, per risparmiare ben tre minuti sulle quattro ore e dieci tra Torino e Roma, dal 13 dicembre i treni alta velocità NON fermeranno più a Torino Porta Susa. Il fatto che ci abbiano smarronato per trent’anni con Porta Susa sotterranea nuova stazione principale progettata per l’alta velocità è, evidentemente, irrilevante. Il fatto che a Porta Susa salga normalmente l’80% dei passeggeri diretto a Milano evidentemente lo è altrettanto. Anche il fatto che per ogni passeggero che va in treno da Torino a Roma ce ne siano dieci che vanno da Torino a Milano non è degno di considerazione. L’importante è “competere con l’aereo”, mica offrire un servizio utile a prezzi decenti: quando si dice “orientarsi al cliente”.

Del resto, la linea alta velocità Torino-Milano è costata agli italiani circa 11 miliardi di euro: per fare un paragone, l’intera linea 1 di metropolitana torinese con i suoi prolungamenti a Rivoli e a piazza Bengasi costa circa 1,5 miliardi di euro, mentre raggiungere il 90% delle case italiane con una dorsale in fibra ottica – una infrastruttura che davvero cambierebbe il futuro del Paese – costa 18 miliardi di euro. Gli investimenti (pur molto minori) previsti per la fibra sono stati recentemente cancellati, però abbiamo una linea ad alta velocità talmente utile che ci viaggeranno solo sette coppie di treni al giorno. Anche supponendo di ammortizzarla in trent’anni, fa circa 70.000 euro a treno al giorno.

Intendiamoci, ho il sospetto che con un servizio che fermi nelle stazioni utili e sia disponibile una volta all’ora (ogni mezz’ora nelle fasce di punta) sarebbe possibile far viaggiare questi treni sempre pieni anche vendendo i biglietti a prezzi umani, rendendo l’infrastruttura davvero utile. Ma tanto l’obiettivo del progetto alta velocità era sfilarci gli 11 miliardi di euro, con un costo per chilometro circa quattro volte superiore al resto d’Europa; dopodiché farci girare qualche treno, così per bellezza, è solo un fastidio necessario.

[tags]torino, milano, treni, trenitalia, alta velocità, tav, sprechi[/tags]

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sabato 14 Novembre 2009, 20:29

Novecento (3)

Per caso, in queste ultime settimane, mi sono capitati sottomano contemporaneamente due romanzi che, in questo contesto di ventennale, si sposano in maniera piuttosto interessante.

Il primo è il romanzo d’esordio di Mauro Pagani, Foto di gruppo con chitarrista, uscito ormai da qualche mese. Suppongo che sappiate tutti chi è Pagani: uno dei musicisti che hanno fatto la storia della musica moderna italiana, partendo dall’epopea della Premiata Forneria Marconi – l’unico gruppo italiano che abbia mai sfondato le classifiche internazionali non alla voce “pacchianate” ma alla voce “rock” – per passare per il periodo anni ’80 di De André, ossia Creuza de ma, e poi tanti altri esperimenti musicali di ogni genere. Certo, il curriculum di Pagani si è macchiato con la recente Domaaaaaaaaaniiiiiiiiiii per l’Abruzzo, ma insomma, dagli eventoni musicali benefici non si può pretendere troppo in termini di originalità (forse che era bella We Are The World?).

Tempo fa ebbi anche occasione di finirci a pranzo, grazie a Fiorello Cortiana che abita nel suo stesso palazzo, e l’impressione fu ugualmente buona. Il romanzo, tuttavia, letterariamente non è granché; e l’immutata stima per il Pagani musicista non può nascondere il fatto che esso sia pieno di dialoghi in cui le persone parlano come in un libro stampato (alzi la mano chi di voi ha mai usato l’espressione “sciogliersi come neve al sole” parlando con un amico) e di donne immancabilmente gnocche e disponibili, e che alla fine esso si riveli come un sottile “veicolo” per permettere a Pagani di sfoggiare dubbia modestia sulle proprie abilità musicali e di ripetere l’annosa lagna sulla PFM che avrebbe conquistato il mondo del rock globale per sempre, se solo non fosse stato per un complotto pluto-giudaico-massonico e per l’inspiegabile cattiva reazione degli americani all’idea di mettere la loro bandiera accartocciata in copertina. Chicca finale, la citazione di De André in quarta di copertina: furbata dell’editore, in quanto questo romanzo parla di De André più o meno quanto una confezione di cioccolato Kinder parla dei bambini tedeschi.

Nonostante questo, è un romanzo piuttosto interessante da leggere: un romanzo di fantascienza ambientato a Milano tra il 1969 e il 1979, che racconta da vicino i cambiamenti sociali di quegli anni. Immagino che per chi in quegli anni c’era possa essere una interessante riflessione su ciò che è successo, sull’evoluzione dal movimentismo all’impegno politico e poi al terrorismo oppure allo sculettìo in discoteca come John Travolta. Per noi attuali trentenni, vale per estensione la chiosa di Leonardo“il ’68 ci ha strasfracellato i coglioni” – e però c’è un certo fascino perverso nel leggere queste storie improbabili di giovani che pur in età universitaria non facevano un cazzo nella vita se non menarsi, scopare e drogarsi, e infatti sono diventati la classe dirigente che ha mandato l’Italia a puttane (ormai nel senso letterale del termine).

Noi trentenni, invece, rispondiamo con l’altro libro che mi è capitato per le mani: Studio illegale di Duchesne, pseudonimo sotto cui si è nascosto un praticante legale (aka precario della giurisprudenza) di un grande studio di Milano. Il libro è divertente e racconta con precisione l’ambiente affaristico di Milano di questi anni, tutto basato su paroloni inglesi usati a sproposito, mestieri la cui utilità nessuno riesce veramente a spiegare, ansie carrieristiche e necessità di apparire, e su una dose da cavallo di squallore e volgarità gratuite che solo la disponibilità di soldi e potere di chi la esibisce riesce a rendere accettabile per necessità. E’ un libro che riassume bene i motivi per cui nel 2002 scelsi di fare altre cose invece che trasferirmi a Milano a fare il manager: del resto, a un certo punto i protagonisti si trovano a fare una veloce “colazione di lavoro” davanti a un panino bresaola e caprino – e lì ho esultato come davanti a una tripletta di Rolando Bianchi.

Ai cinquantenni che ci strasfracellano i coglioni con gli anni ’70, io risponderei con la preghiera di leggere quest’ultimo libro: giusto così, per capire che bella società hanno messo in piedi per noi.

[tags]libri, letteratura, romanzo, mauro pagani, pfm, musica, anni ’70, de andré, studio illegale, duchesne, volgarità, una milano da inculare[/tags]

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giovedì 12 Novembre 2009, 20:10

Novecento (2)

Circa vent’anni fa, più o meno mentre cadeva il Muro, apriva il Continente di corso Monte Cucco. Sembrava lamerica: enorme, prendeva tutto un isolato, col parcheggio sotterraneo e le corsie piene di ogni ben di Dio. Era il sogno consumista che avevamo covato per tutti gli anni ’80 e che diveniva realtà: e noi ragazzini, per le prime feste del liceo, usavamo andare a saccheggiare gli scaffali (soprattutto al settore birre).

Presto ne aprirono altri non molto distante, a cominciare da Le Gru: ma il Continente di corso Monte Cucco restò sempre il riferimento per uno dei quartieri più borghesi e benestanti di Torino – forse il più benestante tra quelli non così ricchi da non gradire un ipermercato sotto casa, tipo la Crocetta. Anzi, diventava pure una abitudine: anche abitando a Rivoli ci capitavo spesso, sulla strada da/per il Poli, con la mia prima Uno scassata o con la storica Punto azzurra. E ci capitavamo in molti: se per caso si commetteva l’errore di andarci il sabato pomeriggio, era inevitabile passare un buon quarto d’ora in coda nel garage sotterraneo, in mezzo ai gas, perché la coda del semaforo riscendeva a serpentone fin laggiù.

Fu un colpo al cuore quando, a inizio millennio, cambiarono l’insegna in Carrefour: ricordo una riunione di Naming Authority a Roma in cui io e .mau., ancora torinese, ci dovemmo consolare a vicenda. E poi vennero i discount, e poi un centro commerciale ogni tre isolati, e poi la crisi, e insieme il naturale invecchiamento di quel mostro di cemento, in cui cominciarono a gocciolare i soffitti e sbriciolarsi i gradini. Piano piano divenne un ipermercato sempre più triste; gli scaffali un tempo elegantemente disposti cominciarono ad affollarsi di roba da due soldi buttata alla rinfusa, cercando di reggere alla concorrenza dei prezzi.

Per risparmiare tagliarono il personale, e le code alle casse si allungarono a dismisura; è l’unico posto dove più di una volta sia andato via lasciando lì la mia spesa, per via della coda impossibile alla cassa. Alla fine i pochi rimasti si ribellarono, e qualche mese fa ci fu uno sciopero selvaggio, che diede il colpo di grazia.

Ci sono stato oggi e mi sono spaventato; intanto, metà dell’ingresso è transennato alla buona perché oggetto di lavori – evidentemente urgenti, per farli in piena stagione – e per entrare dal parcheggio è necessario inerpicarsi su per una scaletta di servizio indicata da un cartello scritto a pennarello. In più, il parcheggio è semideserto e anche l’interno è mezzo vuoto. Sono evidenti gli sforzi per disporre le cose in modo piacevole almeno nei settori a servizio, eppure qua e là compaiono interi pallet di questo o quel prodotto, messi alla buona a mo’ di discount. Anche sugli scaffali gli assortimenti sono sottili, ci sono zone vuote, c’è troppo poca merce per la dimensione. Non ci sono più le code alle casse, perché ora a poco personale corrispondono pochi clienti. L’esperienza, per chi ha conosciuto l’ipermercato come era una volta, è talmente triste che siamo scappati via più in fretta possibile, sperando che sia soltanto una situazione temporanea per via dei lavori.

Tutto invecchia – l’ipermercato ma non solo. Gli splendidi e prosperi quarantenni della classe media che ne riempivano le casse all’inaugurazione sono ora diventati sessantenni chiusi e spaventati dal futuro, invecchiati e aggrappati a quel po’ che sono riusciti a mettere da parte; i loro figli ragazzini sono ora trentenni disoccupati senza prospettive, che guardano l’etichetta per risparmiare cinque centesimi o che non la guardano per non sentirsi poveri. Tirare una riga diritta tra le due cose sarebbe una semplificazione eccessiva; eppure non è sbagliato notare che, vent’anni dopo che è caduto il Muro, siamo diventati noi la Bulgaria.

[tags]crisi, muro, economia, italia, torino, carrefour, continente, ipermercati, livello di vita, bulgaria[/tags]

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giovedì 5 Novembre 2009, 11:16

Non

Sarà capitato anche a voi, se come me siete trentenni o giù di lì, di andare a cena con gli amici di una vita. Noi siamo andati alla Trattoria Moderna di Banchette, che è in realtà un posto nuovo ed elegante dove la cucina è elaborata ma anche ottima. Abbiamo mangiato e abbiamo bevuto tutto ciò di cui ci veniva voglia – primo, secondo, formaggio e dolce, una magnum di ottimo Barolo a soli 35 euro e pure la bottiglia di passito per il finale – e abbiamo chiacchierato di ogni cosa: viaggi di qui e di là, amici e conoscenti di mezzo mondo, macchine fotografiche digitali, settimane di surf in Egitto, storie di Richi wasabi, vecchi episodi universitari, difficoltà del digitale terrestre. L’importante però non è quello di cui abbiamo parlato, ma quello di cui non abbiamo parlato.

O magari ci si arrivava col discorso, e se ne parlava anche, per pochi, rabbiosi minuti, ma per poi girare da un’altra parte e ritornare verso il surf e le macchine fotografiche; come girando per una bella città (ma finta) per poi trovarsi immancabilmente davanti al bassofondo, e svoltare subito da un’altra parte per allontanarsene, e però ritrovarcisi ancora nonostante tutti gli sforzi.

Dunque ecco di cosa non abbiamo parlato: non abbiamo parlato di quanto faccia schifo l’Italia, né di quanto ci vergogniamo ogni volta che mettiamo piede all’estero e ci troviamo in un paese civile. Non abbiamo parlato del fatto che, nonostante fossimo tutti tra i migliori laureati della più selettiva facoltà di Torino, ci troviamo qui a non sapere bene cosa fare delle nostre vite professionali, mentre gli ultimi deficienti figli di papà finiscono di distruggere la nostra economia per tremila euro al mese o vanno direttamente in televisione a fare i buffoni. Non abbiamo parlato di quanto ci sarebbe convenuto imbucarci al caldo di una scrivania qualunque, invece di cercare di costruire aziende e posti di lavoro, per essere poi inseguiti dalle pretese e dai disservizi del nostro Stato. Non abbiamo parlato delle nostre storie personali complicate da tutto, del nervosismo che ti fa litigare per un niente e dell’impossibilità di progettarsi un futuro stabile e credibile.

E soprattutto, non abbiamo parlato del nostro convivere con la sensazione di un prossimo giorno del giudizio, indefinito ma incombente, che prima o poi verrà come un’alluvione e come un’alluvione ci porterà via; e si porterà via tutto, la civiltà e l’inciviltà, il surf e le macchine fotografiche digitali, Berlusconi e le sue puttane, Marrazzo e i suoi trans, il crocefisso imposto nelle scuole tra gli applausi del maggior partito teoricamente laico di questo Paese, l’ignoranza che avanza e la razionalità che arretra, la parte di noi che è moderna e disgustata e anche quella che è italiana e lascia regolamente l’auto e la vita parcheggiate in doppia fila.

Si dice che non si fanno più aziende, non si fanno più invenzioni, non si fanno più famiglie e non si fanno più figli perché c’è la crisi economica, ma questo è inesatto: da che mondo e mondo, anche nelle condizioni di estrema povertà, le invenzioni ed i figli sono venuti fuori. Il motivo per cui non si fa più niente è che non si crede più che possa esistere un futuro, o che, se verrà, sarà migliore o almeno non troppo peggio del presente.

Io sono un pazzo e soffio contro i mulini a vento, sputo incontro alla tempesta e preparo l’arpione per una balena che forse non ci sarà mai, nel cammino solitario che conduce a cambiare il mondo, o più probabilmente alla follia. Scommetto sul futuro e non mi guardo mai le spalle, sperando che quando lo farò ci troveremo in tanti, a non esserci arresi nella battaglia della vita.

[tags]italia, trentenni, crisi, precariato, lavoro, impresa, generazione boh, famiglia, società, futuro[/tags]

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