Sarà capitato anche a voi, se come me siete trentenni o giù di lì, di andare a cena con gli amici di una vita. Noi siamo andati alla Trattoria Moderna di Banchette, che è in realtà un posto nuovo ed elegante dove la cucina è elaborata ma anche ottima. Abbiamo mangiato e abbiamo bevuto tutto ciò di cui ci veniva voglia – primo, secondo, formaggio e dolce, una magnum di ottimo Barolo a soli 35 euro e pure la bottiglia di passito per il finale – e abbiamo chiacchierato di ogni cosa: viaggi di qui e di là , amici e conoscenti di mezzo mondo, macchine fotografiche digitali, settimane di surf in Egitto, storie di Richi wasabi, vecchi episodi universitari, difficoltà del digitale terrestre. L’importante però non è quello di cui abbiamo parlato, ma quello di cui non abbiamo parlato.
O magari ci si arrivava col discorso, e se ne parlava anche, per pochi, rabbiosi minuti, ma per poi girare da un’altra parte e ritornare verso il surf e le macchine fotografiche; come girando per una bella città (ma finta) per poi trovarsi immancabilmente davanti al bassofondo, e svoltare subito da un’altra parte per allontanarsene, e però ritrovarcisi ancora nonostante tutti gli sforzi.
Dunque ecco di cosa non abbiamo parlato: non abbiamo parlato di quanto faccia schifo l’Italia, né di quanto ci vergogniamo ogni volta che mettiamo piede all’estero e ci troviamo in un paese civile. Non abbiamo parlato del fatto che, nonostante fossimo tutti tra i migliori laureati della più selettiva facoltà di Torino, ci troviamo qui a non sapere bene cosa fare delle nostre vite professionali, mentre gli ultimi deficienti figli di papà finiscono di distruggere la nostra economia per tremila euro al mese o vanno direttamente in televisione a fare i buffoni. Non abbiamo parlato di quanto ci sarebbe convenuto imbucarci al caldo di una scrivania qualunque, invece di cercare di costruire aziende e posti di lavoro, per essere poi inseguiti dalle pretese e dai disservizi del nostro Stato. Non abbiamo parlato delle nostre storie personali complicate da tutto, del nervosismo che ti fa litigare per un niente e dell’impossibilità di progettarsi un futuro stabile e credibile.
E soprattutto, non abbiamo parlato del nostro convivere con la sensazione di un prossimo giorno del giudizio, indefinito ma incombente, che prima o poi verrà come un’alluvione e come un’alluvione ci porterà via; e si porterà via tutto, la civiltà e l’inciviltà , il surf e le macchine fotografiche digitali, Berlusconi e le sue puttane, Marrazzo e i suoi trans, il crocefisso imposto nelle scuole tra gli applausi del maggior partito teoricamente laico di questo Paese, l’ignoranza che avanza e la razionalità che arretra, la parte di noi che è moderna e disgustata e anche quella che è italiana e lascia regolamente l’auto e la vita parcheggiate in doppia fila.
Si dice che non si fanno più aziende, non si fanno più invenzioni, non si fanno più famiglie e non si fanno più figli perché c’è la crisi economica, ma questo è inesatto: da che mondo e mondo, anche nelle condizioni di estrema povertà , le invenzioni ed i figli sono venuti fuori. Il motivo per cui non si fa più niente è che non si crede più che possa esistere un futuro, o che, se verrà , sarà migliore o almeno non troppo peggio del presente.
Io sono un pazzo e soffio contro i mulini a vento, sputo incontro alla tempesta e preparo l’arpione per una balena che forse non ci sarà mai, nel cammino solitario che conduce a cambiare il mondo, o più probabilmente alla follia. Scommetto sul futuro e non mi guardo mai le spalle, sperando che quando lo farò ci troveremo in tanti, a non esserci arresi nella battaglia della vita.
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