Arriva dal San Giovanni Bosco l’ennesimo caso etico dell’estate: l’infermiera che avrebbe somministrato una dose extra di calmante a un paziente morente e in coma, accelerandone di qualche ora la morte, e venendo poi denunciata da uno dei medici del reparto.
E’ molto difficile fare considerazioni dall’esterno, senza conoscere esattamente le cartelle cliniche e le situazioni specifiche. E’ facile prevedere che l’indagine si concentrerà su cavilli: se l’infermiera era autorizzata o no a decidere di fare una iniezione aggiuntiva (comunque, pare, di entità minima: un quarto della dose oraria), se è vero che tale operazione è di routine in casi come quello ed era già stata praticata dai medici, se – dato che tutti concordano sul fatto che il paziente sarebbe morto comunque entro poche ore – si possa tracciare dal punto di vista tecnico un nesso di causalità diretta tra l’iniezione e la morte.
Io preferisco esaminare la questione dal punto di vista umano: non vi è alcun dubbio che l’intenzione dell’infermiera fosse quella di diminuire la sofferenza di un paziente comunque spacciato (se vi fosse l’esplicita intenzione di accelerare la morte, naturalmente, non lo sapremo mai). Nonostante i titoli dei giornali, non si tratta di una eutanasia in senso proprio – ossia dell’uccisione artificiosa di un paziente in condizioni devastate ma stabili, che senza tale atto sarebbe sopravvissuto indefinitamente nel tempo – ma di un caso complesso di terapia del dolore. Da una parte è dovere del medico alleviare le sofferenze del paziente, somministrandogli medicine per ridurre il dolore; dall’altra è possibile che queste medicine ne accelerino la fine, e a questo punto come si può definire il bene del paziente?
Non si può: se il paziente fosse cosciente potrebbe valutare da solo se sia meglio vivere più a lungo soffrendo di più o vivere di meno soffrendo di meno, ma se non lo è, in assenza di un testamento biologico, qualsiasi scelta del personale medico o dei familiari (il cui eventuale potere di vita o di morte sul congiunto è anch’esso molto discutibile) può essere giusta o sbagliata senza che esista la possibilità di saperlo, visto che, oltretutto, nessuno può sapere dall’esterno quanto stia effettivamente soffrendo una persona morente che non è in grado di comunicare le proprie sensazioni.
Non può essere lo Stato a decidere della vita delle persone; la stessa legge che vieta di uccidere non ha un valore etico, dato che l’etica è personale e diversa per ognuno di noi, ma soltanto un valore sociale, vietando l’uccisione in quanto dannosa per gli altri e per la società . Dunque, se non può essere lo Stato, può essere soltanto ognuno di noi a decidere per se stesso in piena libertà , attraverso una certificazione inequivocabile della propria volontà per il futuro: appunto il testamento biologico.
In questo caso, però, il testamento biologico non c’era, e allora come poteva l’infermiera scegliere? Avrebbe potuto voltarsi dall’altra parte, evitare di curare il dolore del morente, lasciarlo al suo destino; ma non sarebbe anche in questo caso venuta meno al proprio dovere di cura del paziente? Alla fine, io credo che abbia preso la decisione giusta: dato che non era comunque possibile evitare la morte del paziente a breve, nel dubbio ha errato dal lato di diminuirne la sofferenza.
Per quanto i processi alle intenzioni siano difficili, dunque, da quel che si è saputo mi sembra che non si possa imputare niente all’infermiera; anzi, il rischio (purtroppo già vivo in molti ospedali) derivante da queste campagne mediatiche è che poi il personale medico non osi più curare le sofferenze dei pazienti in fase terminale, e non ti dia nemmeno una bustina per il mal di denti per paura che poi, per qualche complicazione, sia proprio quella bustina ad accelerare la morte e a portare ad accuse di eutanasia. Ma c’è una persona che secondo me invece va censurata: il suo collega che l’ha denunciata.
E’ evidente che, in una situazione senza uscita e senza risposte giuste, ogni persona – persona prima ancora che medico o infermiere – si comporterà in modo diverso a seconda delle proprie personali convinzioni. Dunque non c’è spazio per censurare le azioni altrui, a meno che non si pensi che la propria etica sia assoluta e obbligatoria per tutti, una convinzione che però in una società civile, multireligiosa, multietnica e profondamente diversificata non può trovare posto.
Dunque a me questo medico che ha denunciato la collega pare proprio senza cuore, al punto da anteporre le proprie personali convinzioni etiche e religiose a tutto il resto, mettendo nell’occhio del ciclone una collega che comunque aveva la sola intenzione di alleviare le sofferenze del paziente, e costringendo la famiglia del paziente a vedere il proprio lutto trascinato sui giornali per giorni, assediato da taccuini e telecamere, condannato a una trafila di indagini e autopsie e funerali rimandati; causando insomma molta altra sofferenza.
Certo sarebbe diverso se si fosse trattato di una vera eutanasia, dell’uccisione di una persona che altrimenti non sarebbe morta se non mesi o anni dopo. Ma in questo caso, le poche ore di sofferenza risparmiate al paziente valgono i giorni di sofferenza inflitti alla famiglia, ai colleghi, a chiunque abbia un minimo di sensibilità per le vicende altrui? Dal punto di vista medico-legale non lo so, ma, dal punto di vista umano, questa sì che mi pare una violazione dei principi etici di un medico.
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