Tutti, nella vita, hanno una droga. E non parlo solo di quelle ritenute droghe a tutti gli effetti, pesanti o leggere che siano; o dell’alcool, che dà dipendenza ma è ritenuto socialmente accettabile, almeno fino a quando non mettete sotto un pedone; e nemmeno di chi è drogato dal sesso o dalla masturbazione. C’è chi si droga di Playstation e chi si droga di libri, chi si droga di palestra e chi si droga di politica; l’importante è disporre di qualcosa di immediatamente gratificante e facilmente disponibile.
Per noi che ci droghiamo di cibo, Lidl è una sicurezza: e quindi, dopo mesi di Butter Cookies Confiserie Firenze, sono ripassato ai waferini alla nocciola ricoperti di cioccolato, o, come dice la confezione, Haselnusscremewaffeln mit Schokolade, che in tedesco suona anche più convincente. Sono piccoli, solidi ma croccanti, e ti lasciano quel bell’alone marrone sulle dita e sulla tastiera dell’iBook. Uno tira l’altro, smettere è impossibile: droga allo stato puro.
P.S. Ieri, in offerta a dieci euro, c’era la macchinetta elettrica per fare i popcorn. Se la volete, magari la trovate ancora.
Ha suscitato molto clamore nei giorni scorsi la vicenda della ragazzina rom che, a Napoli, avrebbe tentato di rapire un neonato; molto clamore e anche le solite reazioni standardizzate, da quella della sinistra radicale secondo cui il problema non esiste ed è tutto razzismo, a quella della gente comune che va a tirare le molotov sui campi nomadi.
E’ vero che l’idea che i rom rapiscano i neonati italiani per rivenderli o per crescerli come propri (come se non ne facessero abbastanza loro) è al momento priva di prove, insomma una leggenda metropolitana. Non è una leggenda, invece, una situazione di cui i giornali invece non parlano quasi mai: quella dei bimbi rapiti dallo Stato.
Anche per testimonianze dirette, le visite delle assistenti sociali e delle psicologhe dei servizi sociali – quasi sempre donne, anche senza figli propri, e quindi con (teorica) preparazione sui libri ma non sul campo – sono descritte come delle specie di inquisizioni che, se non avessero conseguenze così drammatiche, ricorderebbero Homer Simpson che va a fare l’esame della patente dalle cognate: c’è una macchia di sugo sulla tovaglia? Meno un punto. La casa è poco luminosa? Meno due punti. Il padre torna a casa, incespica in uno spigolo e bestemmia? Meno cinque punti. Insomma, un sistema in cui il requisito è la perfezione, e qualsiasi cosa è presa come giustificazione per punire.
Eppure, chiunque può dirvi che, fino a che i genitori non diventano molto violenti o totalmente incapaci, qualsiasi genitore è meglio di nessun genitore o della comunità , che sono traumi spaventosi e comunque insanabili; e anche – per bambini già grandi – dell’affido o dell’adozione, che comunque non saranno mai come una famiglia naturale. E invece, ogni volta che se ne parla saltano fuori storie disperate, certo raccontate dal punto di vista distorto dei genitori, ma comunque agghiaccianti.
E’ certamente difficile valutare cosa sia meglio per un bambino, ed è difficile scoprire la verità di una vita dai racconti dei giornali, specie in un contesto dove si parla di affetti e psicologia, quindi dove la verità oggettiva non esiste. Proprio per questo, il mondo dei furti statali di bambini dovrebbe ricevere molta più attenzione. Ma fa molto più notizia la leggenda dei rom.
Si potrebbe parlare di Travaglio, di Fazio, di come questo Paese stia lentamente scivolando verso una dittatura molle e melensa, anzi forse lo è già , visto che certe cose non si possono dire e comunque vengono fatte passare per normali, e che l’aspirazione principale di moltissimi italiani, anche quelli più acculturati, non è rovesciare la casta ma entrare a farne parte. Ma forse è meglio parlar d’altro.
Ecco, l’empatia è una cosa che va sempre più svanendo, nella nostra società . Siamo tutti presi a recitare una funzione, anzi esistono precise direttive contro l’essere comprensivi per gli altri, a partire dal concetto che esprimere emozioni durante lo svolgimento del proprio lavoro sarebbe “poco professionale”. Si arriva al caso limite dell’uomo macchinetta, peggio dell’operaio di Tempi moderni; per esempio, l’uomo macchinetta che ti vende i biglietti del tram all’edicola di Milano Centrale, a cui vorresti dire fermati, aspetta, come ti chiami, di che umore sei oggi, dove vai quest’estate in vacanza, e invece lui è lì che spara biglietti come carte di poker, ritirando le fiche dalle mani di una folla anonima, e guai ad inceppare il suo funzionamento.
Dev’essere un trucco; eliminare le emozioni dalla società ne aumenta l’efficienza. Ma l’efficienza per cosa? Non per la felicità ; per quella, soddisfatte due o tre esigenze materiali primarie, è appunto questione di beni immateriali; di empatia e di rapporti con gli altri e prima ancora con se stessi. Oggi, la naturalezza dei nostri scambi emotivi è sotterrata sotto una pila di vincoli e costruzioni e pressioni di vario genere; per questo, ogni tanto, è bene ritirarla fuori, meditarci, e condividerla con gli altri.
L’astigiano nordoccidentale, al confine con la provincia di Torino, è un territorio poco conosciuto; ha poco a che vedere con le capitali del vino del Monferrato meridionale, come Nizza e Canelli. E’ invece un insieme di colline che sono quasi montagne, coperte di foreste; si arriva oltre i seicento metri di altitudine, e ci si ritrova via via in stradine sempre più strette, tortuose e pendenti; per tutti questi motivi, le vigne ormai sono state in buona parte sradicate, e il prodotto principale della zona è diventato la carcassa di motociclista al sangue (io, in un solo quarto d’ora, ne ho mancati di poco tre o quattro, tutti belli in piega a centoventi all’ora dal mio lato della strada, dietro una curva cieca su una strada larga sì e no tre metri). In compenso, i panorami e il senso di tranquillità e remotezza sono meravigliosi: nel silenzio appena appena rotto da qualche centinaio di motopuzzettari, si vede tutto il territorio dipanarsi in verde fino alla lontana Superga.
C’è in questa zona un posto speciale quanto abbastanza poco conosciuto, l’Abbazia di Vezzolano. L’hanno rimessa a posto da poco, e secondo me ha persino perso un po’ di fascino, tutta così pulitina e con la vegetazione rasata. E’ però una costruzione bellissima, che sopravvive da quasi dieci secoli in una valletta angusta e riparata, in mezzo al verde ma con una bella vista sulle colline più basse.
E’ ancora più interessante se – oltre a una mostra di romanico dell’Astigiano, con tutti i bassorilievi che raffigurano animali che ballano e persone che fanno sesso – ci trovi qualche pannello che ti spiega i principi di matematica medioevale con cui è stata costruita: scopri così che la chiesa è orientata lungo l’asse locale dei lunistizi, in modo che ogni 18,61 anni, quando la luna raggiunge il punto più alto di sempre sull’orizzonte, la sua luce penetri esattamente in asse; mentre la base della chiesa forma il lato di un decagono con centro sotto l’altare, e la finestra dell’abside, davanti all’altare, ha proporzioni legate alla sequenza 2, 3, 5, 10.
Insomma, non è che hanno preso il primo spiazzo e ci han messo su due mattoni, tutt’altro; c’è nella Chiesa del Medioevo un patrimonio di spiritualità magico-pagana, basate sui ritmi vitali della natura, che il cattolicesimo potente e repressivo dei secoli del colonialismo ha poi accuratamente eliminato, e che invece sarebbe molto interessante ristudiare.
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Non sempre i post sono belli, o almeno, non sempre mi soddisfano; d’altra parte i post che più mi piacciono raramente sono quelli che piacciono ai lettori o che suscitano la loro reazione (peraltro le due cose non sempre sono correlate, anzi mi piacerebbe mettere un pulsantino per permettervi di diggare ed uppare i post che trovate più interessanti senza necessariamente doverli commentare). A me soddisfano di più i post contemplativi o metafisici, anche se mi ritrovo troppo spesso a pubblicare dei rant politico-sociali, e ripensandoci non è bello.
Un blog è un compagno di viaggio. Questo è nato in fretta e furia in un momento di cambiamenti (aprile, si sa, è periodo di ormoni agitati), per cui tre giorni dopo aver deciso di non avere più un blog, sentii l’esigenza di avere un blog. Il titolo – che onestamente non mi soddisfa affatto, non si capisce e non cattura l’attenzione – venne fuori per caso, così come lo stile grafico alberato, che invece continua a piacermi; del resto, ogni vero viaggio si snoda per una foresta oscura.
Di lì in poi, sui vostri schermi è passato un po’ di tutto; serietà , ironia, sarcasmo, saccenza, rabbia, meditazioni, consigli tecnici, musica, viaggi, aneddoti e racconti di vita. In effetti, più che un blog è un vagabondaggio, e anche lo stile e gli argomenti seguono la mia vita, che in questi due anni è cambiata parecchio (e qui cade bene, per chi non le ha mai viste, il link alla galleria di foto che mi ritraggono e a quella di foto che non mi ritraggono). Infatti, nei primi mesi mi capitava spesso di scrivere mezzi post e poi lasciarli lì, mentre ultimamente sono inappuntabilmente efficiente, persino troppo, tanto da farmi venire il dubbio che si sia un po’ perso il canale diretto tra l’animo e la tastiera.
Ad ogni modo, l’aspetto più gratificante di avere un blog è il confronto continuo con i pareri dei lettori, sia quelli che conosci direttamente che quelli che si sono aggiunti man mano; questo blog ha una media di quasi quattromila pageview al giorno, anche se, stando alle statistiche, più del 40% sono motori di ricerca e altri spider. Restano comunque un paio di migliaia di pagine viste ogni giorno da esseri umani; non ho idea di quante ne facciano i blog da top 100 o quelli da top 10 – e poi, ora che ci siamo liberati della classifica di Blogbabel, per fortuna non esistono più i blog da top 10, siamo tutti puzzoni uguale – ma per me restano tantissime, anzi faccio fatica a pensare che non sia Awstat che si sbaglia…
Insomma, sia io che voi, nella vita, non solo possiamo ancora combinarne di tutti i colori, ma abbiamo una lunga lista di sogni d’infanzia da appagare: basta volerlo. E’ con questo spirito che vi lascio, e mi preparo alla stupefacente vittoria del Toro con l’Inter… Vabbe’, ok, a tutto c’è un limite. Ma sarà lo stesso un altro anno interessante.
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Oggi è una giornata decisamente grigia, tanto che fuori dalla mia finestra c’è il nulla, solo un bagliore smorto e lattiginoso disteso uniformemente sui tetti come se fosse il cielo.
E così, oggi non parlerò di politica se non per notare che per la prima volta, sulla mia lista di benpensanti internazionali del futuro della rete, è stato menzionato un politico italiano, e non solo: il suo pensiero è stato riportato da una delle persone più apprezzate e menzionato come illuminante, moderno e condivisibile. E’ interessante quindi notare come la citazione fosse “market if possible, state if necessary”, dalla lettera di Giulio Tremonti pubblicata ieri dal Financial Times: che dire, Tremonti è suscettibile, ma almeno sa scrivere in inglese.
Comunque, oggi il modo è pigro e sonnacchioso, e dal punto di vista lavorativo produco davvero poco. Però stamattina ho fatto una cosa che non si fa spesso: sono andato a piedi alle Gru.
Per cambiare quattro gomme ci mettono un’ora; probabilmente ciò dipende anche dalla scena che ho visto entrando nell’ufficio, dove la vecchia contabile chiedeva al giovane aiutante come si potesse entrare nel computer. Il giovane le spiegava che doveva usare “admin, admin” come username e password. La signora sbuffava, se lo faceva ripetere due o tre volte, si faceva fare lo spelling di “admin”, e infine se ne usciva esasperata: “Ma insomma! Non potremmo avere una sola password uguale per tutti?”.
Non avendo voglia di aspettare un’ora in officina, io regolarmente ne approfitto: da via Villa Sant’Anselmo, praticamente all’angolo con via Bard, mi incammino per cinque minuti verso il centro; passo davanti a Roby, poi alla sede della Chiesa Cristiana Pentecostale (Chapel of Victory), e infine arrivo a girare a destra in via Porta Littoria. E’ una zona interessante, dove l’isola costruita della città si sfrangia contro l’oceano dei prati, e gli edifici sono bassi e irregolari, salvo qualche palazzo anni ’70 che si staglia ma sembra completamente fuori posto.
In breve, la via arriva all’orlo della città ; l’ultima casetta prima del mare è il famoso “centro estetico”, una anonima villetta caratterizzata da una piccola targa d’ottone con la scritta “Centro Estetico – Suonare”; non ci sono insegne di alcun tipo e nulla che attiri l’attenzione, e naturalmente nessuno metterebbe mai un centro estetico al fondo di via Porta Littoria, una via di estrema periferia dove non puoi proprio arrivare per caso, se non fosse in realtà un “centro estetico”; tanto è vero che oggi, ripassando dopo mesi, ho scoperto che sulla targa d’ottone c’è appiccicato un cartello a pennarello con scritto “Il centro estetico ha chiuso DEFINITIVAMENTE”.
L’orlo della città è un luogo molto particolare; la strada principale che arriva dal centro finisce nello sterrato, e subito dopo nel sottosovrappasso pedonale della ferrovia, una stranezza topologica per cui l’attraversamento ferroviario passa sia sopra che sotto ai binari. Ci sono muratori romeni che bivaccano in macchina, vecchi rifiuti abbandonati, e a destra segue il prato, mentre a sinistra incomincia Torino. Il sottosovrappasso è squallido, e quasi sempre si incrocia qualcuno che piscia; l’interno è ripieno di scritte di studenti che si amano o si mancano, anche se non ci sono scuole nel raggio di chilometri.
Dall’altra parte, si sbuca sullo stradone delle Gru, anzi su un ponte sul verde, largo e recente, che si stacca ardito dalla borgata Lesna, trattenendo il fiato per saltare i prati, e giunge fino al centro commerciale, ignorando nel tragitto un antico podere di campagna che oggi è diroccato, ma che ai suoi tempi, un tre secoli fa, doveva essere davvero bello.
Se arrivate alle Gru in auto, non vedrete mai tutto questo; quei trecento metri saranno solo un lampo in una accelerata evaporazione di petrolio. A piedi, invece, si respira il non-luogo; un posto apparentemente insignificante e vuoto, dove però, tutto attorno, si stratifica con evidenza la vita umana. Respirando il vento e l’umidità del prato, ti puoi immaginare l’antica strada sterrata che portava a Grugliasco, i campi coltivati, la villa settecentesca prima florida, poi diroccata, poi la costruzione del lungo rettilineo della ferrovia per la Francia, la strada asfaltata, le case che cominciano a spuntare come funghi dall’altro lato, l’invasione della città sulla campagna, la chiusura del passaggio a livello che devia il flusso di auto e condanna il futuro centro estetico al suo magico isolamento. E poi il cantiere per il trincerone ferroviario per l’interporto, il centro commerciale, l’allargamento della strada e le invasioni barbariche di tutti i sabati pomeriggio, e siamo arrivati ai giorni nostri.
A metà di tutto questo, un’auto con la scritta “CITTA’ DI TORINO” si ferma proprio accanto a me e alla villa pericolante. Un tizio scende, guarda con attenzione un cartello, poi esclama: “Ma minchia!! E’ comune di Grugliasco!” (lo sapevo pur io, il confine passa proprio sulla strada). Il compare, dall’auto, fa un segno di stizza. Alla fine il primo esclama “Vabbe’, facciamo lo stesso le foto, poi le mandiamo al comune di Grugliasco”. Giornata salvata.
P.S. Naturalmente, dopo essere tornato a casa, la carrozzeria mi ha richiamato per dirmi che avevano montato le gomme sbagliate, cioè due vecchie invece di due nuove che mi erano “dovute” (cioè, che potevano essere montate sulla mia auto addebitandole alla ditta di noleggio e facendo quindi aumentare il conto). Quindi dovrò fare un’altra passeggiata la prossima settimana; nel frattempo, però, per sconfiggere un po’ il cielo grigio (e per averlo promesso a Fabbrone ieri sera), ecco qui Soledad Pastorutti con la sua Tren del cielo. Viva il cielo azzurro, e viva un po’ di sano folk-rock latinoamericano; basta con la plastica stinta della musica anglosassone, e con la roba da vecchi che tira regolarmente fuori Suzukimaruti!
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Oggi ho un gran mal di stomaco e sto poco bene, per cui ho pranzato con il classico riso in bianco, appena condito con un filo d’olio e accompagnato con un po’ di pane.
Mentre mangiavo, pensavo a come sia insensato che il riso in bianco, che per millenni ha costituito una parte fondamentale dell’alimentazione del mondo e che tuttora lo è in interi continenti, da noi sia considerato soltanto un alimento per malati, o al massimo un contorno; per il resto è un cibo da sfigati, visto che se proprio hai voglia di riso ci si aspetta che tu faccia perlomeno un risotto, e comunque i nostri pranzi e le nostre cene sono ben altra cosa, anche quando non sono particolarmente elaborate.
La stessa cosa inizia a valere anche per il pane; il mio era fatto da me, ed era del pane bianco normalissimo, anche se cotto partendo dal preparato invece che mescolando farina e lievito. Certo, ci ho aggiunto l’energia per cuocerlo, ma anche così il mio chilo di pane non solo costa la metà di quello del supermercato, ma è anche molto migliore.
Pensando che in fondo anche la mia pagnotta era stata realizzata con metodi appena meno industriali del solito, ho capito che la domanda giusta non è come faccia quel pane lì a conservarsi una settimana e ad avere quel gusto comunque buono, ma come faccia il pane del supermercato a non sapere di niente e a diventare gomma o roccia entro la sera stessa. Io forse non l’avrei mai scoperto, ma ora lo so: è difficile fare del pane cattivo. E allora, che cavolo ci mettono per fare il pane così male?
Se parliamo del problema contingente di chi vive di commercio al dettaglio posso anche capire, ma proprio non riesco a vedere un calo del dieci per cento nel consumo di uova di Pasqua come un “disastro” e un “allarme”. Vedo se mai un “disastro” e un “allarme” in una società che prende un calo del dieci per cento nel consumo di uova di Pasqua come un problema drammatico, al punto da abbandonarsi a scene isteriche o proteste di massa.
Ci aspettano tempi in cui potremmo dover rinunciare ad altro che le uova di Pasqua; per esempio all’auto personale, ai viaggi aerei superscontati, ai vestiti da buttare dopo mezza stagione, e probabilmente anche ai grissini al sesamo, visto il trend del prezzo dei cereali. Forse torneremo anche noi, come ha sempre fatto mezzo mondo, a mangiare stabilmente pane e riso in bianco, con la carne solo nelle feste grosse.
Grandi o piccoli, alcuni sacrifici andranno fatti; ed è l’evidente impreparazione della nostra società ad accettarli che mette in pericolo il futuro pacifico del pianeta, più ancora che i sacrifici stessi.
Oggi è una giornata bellissima, con un cielo terso spazzato dal vento, una luce abbagliante e le montagne sullo sfondo, immerse però in nuvole lontane. E’ in queste situazioni che a Torino si respira il gelo che scende dalle Alpi, e si vive una strana contraddizione tra il sole che splende e l’odore di freddo che incombe. Anche se c’erano venti gradi, erano venti gradi freddi: come a suggerire che sì, oggi fa caldo, ma domani tornerà la coda dell’inverno.
Dal balcone di casa mia si vede tutto insieme: la città che prosegue ordinatamente e a lungo, ma che finisce per sbattere contro la corona insormontabile delle montagne.
E’ dalle montagne che il freddo si dilata in spire invisibili, e nasconde già il sole. Cosa ci sia dietro la coltre nuvolosa, non è certo: potrebbe esserci la Valle di Susa, ma anche la Nuova Zelanda o l’intera Terra di Mezzo.
anche ieri, come spesso in questi giorni, ho impiegato la pausa pranzo per tornare indietro fino alla mia vecchia casa. Ormai vivo in quella nuova da quasi un mese, ma ovviamente il trasloco non è ancora finito, e anzi diventa sempre più lungo.
Il problema è che, spostate velocemente le cose essenziali, restano tuttavia quelle superflue; che proprio per questo richiedono molto più tempo.
Per esempio, io per anni sono andato in viaggio riportando indietro, con efficienza svizzera, tutti i campioni di sapone e di shampoo che trovavo negli alberghi: sai mai che così si riesca a risparmiare sull’igiene! Aprendo armadi e cassetti, sono saltate fuori una, due, tre, quattro scatole da scarpe piene zeppe di saponcini, flaconcini, pettinini, spazzolini, batuffolini, persino i cottonfioc. E tu che ne fai? Vorrai mica buttar via tutto questo patrimonio costruito negli anni? In più, ogni sapone è un ricordo: ah come mi ero lavato bene in Uruguay, ah che bella doccia che aveva quell’albergo a Palo Alto, e così via.
E le salviettine umidificate, ognuna racchiusa nella sua brava confezione di alluminio? A botte di un fazzolettino per volo, ne ho un cassetto pieno, anche di linee aeree che non esistono più. Anzi, mentre ci siamo, mi faccio una pausa con queste caramelle della Swissair, che la compagnia è fallita da sei anni, ma le caramelle sono ancora qui.
Sì, è vero, potrei cominciare a buttar via. Ma solo un bruto potrebbe gettar via la confezione di pennarelli che usava per colorare i disegni all’asilo: e infatti io l’ho gelosamente conservata. Davvero potrei buttare via le vecchie audiocassette? E allora dovrei forse buttare anche il walkman? Ma figurati, chissà quanto vale un walkman originale Sony, con dentro ancora la cassetta di El diablo dei Litfiba.
Potrei forse gettar via la collezione di fogli bianchi, centinaia e centinaia di pagine vuote e adornate solo del logo di questo o quello sponsor, raccolte con tenacia negli anni, come quella volta a Beverly Hills, al Webnoize del 2000, dove alla fine del discorso contro la pirateria del fu Jack Valenti tutta la sala si alzò ad applaudire, ma mezz’ora dopo, quando tutti ormai erano andati via, nella stessa sala c’erano solo più due messicani che smontavano e io che raccoglievo manciate di bloc notes marchiati IBM abbandonati sulle sedie.
Caro diario, la nostra vita è piena di oggetti, che nascono vergini ma poi presto si sporcano di noi, entrando in una relazione fedele e sottintesa che soltanto noi, per un motivo qualsiasi, possiamo a un certo punto tradire. E’ da questo blocco regalatomi anni fa dal GARR che io ne esorcizzo il mistero, mentre mi appresto ad impacchettarli tutti e a spostarli dal fondo di un vecchio armadio al fondo di un nuovo armadio; fino a che, tra cinquant’anni, qualcuno entrerà in casa mia, troverà i miei pennarelli, e si chiederà che cosa mai potesse rappresentare, per un vecchio, un pezzetto di plastica colorata.
Ebbene sì, oggi è San Valentino: quel giorno in cui gli uomini si svegliano normalmente alle sette e un quarto pensando come al solito all’ufficio e alle cose da fare, e trovano la rispettiva donna che è già sveglia da un’ora e saltella per la casa ripetendo “E’ San Valentino! E’ San Valentino!”. La differenza tra uomini e donne nell’attenzione per compleanni, anniversari e feste comandate meriterebbe uno studio antropologico; nel frattempo, stasera come ogni anno i ristoranti saranno pieni di coppie felici, circondate dall’affetto e dalla gioia degli astanti, più o meno così:
Bene, dovunque vi siate trovati nell’immagine, buon San Valentino anche a voi; e se avete la fortuna di essere ben accoppiati, godetevi anche voi le magiche, uniche sensazioni di questa festa assolutamente sincera e priva di aspetti commerciali.
(Illustrazioni da Binky’s Guide To Love di Matt Groening, quando ancora era un autore solo per appassionati.)