Anche oggi, la continuazione del post di ieri avrà un sottofondo musicale: è quello di Daniele Silvestri, che ha appena pubblicato un nuovo singolo intitolato appunto Monetine.
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In realtà – trattandosi del singolo che precede la raccolta in uscita tra poco – non è un brano nuovo, ma una canzone di quasi dieci anni fa, Pozzo dei desideri, riarrangiata pesantemente in stile Manu Chao e senza ritornello. Comunque, parla anch’essa del gioco d’azzardo, di come sia diventato in questi anni la speranza dei disperati, l’unica proposta che la società riesce ad offrire a un consistente strato di persone.
E’ interessante vedere Caparezza e Silvestri affrontare contemporaneamente il problema di chi resta ai margini del fiume di ricchezza che attraversa le nostre società , molto visibile ma accessibile soltanto a pochi. Tanto sicuro e rabbioso è Caparezza, quanto intimo e amaro è Silvestri, un artista forse sottovalutato per via di questa sua dimensione un po’ minore nei toni, ma che ha prodotto alcuni dei pezzi più emozionanti di questi anni, da Cohiba a L’autostrada.
Il gioco d’azzardo è sempre stato un no-no, monopolizzato dallo Stato, vietato ai figli come e più della droga, e mantenuto sotto traccia, come vizio imbarazzante dei ricchi. E’ per questo che qualche giorno fa, andando in centro, io mi sono indignato per una intera parete di piazza Carlo Felice occupata da una enorme pubblicità del poker.
Per fortuna non sono stato l’unico, tanto che ne ha parlato qualche giorno fa La Stampa in cronaca. Eppure, quel cartellone non è arrivato lì da solo: qualcuno deve averlo commissionato, certo. Ma qualcun altro deve averlo stampato, trasportato, montato. Immagino anche che un certo numero di uffici pubblici l’abbiano vagliato ed autorizzato. E certamente hanno dato il loro via libera, in cambio di una congrua quantità di denaro, i proprietari del palazzo. Che a nessuno di questi sia venuto un qualche dubbio è francamente deprimente: testimonia di quanto in basso sia sceso il livello di etica, il senso di comunità e di responsabilità reciproca che sta alla base di qualsiasi convivenza civile.
È un periodo in cui si parla molto di gioco d’azzardo. I casinò e il totocalcio sono sempre esistiti, ma raramente come negli ultimi anni si è assistito ad un boom: da una parte i videopoker e i siti di scommesse sono ormai ovunque, compaiono sui giornali e sponsorizzano le squadre di calcio; dall’altra sempre più persone cercano nel gioco una fuga dalla realtà o la soluzione ai propri problemi. E così, ne parla anche la musica.
In particolare, il brano di cui voglio parlare oggi è il nuovo singolo di Caparezza, Eroe, ovvero La vera storia di Luigi delle Bicocche, non a caso pubblicato nel weekend delle elezioni. Non parla solo dei videopoker, ma della vita di oggi; non sappiamo quanto Caparezza sia sincero e quanto sfrutti l’ondata del grillismo (ammesso che Grillo sopravviva all’abbuffata di politica di questi mesi e al rigetto che seguirà ), ma sentendo questo brano verrebbe voglia di fare ministro lui.
Il testo, come al solito, è una fonte inesauribile di tumblrate; forse la mia preferita è “io sono al verde, vado in bianco ed il mio conto è in rosso, quindi posso rimanere fedele alla mia bandiera”. Insomma, sarà un successo, anche se non contribuirà certo a rappacificare gli italiani con chi li governa.
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Oggi è una giornata decisamente grigia, tanto che fuori dalla mia finestra c’è il nulla, solo un bagliore smorto e lattiginoso disteso uniformemente sui tetti come se fosse il cielo.
E così, oggi non parlerò di politica se non per notare che per la prima volta, sulla mia lista di benpensanti internazionali del futuro della rete, è stato menzionato un politico italiano, e non solo: il suo pensiero è stato riportato da una delle persone più apprezzate e menzionato come illuminante, moderno e condivisibile. E’ interessante quindi notare come la citazione fosse “market if possible, state if necessary”, dalla lettera di Giulio Tremonti pubblicata ieri dal Financial Times: che dire, Tremonti è suscettibile, ma almeno sa scrivere in inglese.
Comunque, oggi il modo è pigro e sonnacchioso, e dal punto di vista lavorativo produco davvero poco. Però stamattina ho fatto una cosa che non si fa spesso: sono andato a piedi alle Gru.
Per cambiare quattro gomme ci mettono un’ora; probabilmente ciò dipende anche dalla scena che ho visto entrando nell’ufficio, dove la vecchia contabile chiedeva al giovane aiutante come si potesse entrare nel computer. Il giovane le spiegava che doveva usare “admin, admin” come username e password. La signora sbuffava, se lo faceva ripetere due o tre volte, si faceva fare lo spelling di “admin”, e infine se ne usciva esasperata: “Ma insomma! Non potremmo avere una sola password uguale per tutti?”.
Non avendo voglia di aspettare un’ora in officina, io regolarmente ne approfitto: da via Villa Sant’Anselmo, praticamente all’angolo con via Bard, mi incammino per cinque minuti verso il centro; passo davanti a Roby, poi alla sede della Chiesa Cristiana Pentecostale (Chapel of Victory), e infine arrivo a girare a destra in via Porta Littoria. E’ una zona interessante, dove l’isola costruita della città si sfrangia contro l’oceano dei prati, e gli edifici sono bassi e irregolari, salvo qualche palazzo anni ’70 che si staglia ma sembra completamente fuori posto.
In breve, la via arriva all’orlo della città ; l’ultima casetta prima del mare è il famoso “centro estetico”, una anonima villetta caratterizzata da una piccola targa d’ottone con la scritta “Centro Estetico – Suonare”; non ci sono insegne di alcun tipo e nulla che attiri l’attenzione, e naturalmente nessuno metterebbe mai un centro estetico al fondo di via Porta Littoria, una via di estrema periferia dove non puoi proprio arrivare per caso, se non fosse in realtà un “centro estetico”; tanto è vero che oggi, ripassando dopo mesi, ho scoperto che sulla targa d’ottone c’è appiccicato un cartello a pennarello con scritto “Il centro estetico ha chiuso DEFINITIVAMENTE”.
L’orlo della città è un luogo molto particolare; la strada principale che arriva dal centro finisce nello sterrato, e subito dopo nel sottosovrappasso pedonale della ferrovia, una stranezza topologica per cui l’attraversamento ferroviario passa sia sopra che sotto ai binari. Ci sono muratori romeni che bivaccano in macchina, vecchi rifiuti abbandonati, e a destra segue il prato, mentre a sinistra incomincia Torino. Il sottosovrappasso è squallido, e quasi sempre si incrocia qualcuno che piscia; l’interno è ripieno di scritte di studenti che si amano o si mancano, anche se non ci sono scuole nel raggio di chilometri.
Dall’altra parte, si sbuca sullo stradone delle Gru, anzi su un ponte sul verde, largo e recente, che si stacca ardito dalla borgata Lesna, trattenendo il fiato per saltare i prati, e giunge fino al centro commerciale, ignorando nel tragitto un antico podere di campagna che oggi è diroccato, ma che ai suoi tempi, un tre secoli fa, doveva essere davvero bello.
Se arrivate alle Gru in auto, non vedrete mai tutto questo; quei trecento metri saranno solo un lampo in una accelerata evaporazione di petrolio. A piedi, invece, si respira il non-luogo; un posto apparentemente insignificante e vuoto, dove però, tutto attorno, si stratifica con evidenza la vita umana. Respirando il vento e l’umidità del prato, ti puoi immaginare l’antica strada sterrata che portava a Grugliasco, i campi coltivati, la villa settecentesca prima florida, poi diroccata, poi la costruzione del lungo rettilineo della ferrovia per la Francia, la strada asfaltata, le case che cominciano a spuntare come funghi dall’altro lato, l’invasione della città sulla campagna, la chiusura del passaggio a livello che devia il flusso di auto e condanna il futuro centro estetico al suo magico isolamento. E poi il cantiere per il trincerone ferroviario per l’interporto, il centro commerciale, l’allargamento della strada e le invasioni barbariche di tutti i sabati pomeriggio, e siamo arrivati ai giorni nostri.
A metà di tutto questo, un’auto con la scritta “CITTA’ DI TORINO” si ferma proprio accanto a me e alla villa pericolante. Un tizio scende, guarda con attenzione un cartello, poi esclama: “Ma minchia!! E’ comune di Grugliasco!” (lo sapevo pur io, il confine passa proprio sulla strada). Il compare, dall’auto, fa un segno di stizza. Alla fine il primo esclama “Vabbe’, facciamo lo stesso le foto, poi le mandiamo al comune di Grugliasco”. Giornata salvata.
P.S. Naturalmente, dopo essere tornato a casa, la carrozzeria mi ha richiamato per dirmi che avevano montato le gomme sbagliate, cioè due vecchie invece di due nuove che mi erano “dovute” (cioè, che potevano essere montate sulla mia auto addebitandole alla ditta di noleggio e facendo quindi aumentare il conto). Quindi dovrò fare un’altra passeggiata la prossima settimana; nel frattempo, però, per sconfiggere un po’ il cielo grigio (e per averlo promesso a Fabbrone ieri sera), ecco qui Soledad Pastorutti con la sua Tren del cielo. Viva il cielo azzurro, e viva un po’ di sano folk-rock latinoamericano; basta con la plastica stinta della musica anglosassone, e con la roba da vecchi che tira regolarmente fuori Suzukimaruti!
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Capita alle volte di sentire un brano musicale e di rimanerne colpiti al primo ascolto; nonostante tu non abbia mai sentito quel pezzo, ti resta in testa e ti viene anzi voglia di ascoltarlo subito di nuovo.
A me capitò qualche tempo fa, ascoltando un concertone benefico – credo fosse quello per l’anniversario dello spiaccicamento di Lady Diana – nel quale un vecchio che sembrava Rod Stewart da vecchio si mise ad eseguire con emozione questo brano. Non ne sapevo il titolo, ma è bastato ascoltare un po’ del testo, fare una ricerchina, e così ho scoperto che si chiamava Sailing. L’ho scaricato subito (non mi è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di comprarlo, tanto è un grande successo e Rod Stewart ha già quattro piscine d’oro per gamba) e l’ho ascoltato per un po’, e ancora adesso ogni tanto lo metto su.
Peccato però che l’altro giorno stessi perdendo tempo guardando i vecchi spot su quella manna che è Spot80, un Prometeo dieci anni più tardi e dedicato alle pubblicità . Ho cominciato a guardare quelle della birra, partendo dal leggendario Arbore (“Meditate gente, meditate… Birra: e sai cosa bevi!”) che conclude lo spot invitando a bere birra prima di guidare, visto che allora si usava andare a cena, farsi due caraffe di Barbera e poi mettersi al volante, e quindi la birra era già una forma di continenza (tuttavia non credo che ci fossero più incidenti di oggi, segno che ad uccidere è la deficienza e non l’alcool nel sangue).
Stavo pensando di suggerire a quelli di Wikipedia che potrebbero anche rimuovere completamente il contenuto della voce tamarro e sostituirlo con la riproduzione a ciclo continuo dell’ultimo singolo di Moby. E’ in giro già da un po’, si intitola Disco Lies e se non l’avete ancora sentito potete dotarvi di una Golf GTI nera, recarvi in via Roma, cliccare qui sotto (tra le lucine viola che scorrono tipo Supercar, la vostra autoradio avrà certamente un browser) e pompare a palla il volume.
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Eccovi quindi il leggendario conduttore e showman siciliano Alfredo Castro, nella sua esecuzione mozzafiato di Hey Jude. Chissà che McCartney non la offra alla moglie come regalo d’addio.
[tags]alfredo castro, antenna sicilia, hey jude, beatles, musica[/tags]
Oggi è domenica, e mentre voi riflettete sulla sindrome di Gabriella Carlucci io vi concedo un alleggerimento parlando di musica; ma non quella roba elettropoppettina che ascoltano i deboli di cuore.
Il disco è uscito ormai da alcuni mesi, ed è da un po’ che volevo parlarvene: è l’esordio del cantautore armeno Serj Tankian, un ragazzo che ha da poco lasciato il gruppetto di amici con cui suonava e si è dato alla carriera solista, pur promettendo una reunion tra tre anni. Serj è armeno, ma nato in Libano e cresciuto a Hollywood, che contrariamente a quel che credete è oggidì una zona di Los Angeles alquanto in declino, popolata in buona parte di immigrati armeni.
“WE ARE THE CAUSE OF A WORLD THAT’S GONE WRONG – CIVILIZATION IS OVER – ELECT THE DEAD”
Non so se Veltroni e Berlusconi siano più vivi dei candidati americani; peraltro Elect The Dead è anche il titolo del disco e dell’ultimo brano.
Serj ha fatto le cose in grande, e ha realizzato un video per ciascuno dei brani; ed è stato veramente difficile sceglierne uno da mostrare. Avrei potuto scegliere l’inquietante guerra di soldatini di The Unthinking Majority o lo scenario post-nucleare e derelitto di Sky Is Over, oppure cercare chicche come Praise The Lord And Pass The Ammunition oppure Beethoven’s Cunt, canzone dedicata a quanto lui amasse la sua ex ma lei non fosse troppo a proprio agio con un compositore asociale e ossessionato dalla fine del mondo.
Your empty walls, your empty walls
Pretentious adventures, dismissive apprehension
Don’t waste your time on coffins today
When we decline from the confines of our mind
Don’t waste your time on coffins today
Don’t you see their bodies burning? Desolate and full of yearning
Dying of anticipation, choking from intoxication
Don’t you see their bodies burning? Desolate and full of yearning
Dying of anticipation, choking from intoxication
I want you to be left behind those empty walls
Told you to see from behind those empty walls
Those empty walls
When we decline from the confines of our mind
Don’t waste your time on coffins today
Don’t you see their bodies burning? Desolate and full of yearning
Dying of anticipation, choking from intoxication
Don’t you see their bodies burning? Desolate and full of yearning
Dying of anticipation, choking from intoxication
I want you to be left behind those empty walls
Told you to see from behind those empty walls
Want you to be left behind those empty walls
I told you to see from behind those empty walls
From behind those empty walls
From behind those empty walls
The walls
From behind those empty walls (I loved you yesterday)
From behind those empty walls
From behind those empty walls (Before you killed my family)
The walls
Don’t you see their bodies burning? Desolate and full of yearning
Dying of anticipation, choking from intoxication
Don’t you see their bodies burning? Desolate and full of yearning (I want you)
Dying of anticipation, choking from intoxication (To be left behind those empty walls)
I want you to be left behind those empty walls
Told you to see from behind those empty walls
(Desolate and full of yearning, dying of anticipation, choking from intoxication)
Want you to be left behind those empty walls
(Don’t you see their bodies burning? Desolate and full of yearning, dying of anticipation, choking from intoxication…)
I told you to see from behind those empty walls (Fuck your empty walls, fuck your empty walls)
From behind those empty walls (Fuck your empty walls, fuck your empty walls)
From behind those fucking walls (Fuck your empty walls, fuck your empty walls)
From behind those goddamn walls
Those walls, those walls
Dopo il successo del mio resoconto sull’ultima serata di Sanremo, a grande richiesta, siccome sono andati in onda alle due di notte e quasi nessuno li ha visti, riporto i video delle canzoni del Festival rifatte da Elio e le Storie Tese al Dopofestival – e vi assicuro che preparare varie canzoni ogni sera, reinventandole in modo brillante ed eseguendole pure senza fallo, è parecchio difficile.
Il primo è già un classico: la canzone del Maestro Amedeo Minghi – persona nota per prendersi molto, molto sul serio – sbertucciata prima per la densità di frasi lunghissime che non entrano nel verso, e poi per l’essere una scopiazzatura de La cura di Battiato, con Elio che dichiara infine la sua paura per la reazione del Maestro e scappa via:
Il secondo brano è la canzone di tali Sonohra, vincitori della sezione gggiovani, e qui Elio li prende disperatamente per i fondelli per questa H inspiegabile:
La canzone di Paolo Meneguzzi, Grande, oltre all’ovvia citazione di Grande grande grande di Mina, diventa un classico brano giovanilista su, come dice Elio, “l’appello di un giovane che va dal giornalaio ma non viene servito bene”:
Sul brano omofobico e scontato della Tatangelo, scritto da Gigi d’Alessio, gli Elii fanno invece una vera opera di satira alla Zappa: lo reinterpretano come una marcetta per esaltarne la banalità :
Ora un altro capolavoro: la canzone dei Finley, intitolata Ricordi, viene trasformata in un appello contro lo scaricamento della musica da Internet:
Quando vuoi dei dischi vai da
Ricordi
o un altro
con prezzi che ti tolgono il sorriso
Infine il tripudio: il rifacimento del brano del “fenomeno” Tricarico, con l’aiuto di Cristicchi e Frankie Hi-Nrg, che prima ne esalta la banalità finto-alternativa e scopiazzata da Vasco (sulla base di Wild World!), e poi prorompe nel classico di Cochi e Renato, tutto girato a prendere per il culo il Tricarico stesso e i cantanti in generale, con un pezzo rappato al bacio. Magistrale.
E ce ne sarebbero ancora… Certo che vedendo queste performance viene voglia di proporre l’abolizione del Festival e la sua sostituzione con cinque sere di Elio in TV!
[tags]sanremo, musica, elio e le storie tese, festival, dopofestival, minghi, meneguzzi, finley, tatangelo, tricarico[/tags]
Tutto questo però perde di significato di fronte agli unici dieci minuti di musica di ieri, ovviamente apparsi ben oltre mezzanotte, praticamente alla fine. Sono Elio e le Storie Tese che rifanno Il Barbiere di Siviglia:
Come livello musicale non c’è paragone con qualsiasi altra cosa sia andata in onda nella serata; come commentavo ieri, in questa apparizione Elio e le Storie Tese, da tutti i punti di vista, sono sembrati come un Maradona improvvisamente sceso in campo all’80′ di una partita di calcio tra scapoli e ammogliati. Contemporaneamente sono riusciti a:
1) presentare della musica classica a un pubblico popolare
2) presentarne un arrangiamento veramente bello, fondendo il classico e il pop
3) darne una esecuzione assolutamente perfetta, tecnicamente molto meglio di tutto quel che si è sentito nella serata
4) intrattenere e divertire sia il pubblico intelligente che quello nazionalpopolare
5) gridare “figa†sul palco del Festival di Sanremo
6) commuoversi con il saluto finale a Feiez.
Chapeau.
Comunque sia, quest’anno Sanremo è stato un fiasco come mai nella sua storia, con un calo drammatico degli ascolti e contemporaneamente musica ancor peggio del solito se possibile, tanto che si comincia a parlare di chiuderlo.