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giovedì 3 Settembre 2009, 17:27

Non solo lettere

Stamattina mi sono recato nel centro ricreativo per anziani di via Foglizzo, quello con le insegne gialle con scritto Poste Italiane. Dovevo mandare una raccomandata; prima ho provato con il centro di via Stradella, ma ho scoperto che l’hanno chiuso, anche se ho riconosciuto agevolmente le vetrine in cui stava perché erano affollate di anziani che ci giravano attorno maledicendo la novità e non capacitandosi della chiusura, anzi alcuni continuavano a sbattere a ripetizione contro la porta di vetro inopinatamente chiusa, sperando che prima o poi si aprisse.

Anche in via Foglizzo, comunque, entrare non è uno scherzo; ci sono due bussolotti di vetro in parallelo come quelli delle banche, su ognuno dei quali campeggia una lucetta verde e un pulsante. Tuttavia, quello di sinistra è rotto e dunque ne resta in funzione uno solo. Tutti quelli che arrivano, trovandosi di fronte la porta chiusa, premono il pulsante per aprire; e invece no, il pulsante serve per chiedere assistenza ad una impiegata all’interno (comunque non risponde mai nessuno). Sui bussolotti campeggiano dunque due o tre cartelli fotocopiati con scritto “ENTRARE MAX DUE PER VOLTA SENZA PREMERE ALCUN PULSANTE”: bisogna avvicinarsi e attendere qualche secondo perchè una telecamerina noti la tua presenza e ti apra la prima porta, poi entrare, attendere la chiusura e poi l’apertura dell’altra porta, per poi venire travolti da quelli che devono uscire. L’unico bussolotto funzionante serve infatti a doppio senso, e il tutto è talmente lento e macchinoso che si formano code anche di una decina di persone sia all’interno che all’esterno: ottima progettazione, come ha espresso un tizio – grosso, tamarro e sfoggiante portachiavi della Juve – che non solo ha premuto ripetute volte il pulsante senza mai capire, non solo si è infilato nel bussolotto con due vecchietti spiaccicandoli tutti che poi han dovuto pulire, ma giunto all’interno ha fatto partire una sfilza di “minc**a zio fa’” che ha fatto rivoltare tutti i santi.

Ad ogni modo, ho preso il mio bigliettino alle 11:49 e mi sono accomodato davanti all’unico sportello dedicato alla spedizione di missive… in realtà erano due, ma in quello a fianco un’impiegata stava magnificando i pregi di un libro per bambini ad una incantata potenziale cliente; ormai potrebbero tranquillamente cambiare l’insegna in “Non solo lettere”. L’unico sportello era occupato da un tizio alto in polo elegante, che parlottava con l’impiegata sventolando dei fogli. A un certo punto l’impiegata è sparita per un periodo lunghissimo, e poi è tornata con un’altra; ero già lì da un quarto d’ora e così, con la solidarietà tipica dei dannati persi nelle code degli uffici privatopubblici italiani (pubblici come copertura dei costi, privati come distribuzione dei ricavi), mi sono messo a sentire la storia.

In pratica, il tizio era un avvocato che l’8 aprile aveva fatto spedire un qualche documento minatorio alla controparte di un suo cliente; la controparte ora sosteneva di non averlo mai ricevuto, e a lui mancava la prova della ricezione o del mancato recapito. Insomma, alla fine era alla ricerca di una cartolina di ricevuta postale di quattro mesi fa; a nessuna persona normale sarebbe mai venuto in mente che le Poste fossero in grado di collaborare, ma lui no, insisteva che qualcuno doveva avercela e che qualcosa doveva essere successo e che qualcuno doveva pur rispondere di quanto accaduto. Le ora due signorine lo gestivano in coppia (forse una pensava e l’altra parlava), ma rispondevano di aver perquisito l’archivio cartaceo dell’ufficio e di non aver trovato nulla.

Dopo circa venti minuti dall’inizio la coda era ancora bloccata, anche perché l’impiegata al secondo sportello teoricamente riservato alle operazioni postali stava ora magnificando ad un’altra cliente il libro-diario “Io sono nato!”, su cui ogni genitore dall’autostima concentrata sul proprio cucciolo potrà annotare dati imperdibili come l’altezza e il peso giorno per giorno, e incollare le foto del pargolo nonché quelle della mamma e del papà in posizioni buffe, impegnate o anche devastate dalla stanchezza. Il marketing pitch verteva sull’ampia disponibilità di spazio del diario, che conteneva pagine per arrivare fino a sei anni (anche se, per gli standard attuali, dovrebbe arrivare almeno fino a trentasei); comunque, alla fine sono finite a discutere dell’organizzazione dei matrimoni delle rispettive figlie.

A questo punto dunque al mio sportello è arrivato il direttore, che con piglio marziale ha esclamato “Consultiamo ‘o regolamento!”, estraendo da un armadio metallico un grosso faldone contrassegnato dalla scritta “DIRETTIVE POSTALI”. In tre, ignorando completamente la coda di almeno una decina di numeri accumulatasi nel frattempo, hanno cominciato a scartabellare, fino a trovare una procedura grazie alla quale “‘o terminalo” ha scoperto che la notifica in questione era stata respinta al mittente e regolarmente riconsegnata allo studio dell’avvocato in data 12 maggio, con tanto di firma sulla ricevuta in mano alle Poste.

E così, alle 12:15, dopo aver tenuto occupato lo sportello per oltre mezz’ora e dopo vari altri minuti di suo arrampicamento sugli specchi, l’avvocato è stato rispedito indietro a cercarsi le carte sue a casuccia sua, e sono stati chiamati i numeri successivi; e dato che tutti quelli prima di me avevano già desistito, io sono stato il primo.

Poteva finire così? Può forse finire così? Certo che no! Infatti io ho consegnato la busta e i miei moduli debitamente compilati; l’impiegata reduce dall’avvocato la pesa e mi fa “Farebbe 5,35 euro, ma guardi che se vuole con 5 euro può fare la nuova raccomandata uno!”. A questo punto mi sono reso conto di essere caduto nell’orribile trappola, e che anche io sarei stato vittima di un marketing pitch; anzi ho pensato che tutti gli impiegati dell’ufficio si sarebbero fermati e poi all’unisono, allargando le braccia in posa divertente, avrebbero gridato “RACCOMANDATA – UNO!”. Invece no, l’impiegata si è limitata a spiegarmi che Raccomandata Uno è il nuovo prodotto di Poste Italiane grazie al quale le lettere arrivano in tutta sicurezza; in altre parole, la raccomandata normale viene persa o inserita in un girone infernale di avvisi di ritiro presso l’ufficio postale di Timbuctù, mentre questa la consegnano anche. L’unica differenza però è che non c’è la ricevuta di ritorno (che a me stavolta non serviva), a meno di non pagare altri 4 euro “però in offerta 3 euro fino al 31 dicembre”; in compenso c’è la ricevuta fiscale “che può anche scaricare” (occhiolino).

E cosa dobbiamo fare? Facciamo la raccomandata uno: al che la signorina, rallentando ulteriormente l’operazione, si mette a ricopiare i dati di mittente e destinatario dal modulo raccomandata normale al modulo raccomandata uno (mica vorrai digitarli su un computer…). Poi infila un foglio nella stampante per preparare la ricevuta, e lì ovviamente la stampante si inceppa; al che l’impiegata sospira ed estrae un librone di fogli staccabili, con il quale si mette a compilare da perfetta amanuense (cioè con calligrafia illeggibile) una intera fattura ricamata a mano; ce l’ho qui con me e a chi vuole la faccio anche vedere. Per cinque euro, la produttività è assicurata; ma io, dopo soli 38 minuti, sono riuscito a spedire la mia raccomandata.

[tags]poste, pubblici dipendenti nell’animo, avvocati, organizzazione[/tags]

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mercoledì 2 Settembre 2009, 22:30

Non ritorno (2)

Oggi ho passato la giornata a vagliare possibilità di lavoro all’estero, pur se con grande incertezza: ci sono opportunità molto interessanti, ma non è comunque facile ottenerle da straniero, e poi non è facile nemmeno trasferirsi in un’altra parte del mondo.

Stasera però tornavo a casa in auto, dopo una cena in pizzeria, e mentre percorrevo sulla corsia di destra corso Vittorio per immettermi nella rotonda di piazza Rivoli sono stato affiancato a sinistra da un’auto dei carabinieri, senza sirene nè lampeggianti. Ci siamo fermati fianco a fianco per dare la precedenza alla rotonda, poi appena la rotonda si è liberata siamo partiti insieme, io nella corsia esterna e i carabinieri nella corsia interna della rotonda. Eravamo perfettamente paralleli quando l’auto dei carabinieri ha sgasato e mi ha tranquillamente tagliato la strada, attraversando tutta la rotonda senza né frecce né altre segnalazioni, per uscire e immettersi nella corsia riservata ai bus di corso Lecce.

Io ho inchiodato e ho evitato di un pelo l’incidente, ma molti dei miei dubbi sul cercare un lavoro all’estero sono spariti.

[tags]italia, carabinieri[/tags]

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lunedì 31 Agosto 2009, 23:58

Non ritorno

Il punto di non ritorno può essere il più vario. Per esempio, può essere atterrare a Malpensa e trovarti ad aspettare i tuoi bagagli per quasi mezz’ora; a un certo punto ne sono apparsi sul nastro due o tre, poi tutto si è fermato e sei rimasto lì ad attendere all’infinito, con i finnici che scuotono la testa e non capiscono e si lamentano e chiedono disperati informazioni su come mai i bagagli ci mettano così tanto tempo, finché alla fine non arrivano. E’ solo mentre vai via con le tue valigie che noti che sul pannello luminoso – l’unico che dà informazioni in mezzo a tanti altri che sparano a volume fastidioso la pubblicità dell’ennesima puntata di un qualsiasi telefilm o saga sui vampiri – c’è scritto “Ora di atterraggio: 10:24. Ora di consegna primo bagaglio: 10:40”. In altre parole, i sagaci dipendenti di Malpensa mettono subito due o tre bagagli sul nastro in modo che le misurazioni di qualità risultino ottime, poi vanno a farsi i cazzi loro e tutti gli altri li scaricano mezz’ora dopo, quando hanno voglia.

Poi esci e aspetti la navetta per il parcheggio, che ha il suo punto di sosta riservato, che però deve venire costantemente presidiato dagli addetti e marcato coi coni di plastica per evitare che venga occupato abusivamente. Nonostante questo, arriva un fuoristrada targato Varese e tira giù tutti i coni pur di piazzarsi proprio lì con le magiche quattro frecce, per aspettare “un minutino” della gente in arrivo che non ha voglia di fare cinquanta metri a piedi. Ne deriva una epica lite in longobardo stretto, che blocca decine di persone.

Ecco, con tutto che i finnici sono anarchici e un po’ maleducati (ma sempre ad anni luce da noi), tornare in Italia è davvero sconfortante: tanto da farti venire la voglia di non tornarci più.

P.S. Poi però vai allo stadio, in una serata in cui le cose girano bene, e ti ricordi che qualcosa di bello resiste anche in Italia.

[tags]italia[/tags]

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domenica 30 Agosto 2009, 18:29

Il sole di Helsinki

Per cominciare con le note negative, oggi abbiamo avuto conferma che qui sono imparentati coi turchi. Infatti, più volte abbiamo rischiato l’investimento da auto che non si sono fermate alle strisce, nonostante avessimo già iniziato ad attraversare, e persino da ciclisti che correvano a rotta di collo sul marciapiede chiaramente marcato come esclusivamente pedonale; l’autista del bus di linea che abbiamo preso è stato bloccato per varie volte da gente che si immetteva nell’incrocio senza dare la precedenza, e poi si è preso la rivincita passando con il rosso pieno; infine, quando è stato il momento di scendere dalla metro siamo stati investiti da gente che doveva salire e che non ci ha lasciato il passaggio pur di correre a prendersi i posti. Sono comportamenti normali in Italia, ma che non avevo mai visto accadere a nord delle Alpi, se non in casi eccezionali: sono rimasto davvero stupito di quanto siano sregolati gli abitanti di Helsinki.

In compenso però oggi è stata una giornata splendida, col cielo azzurro e un sole discretamente caldo che splendevano sui palazzi e sui parchi di Helsinki (a parte cinque minuti di pioggia battente che è iniziata all’improvviso, è finita all’improvviso e non aveva alcuna fonte apparente nel cielo). Questa città non ha nulla di spettacolare, a parte forse la conformazione geografica del terreno su cui si trova, ma è lo stesso interessante e piacevole da visitare.

Il centro è indiscutibilmente in stile nordico – c’entra poco con i palazzi seicenteschi di Stoccolma e ancora meno con le case tedesche di Tallinn, mentre ricorda l’austerità estrema di Oslo. L’unica concessione alla decorazione sono i palazzi attorno alla piazza del Senato, che però sono piuttosto bassi e sono comunque minuscoli rispetto alla grande cattedrale bianca che caratterizza la città; le sue cupole azzurre sono visibili da qualsiasi punto e anche dal mare, ben prima di arrivare all’attracco. In generale, però, l’architettura è ridotta all’essenziale, in modo che nulla vada sprecato. All’inizio questa austerità può colpire in negativo, ma poi ci si fa l’abitudine ed emergono i lati piacevoli.

Essi non stanno tanto nella parte costruita: di monumenti non ce n’è – forse l’architettura più interessante è quella del Temppeliaukio, una chiesa protestante di fine anni ’60 scavata dentro la cima rocciosa di una collina – e nell’elenco dei musei non abbiamo trovato nulla di così attraente. E’ meglio dedicarsi all’unione di acqua, alberi e presenza umana in parti uguali, che si può trovare appena al di fuori dal centro; dunque visitare le fortificazioni insulari di Suomenlinna, che regalano scorci sul mare di tipo irlandese, oppure l’isola museo di Seurasaari, che al paesaggio aggiunge le riproduzioni di vari edifici in stile finnico antico, oppure la passeggiata attorno al lago di Töölö, punteggiata di musei ed edifici interessanti tra cui la Casa Finlandia di Alvar Aalto. Noi siamo addirittura andati nel parco periferico di Vallila, dove le case di legno dei locali hanno tutte un fazzoletto di orto nel parco, ai margini del bosco, che poi lascia il posto a un orto botanico nuovo di zecca. E poi a ogni pranzo ci si ritrova nella Kauppatori, la piazza del Mercato che unisce il centro al porto, a mangiare salmone alla piastra o pescetti fritti presso le apposite bancarelle.

Certo posso immaginare che dopo un po’ tutto questo possa non bastare e la città possa risultare noiosa. Infatti i locali sono dediti all’alcool; ieri era sabato sera e si sentivano ubriachi un po’ ovunque, tanto che stamattina nella tromba delle scale del condominio, al pianterreno, c’era un bel laghetto di piscio di qualche inquilino che non è riuscito a resistere fino alla meta. Siamo rimasti stupiti fin dal principio, quando a Stoccolma aspettavamo l’imbarco sul traghetto per Turku e abbiamo visto scendere persone con casse e casse di birra e tanto di carrellino per trasportarle. Anche sul traghetto per Tallinn una delle principali attrazioni era la vendita di alcool duty-free; infatti l’alcool qui è molto costoso – la birra più economica costa oltre un euro per 33cl, ma la pinta di Lapin Kulta, il pezzo forte del consumo locale, costa al supermercato quasi tre euro per 57 cl. E non parliamo del vino, che deve essere importato: in bar e ristoranti si vede normalmente a sei-otto euro a bicchiere.

Nonostante questo, quando arrivi a Suomenlinna – che è un gruppo di isole raggiungibile solo col traghetto, è patrimonio mondiale UNESCO e in quanto tale è zona protetta dove è vietato bere in pubblico e accendere fuochi, ma che ci hanno detto essere una delle mete favorite dei barbecue dei finnici – il bar all’attracco non espone le locandine dei gelati e nemmeno la pubblicità di una birra: mostra foto e prezzi delle casse da 8 o 16 lattine delle marche di birra più diffuse. Comprare una lattina sola per volta dev’essere inconcepibile…

[tags]viaggi, finlandia, helsinki, alcool[/tags]

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sabato 29 Agosto 2009, 20:40

Nozze ovunque

Per prima cosa devo mandare un messaggio di servizio, a tutte quelle coppie finniche che oggi si sono sposate nell’antica cattedrale di Porvoo, in cima alla parte vecchia della seconda città più antica della Finlandia. Innanzi tutto vi comunico, non capendo come non ve ne siate accorti da soli, che il prete che stava celebrando il vostro matrimonio aveva due tette così, dunque dubito molto che il vostro sacramento sia accettabile davanti al Signore. Poi vorrei sottolineare che la cattedrale di Porvoo, la principale attrazione della città, è aperta al sabato per sole quattro ore, dalle 10 alle 14; dunque i vostri matrimoni, celebrati a macchinetta da mezzogiorno in poi, hanno reso inaccessibile il luogo a centinaia di turisti, anche se alcuni se ne sono fregati e sono entrati a fotografare l’interno della chiesa in piena marcia nuziale. Costava così tanto aspettare la fine dell’orario di visita per scassare i maroni a parenti, amici e cittadini tutti con l’evidentemente inevitabile set fotografico davanti all’altare? E se pur vi ringrazio per la visione di numerose donzelle finniche in vestito elegante e scollato, vi sembra proprio il caso di invadere tutti gli angolini caratteristici della città con attrezzature di vario genere per fare ulteriori foto? Addirittura in mezzo al ponte, con le auto che mettevano due ruote sul marciapiede per riuscire a passare!

Nonostante questo, la città vecchia di Porvoo è stata una piacevole sorpresa: si tratta di un agglomerato di antiche casette di legno, alcune occupate da negozietti, ristoranti e gallerie d’arte, altre tuttora abitate dai villici. Le strade lastricate di pietre irregolari – in alcuni casi scavate sulla nuda roccia – sono ripide e tortuose, ma offrono un grande numero di scorci spettacolari. A pranzo si può anche andare a mangiare nella città nuova, nei baretti lungo il fiume, dove per dodici euro (che per la Finlandia è un prezzo stracciato) ti danno mezzo chilo di fish & chips, probabimente surgelato ma buono; a quel punto, udite udite, può persino uscire il sole, il primo sole finnico che abbiamo visto, e la Finlandia è sembrata persino un posto normale, dove l’estate è estate, il sole scalda, gli alberi veri e quelle delle barche a vela si riflettono sull’acqua, e la brezza rinfresca piacevolmente invece di portarti via e ricoprirti di pioggia nebulizzata nell’aria; un momento veramente piacevole.

Alla fine, venire in Finlandia d’estate non è tanto diverso dalla canonica vacanza in Irlanda o in Scozia che attira migliaia di italiani ogni anno; il clima è fresco e spesso piove, tuttavia non fa troppo freddo. L’unico problema è che tutto costa molto caro; mangiare anche alla veloce con meno di dieci-quindici euro a testa è praticamente impossibile, ed è normale pagare cinque o sei euro in un bar per un caffè o tè e una brioche; i ristoranti economici o self service stanno sui 20-25 euro e quelli medi sui 50. Insomma, venendo da queste parti bisogna evitare di farsi problemi per le spese correnti (poi noi siamo ospitati e ciò ha abbattuto i costi).

Comunque, la Finlandia è per molti versi ancora incontaminata, e uscendo dalla città ogni centimetro non raggiunto dall’espansione umana è ricoperto di una selva di betulle e di un rigoglioso sottobosco, appena spezzato da qualche raro campo di grano (tuttora da raccogliere) e dagli immancabili laghi. I locali sono strani, quando gli parli sono amichevoli (e poi parlano tutti perfettamente inglese) ma sembrano non abituati al contatto umano, tuttavia l’ospitalità è inappuntabile e l’organizzazione è perfetta… e poi devono avere un cuore caciarone anche loro, tanto che gli svedesi considerano i finlandesi rumorosi e maleducati e si rifiutano di ammetterli nella cerchia degli scandinavi. Ciò è dimostrato dal fatto che il guidatore del nostro bus ha preso un giallo pieno a tutta velocità, e che ho visto varie auto tirare dritto anche a fronte di pedoni in arrivo sulle strisce; probabilmente per questo sono stati capaci di produrre una generazione di piloti quasi passabili, come i vari Ricchionen e Cacchinen.

Sono strani anche per vari altri costumi, tra cui quello di fare pipì allegramente in pubblico senza il minimo pudore e senza distinzioni di sesso (stamattina c’era una ragazza che faceva pipì nel giardinetto sulla riva del fiume di Porvoo, un posto visibile da più o meno qualsiasi punto del circondario, chiacchierando amabilmente con l’amica che le stava a fianco). Tuttavia, l’intero ambiente è scuro e austero e l’impressione che ho avuto è quella di un discreto bigottume, ben diverso da Stoccolma dove tutti si abbordano per strada. Ovviamente l’unica forma di socializzazione è l’ubriachezza totale e molesta, ma di questo parleremo meglio in seguito.

[tags]viaggi, finlandia, porvoo[/tags]

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venerdì 28 Agosto 2009, 22:38

Tallinn o Marte

Ho ancora molte cose da raccontare su questi giorni, ma prima di parlare della Finlandia volevo raccontare la gita di oggi a Tallinn – che, per chi confonde le repubbliche baltiche l’una con l’altra, è la capitale dell’Estonia.

Ho capito che c’era qualcosa di strano in questo posto quando sono sceso dal traghetto e ho dovuto percorrere una strana banchina che disegnava angoli retti sul mare, evitando una serie di scalinate dal senso poco chiaro. Per arrivare in città dall’attracco della Linda Line bisogna attraversare la parte più remota e abbandonata del porto, vicino a una opprimente fabbrica abbandonata la cui ciminiera dialoga con i campanili della città. Dopo cinque minuti, però, si arriva all’inizio del centro e lì si trova la prima sorpresa.

Infatti, basta attraversare il grande vialone e ci si trova davanti a una torre medievale rotonda in pietra, accanto alla quale si apre una porta in stile gotico da cui parte una via di case quattrocentesche perfettamente conservate, pitturate e coperte di fiori. Il centro antico di Tallinn potrebbe essere tranquillamente quello di una qualsiasi città tedesca, ma molto meglio conservato; ed è pieno zeppo di ristoranti, negozietti e alberghi nuovi ed eleganti, con tanto di BMW e Audi parcheggiate davanti in abbondanza.

Arrivare a Tallinn dalla Finlandia fa dunque un po’ l’effetto di arrivare in Sudafrica dal Mozambico… per carità, la Finlandia non è male, ma è grigia e nordica, priva di qualsiasi forma di decorazione (quando i russi se ne sono andati, i finnici hanno rimosso tutte le cupole dorate delle chiese ortodosse perché erano troppo appariscenti e luminose), austera al massimo, totalmente priva di lusso e anche un po’ consunta; Tallinn invece è, un po’ come Dublino fino a pochissimi anni fa, una città ex poverissima in mezzo a un boom economico senza precedenti. Inoltre, Tallinn è una città palesemente mitteleuropea. Mentre Helsinki non potrebbe essere altro che in un angolo remoto della regione nordica, Tallinn potrebbe benissimo essere in Germania, in Olanda o nella Francia orientale, e ha un aspetto accogliente e familiare.

Il centro si sviluppa con una serie di scorci meravigliosi – vicoli, case, chiese gotiche e la grande piazza con il regolamentare municipio tedesco con torre, loggiato e ristorante. Poi si sale sulla collina di Toompea – la collina dei danesi, là dove secondo la leggenda nel 1219 una bandiera rossa con la croce bianca piombò dal cielo e segnò la nascita della bandiera e della nazione danese, in trasferta sul Baltico per motivi bellico-commerciali. La collina ospita il duomo protestante e la cattedrale ortodossa, che si guardano l’una con l’altra come a sfidarsi, e una serie di panorami da fiaba sulla città vecchia, sulle mura e sulle periferie immerse nel verde (pur se con ampi casermoni e fabbriconi sovietici a vista).

Dopo aver fatto il peggior cambio di valuta della mia vita (in genere uso il bancomat e da oggi lo farò ancora più regolarmente) abbiamo mangiato bene in uno dei caffè della piazza principale; io ho assaggiato le salsicce del posto e una torta con salsa di ribes, tutto molto buono. Purtroppo la città era piena zeppa di mandrie di turisti; siamo stati tanto sfortunati da incrociare anche qui (come già a Stoccolma) la maledetta Costa Magica, da noi rinominata Costa Maggica Roma perché sembra ospitare migliaia di turisti romanideroma caciaroni e burinissimi. Una nave da crociera è una iattura vivente per il resto del mondo; sbarca in un porto e scarica migliaia di persone che tutte insieme, divise in gruppetti per lingua guidati da una ragazza con palettina numerata, si affollano presso i vari monumenti rendendoli rumorosi e inaccessibili.

Ma noi eravamo preparati, così abbiamo lasciato la cattedrale e solo un paio di isolati più giù siamo andati al momento della verità: il poco conosciuto ma fondamentale Museo delle Occupazioni. Se leggete un po’ di giornali internazionali, sapete che l’Estonia è il paese più antirusso dell’ex Unione Sovietica; la consistente minoranza russa, immigrata negli ultimi cinquant’anni, è fonte di continui scontri di piazza con i nazionalisti e la polizia. Dopo aver conquistato la sua indipendenza approfittando del caos derivante dalla Rivoluzione d’Ottobre e sconfiggendo i tedeschi pre-Weimar e i sovietici bolscevichi, l’Estonia cadde vittima del patto Molotov-Ribbentrop, in cui fu assegnata ai sovietici: nell’estate 1939 fu riempita di basi russe “in segno di amicizia”, poi occupata ed annessa, e così tutti dovettero imparare il russo e professarsi comunisti. Poi nell’estate 1941 fu occupata dai nazisti, e allora tutti dovettero buttare i libri russi e imparare il tedesco. Poi però nella primavera 1944 stavano tornando i russi, e allora gli estoni, pur di non cambiare di nuovo lingua, smisero la resistenza e si arruolarono in massa nell’esercito nazista, purtroppo per loro con pessimo esito. Dopo la guerra i partigiani estoni continuarono a combattere nel silenzio, alcuni fino agli anni ’70, ma per la maggior parte gli estoni non allineati vennero spediti nei gulag e rimpiazzati da immigranti russi.

Di conseguenza, la teoria storica estone dice che l’Estonia non è mai stata parte dell’Unione Sovietica, ma è soltanto stata occupata con la forza per cinquant’anni; naturalmente la teoria storica russa dice l’opposto, in quanto l’annessione fu formalmente approvata dal parlamento estone in carica all’epoca, anche se gli estoni sostengono che tale parlamento fu eletto in stato di occupazione con elezioni fantoccio. In questo simpatico caos, il principale risultato è che gli estoni portano un odio forte e duraturo ai russi (presumo ricambiato); la libertà venne solo perché Gorbaciov non ebbe la forza di reprimere le crescenti spinte nazionalistiche (comunque durante il colpo di stato fallito dell’agosto 1991 arrivarono lo stesso i carri armati da Mosca).

Il museo, dunque, è un pelino orientato contro il comunismo; a un certo punto si dice chiaramente che i nazisti non erano neanche lontanamente cattivi come i sovietici. Ad essere più impressionanti per noi non sono poi tanto le testimonianze delle occupazioni e delle repressioni, viste un po’ in qualsiasi ex regime autoritario del pianeta, ma gli oggetti della vita quotidiana in un paese sovietico. Per esempio il museo ospita una cabina del telefono degli anni ’70, tutta arrugginita perchè completamente in ferro e legno: la plastica doveva essere quasi sconosciuta. Poi vi è una sedia da parrucchiere degli anni ’80: una seggiolina anni ’50 di quelle che da noi erano di formica, ma lì era tutta di legno, con sopra un mostruoso robo per la messa in piega in cui io non infilerei la testa nemmeno sotto minaccia di morte. Ecco, è questa distanza pratica che impressiona: l’incapacità del comunismo di garantire un minimo di benessere, anche solo una frazione di quello che noi da bambini abbiamo vissuto. Ciò che doveva funzionare meglio in teoria, in pratica era diventato solo un vuoto rito di moduli e burocrazia per qualsiasi cosa – tipo, il “permesso per comprare una bicicletta”, naturalmente da ottenere solo dopo ampi servigi al partito – totalmente senza senso e contatto con la realtà, e come tale destinata a far piantare grano dove crescono solo le patate.

Si capisce bene dunque come per questa città fondata e dominata fino a inizio Novecento da mercanti tedeschi, da sempre piena parte della cultura europea, i cinquant’anni sovietici devono essere stati un trasferimento forzato su Marte; e si capisce anche che gli estoni abbiano sradicato praticamente qualsiasi segno di questo passato, almeno dalla zona centrale. Questo non può che essere un paese schizofrenico, in cui l’identità europea e quella ex sovietica convivono ignorandosi e apparendo soltanto una per volta, e in cui la seconda può soltanto essere rimossa.

Per capire bene mancava però ancora qualcosa, e l’abbiamo trovato proprio alla fine: tornando all’imbarco, abbiamo scoperto cos’erano le scalinate. Venendo dalla città, ci siamo trovati davanti a una gigantesca costruzione di cemento – e quando dico gigantesca intendo gigantesca, immensa, grande come un paio di campi da calcio. Oltre che gigantesca, però, questa costruzione era priva di senso; non aveva alcuna funzione apparente, era vuota, deserta e chiaramente in abbandono. Sembrava una specie di spazioporto, e infatti salendo le prime scalinate di cemento – solo cemento e null’altro, né metallo né vetro né legno – ci siamo trovati davanti a una infinita sequenza di lampioncini corrosi, un palo di ferro dell’età del ferro con sopra una bolla circolare di vetro, disposti in una sequenza perfettamente regolare, come a segnalare una pista di atterraggio sopraelevata di dieci metri sul terreno ma assolutamente piana. Evitando le bottiglie rotte e le piastrelle quadrate spaccate, abbiamo percorso l’infinita distesa e abbiamo scoperto delle vecchie porticine di alluminio, chiuse tra due ulteriori scalinate di puro cemento che andavano fino al cielo. Una insegna semicancellata diceva un qualcosa che sembrava “Sala concerti”, ma tutto era sbarrato e chiuso con nastro bianco e rosso, anche se all’interno si vedevano delle seggiole di plastica che sembravano relativamente recenti. L’esterno, però, sembrava in abbandono da quindici o vent’anni.

Salendo un altro giro di scalinate, evitando un po’ di macerie, si arriva al tetto altrettanto piatto, da cui si domina il paesaggio; da una parte si ridiscende verso il mare e l’attracco, dall’altra si vede il porto (tutto rifatto negli ultimi anni con modernissimi palazzi di vetro, centri commerciali, ristoranti e così via) e poi i campanili della città vecchia. Eppure il cemento del tetto è corroso, e verso il mare una bella parte è chiusa e transennata, mentre sul retro c’è l’ingresso di un ex locale notturno di qualche genere nel cui tetto c’è un buco, da cui spunta un tubo arrugginito che gocciola chissà quale schifezza; tuttavia dentro, anche se è tutto sbarrato, ci sono una luce accesa e un registratore di cassa funzionante con scritto “0.00”. Mi aspettavo solo di vedere arrivare dei fantasmi a chiedere un biglietto per l’opera…

Tornati a casa, abbiamo scoperto cos’è: è la Linnahall, già Palazzo della Cultura e dello Sport V. I. Lenin, costruito nel 1980 per le Olimpiadi di Mosca (Tallinn ospitò la vela). E’ l’esempio perfetto dell’architettura sovietica: enorme, inutile, pensato per impressionare e non per servire a qualcosa, immanutenibile, costruito con materiali pessimi, destinato all’abbandono; in più, costruito in uno stile architettonico totalmente scollegato dalla realtà, perfettamente razionale, aggressivo e brutale come il regime, ma assolutamente affascinante, sconvolgente, bellissimo. Così in abbandono, attraversarlo è stato davvero un viaggio su Marte; una scoperta emozionante e piena di timore. Poi però abbiamo scoperto che è chiuso solo da un anno, e che riapre (schivando le perdite d’acqua e il cemento che crolla) tra poche settimane; uno dei primi eventi è un concerto di Toto Cutugno. Quale migliore occasione per visitare Tallinn?

[tags]viaggi, estonia, tallinn, unione sovietica, comunismo[/tags]

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mercoledì 26 Agosto 2009, 21:06

Gioiosa Finlandia

Stamattina, la piazza principale di Turku – la piazza del mercato.

La piazza è piena zeppa di centinaia di bancarelle, che vendono i prodotti della rigogliosa agricoltura locale: frutta, verdura, carne, pesce, tutto viene portato al grande mercato cittadino. I finnici, correndo di buon passo per manifestare la propria gioia di vivere, scherzano e chiacchierano amichevolmente in grandi capannelli, riempiendo ogni angolo della piazza. La musica allegra di un suonatore completa un quadro di eccezionale bellezza.

Sul retro della piazza, l’anziano, centro della famiglia, si reca con letizia nel pubblico locale dove condividerà la mattinata con il suo amico di una vita.

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lunedì 24 Agosto 2009, 22:06

Stoccolma

All’inizio non sembrava che Stoccolma ci volesse accogliere bene: quando ho provato a pagare il biglietto del pullman dall’aeroporto al centro con i soldi avanzati dalla mia visita di nove anni fa ho scoperto che erano fuori corso; e non appena abbiamo messo giù il piede dal bus ha cominciato a piovicchiare, al che abbiamo deciso di provare a fare due isolati per vedere se la pioggia era abbastanza leggera da proseguire nel quarto d’ora a piedi che ci separava dall’albergo: lo era, così abbiamo deciso di proseguire e proprio allora ha cominciato a piovere sul serio; ha smesso solo quando siamo entrati nella hall.

Poi però oggi la città ci ha regalato una giornata magnifica; un sole splendente e solo qualche innocua nuvoletta nel pomeriggio. Il paesaggio così è davvero magnifico: questa è una città sull’acqua e la maggior parte delle vedute ti regala viste di golfi, bracci di mare e riflessi sull’acqua; le altre sono costituite da incantevoli scorci di vicoli medievali con chiese in stile nordico-tedesco e/o muri coperti d’edera. Fa bello e il vento è sopportabile, per cui noi terroni (che in questo periodo costituiamo l’80% della popolazione delle strade centrali di Stoccolma) giriamo con qualche timida manica corta, mentre i locali esibiscono canottiere e micro-pantaloni e alcuni si buttano pure nelle acque gelide del golfo; comunque ho visto alcune minigonne ascellari niente male.

Abbiamo così speso la giornata semplicemente camminando per l’isola che costituisce il centro storico, piena di vicoletti e di turisti; i più frequenti in termini di nazionalità sono nell’ordine spagnoli, russi e romani. Abbiamo snobbato il museo Nobel, che sembra una costosa esibizione di filmati e rassegne stampa del premio; siamo invece entrati gratuitamente al museo delle Monete, che nonostante la scarsità di didascalie in inglese offre numerosi reperti interessanti, come le banconote da 1000 miliardi di marchi della repubblica di Weimar e come una moneta seicentesca svedese d’argento del peso di 20 kg (una volta la moneta valeva per il metallo che conteneva, dunque a tagli grossi corrispondevano pesi ingombranti…). Abbiamo ammirato la folla incredibile che si contendeva una foto del cambio della guardia al palazzo reale… altro che operazione militare; c’era pure il commentatore in inglese con tanto di microfoni e impianto audio!

Siamo andati a fare un giretto nei tranquilli e incantevoli quartieri della parte meridionale, per poi riattraversare il dedalo che nel tempo è stato sovrapposto alla chiusa che separa il mare dal lago e che collega l’isola centrale a Södermalm – tipo tre strade, una autostrada, due strade ciclabili, una ferrovia, una fermata della metro e vari passaggi pedonali che si intersecano e si scavalcano in tutti i modi – e siamo poi arrivati all’isola dei Cavalieri e di lì al municipio, dotato di giardinetti sul mare dove i locali erano distesi a prendere il sole.

A cibo ce la caviamo con l’etnico-e-veloce; ieri kebab, oggi indiano, a pranzo pane e salmone comprato al supermercato, poi ci sono dei 7 Eleven dappertutto in caso di voglia di bevande o di gelato; quello dell’isola antica vendeva pure la Ubuntu Cola, mentre a pranzo ho preso una lattina della birra locale, che è buona anche se amara e ovviamente costa meno sia delle bibite che dell’acqua, e ovviamente è venduta solo nel taglio minimo da mezzo litro. Bisogna dire che la città è parecchio cara, ma se uno non ha grandi esigenze se la cava comunque senza svenarsi.

L’albergo poi è un po’ decentrato ma molto bello; la camera è arredata con mobili di legno antico e ha un bagno in pietra scura che ti ci trasferiresti; il buffet della colazione è ampio e abbondante; per tutto il giorno abbiamo té e caffé a libero servizio; la televisione trasmette film in inglese e partite di calcio internazionale; insomma siamo soddisfatti.

Domani ci aspettano i musei e poi il traghetto: a meno che abbiano Internet sulla nave, non credo che potrò bloggare…

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domenica 23 Agosto 2009, 20:59

Attraversare la Svizzera per ascoltare male

Attraversare la Svizzera in macchina è un progetto interessante. In primo luogo aiuta a rendersi conto quanto essa sia minuscola; se trascuriamo la metà orientale, occupata dal solo cantone dei Grigioni e da qualche località sciistico-mondane d’alta moda come Davos o St. Moritz, la Svizzera è tutta concentrata in un fazzoletto che si percorre da capo a capo in massimo tre ore d’autostrada. Noi dovevamo partire al mattino dalla Val d’Aosta ed essere a Lucerna per il tardo pomeriggio: per questo abbiamo pensato che fosse buona cosa fare qualche deviazione.

In effetti, la prima deviazione è stata un’ottima idea: invece di fare il tunnel, siamo saliti fino al colle del Gran San Bernardo. Il tunnel, tra l’altro, permette un risparmio di strada abbastanza relativo – non è poi così più in basso rispetto al passo. In compenso è un obbrobrio degno della sopraelevata di Pescara: in puro stile cementista anni ’60, lo stradone d’accesso domina la valle sopra Saint-Oyen con una infilata di pile a mezza costa, per poi attraversare ancora la valle in un unico tubone di cemento grigio sospeso a mezz’aria. Nonostante questo, la strada del passo è bellissima; prima è una specie di viottolo abbandonato in una foresta (ma sono in corso lavori per renderlo più percorribile) e poi sale adagiando i propri tornanti sulla montagna pelata cercando di non disturbare troppo.

In un paesaggio lunare, si arriva infine a un buco nella roccia che si apre sulla conca del laghetto, appena sotto il passo: noi italiani, da bravi sfigati, ci siamo beccati la parte bassa (in compenso le signorine del baretto sul lago erano proprio gentili). Il posto di frontiera svizzero però era totalmente deserto (mai vista una cosa simile) e, dopo una adeguata sosta con breve passeggiata sull’erba, abbiamo potuto imboccare la lunga e filante discesa che porta a Martigny.

Dopo una breve sosta all’autogrill per comprare in francese la vignetta (per fortuna avevo franchi d’avanzo da vecchi giri ginevrini), è iniziato il tratto autostradale: che è una discreta noia, perchè al più piccolo accenno di difficoltà gli svizzeri abbassano il limite. C’è una galleria di cinquanta metri? Limite dei 100. Si stringe un po’ la carreggiata perchè tagliano l’erba sul bordo? Limite degli 80 da cinque chilometri prima a cinque chilometri dopo. E sono limiti seri, a cui mi sono strettamente attenuto, pur aggiungendoci un margine di una decina di chilometri dopo aver visto il comportamento dei locali.

E così, la noia incombeva; certo mi sono potuto assicurare di avere su un disco dei Deep Purple mentre percorrevamo lo spettacolare tratto che sorvola Montreux-on-the-Lake-Geneva-shoreline, ma era tutto lì. E così, mentre galleggiavo a 80 orari sulla tangenziale di Berna, ho avuto un’altra idea brillante e ho deciso per una deviazione: uscire dall’autostrada e fare la strada più breve, ossia la statale della valle dell’Emma.

Ecco, questa per certi versi non è stata una buona idea, perchè se i limiti di velocità svizzeri sono tremendi in autostrada, sono mortali in mezzo ai paesi: 50 nel centro abitato e 60 tra le case sparse ai bordi, rispettati praticamente alla lettera. In pratica, la guida si trasforma in uno smanettamento ossessivo del cruise control per adeguarlo ai limiti man mano che cambiano, dato che un italiano alla guida, senza cruise control, non è in grado di andare stabilmente a 50 orari su una strada dritta e libera, pur se tra le case: ti distrai un attimo e sei già a 70. E poi ogni cento metri c’era un cartello che pregava gentilmente di andare piano per non investire i bambini; e non fosse mai che la guida disattenta di uno straniero possa privare gli svizzeri di un qualsiasi futuro campioncino, un purosangue elvetico tipo Dzemaili o Turkyilmaz.

In compenso, però, la valle dell’Emma è davvero bellissima. Posso innanzi tutto smentire un mito: no, le case non sono fatte di formaggio. Però hanno una forma stranissima, che pare pensata da un matematico per definire un solido di nuovo tipo. Il tetto in cima è piatto, poi ha un tratto poco inclinato e infine, raggiunti i bordi della casa, spiove proteggendo i balconi, in una specie di grande fungo regolare. La valle, poi, è in realtà una serie di prati in mezzo a colline ondulate, coperte di prati tutti perfettamente rasati e puliti. La strada è affiancata dalla regolamentare ferrovia svizzera, su cui circolano sia treni passeggeri (pieni) che treni merci (credo che trasportino i buchi del formaggio fino alla fabbrica dove vengono inseriti dentro la forma). In uno dei paesi, poi, era tutto mezzo bloccato: si svolgeva una delle tradizionali feste in costume da fesso che si usano da queste parti, con cuffiette, corni, pizzi, corpetti e così via.

Alla fine siamo arrivati a Lucerna. E’ una città minuscola ma ciò non vi tragga in inganno, ci vogliono comunque venti minuti per attraversare i dieci isolati dalla periferia alla piazza della stazione. E’ noto che quando le nazioni del mondo hanno firmato la convenzione di Ginevra per vietare la tortura, hanno aggiunto una postilla che dice “comunque i semafori svizzeri sono ammessi”. Anche i semafori svizzeri sono pensati da un matematico: il traffico è gestito in maniera ossessiva, e lo spazio disponibile viene suddiviso in una corsia per le auto che svoltano a sinistra, una per quelle che vanno dritto, una per quelle che vanno a destra, una per il bus che va dritto, una per il bus che deve girare, una per i taxi, una per le bici, una per i cani, una per i passeggini e una per il signore anziano del palazzo a fianco che ha la porta del garage vicino all’incrocio e si troverebbe altrimenti a doversi infilare in mezzo alle auto in coda quando esce la domenica mattina per andare a messa. Se non vi è spazio per tutte queste corsie, o si vieta il transito ad alcune categorie o si vieta la svolta, in quanto l’idea di stare fermi sul bordo sinistro della corsia aspettando che non arrivi nessuno dall’altra parte per girare è considerata una forma di pericolosissima anarchia.

Infatti, a ognuna di queste corsie – che vengono tracciate con strisce tratteggiate di vario colore per tutta l’estensione dell’incrocio, creando un allegro reticolo di linee colorate che rende impossibile capire dove si debba andare e scatena anche qualche crisi di panico nell’automobilista non abituato – corrisponde una fase semaforica separata, giacchè sarebbe pericoloso che due categorie o due direzioni diverse passassero contemporaneamente. Ogni semaforo ha dunque da dieci a venti fasi separate, il che rende la durata media del ciclo pari a circa cinque minuti; naturalmente però, per evitare il collasso completo, il semaforo viene sincronizzato con quello prima e quello dopo.

Tuttavia, date le diverse configurazioni degli incroci, spesso le sincronizzazioni vengono realizzate a cicli multipli: che so, ogni cinque cicli interi il semaforo della piazza della stazione si trova sincronizzato con quello del viale a monte, mentre ogni tre cicli è sincronizzato con quello dall’altro lato del ponte, dunque ogni quindici cicli (75 minuti) si realizza la configurazione magica per cui puoi passarli tutti e tre insieme senza aspettare cinque minuti per incrocio, e questo è il caso in cui il raggio di luce proiettato dall’ultimo semaforo in fondo colpisce direttamente la lanterna rossa del primo semaforo facendo apparire al centro dell’incrocio il Sacro Graal.

Tutte le altre volte, invece, ci metterete dieci minuti buoni per attraversare la piazza.

E non è finita qui: perché alla fine arrivate al parcheggio sotterraneo. Ogni città svizzera è organizzata così: ovunque la sosta è vietata oppure riservata ai residenti; tutti gli altri devono recarsi in una delle piazze principali, ognuna delle quali è dotata di un apposito parcheggio sotterraneo a pagamento. E’ un ottimo sistema, e insieme ai semafori contribuisce molto a scoraggiare l’uso inutile dell’auto privata. Quando però arrivi al parcheggio e vuoi capire quanto ti peleranno, ti trovi di fronte a un cartello anch’esso progettato da un matematico, che dice la cosa seguente: “Il costo di base è di 1,50 franchi per i primi 15 minuti. Successivamente il costo è di 0,10 franchi ogni tre minuti.”

Matematicamente è perfetto: p = 1,50+0,10*(t-15)/3. Ti dice esattamente qual è l’unità di arrotondamento del tempo, che viene calcolato con una precisione tale che non ti capiterà mai di pagare una botta extra solo perchè sei arrivato un minuto in ritardo sullo scoccare dell’ora. C’è un piccolo problema: tu sei lì alla sbarra e vuoi decidere se entrare o no, e vorresti capire quanto ti costerà una sosta di circa quattro ore, anche a spanne ma in fretta, che dietro si sta formando la coda. Ecco, in questo caso o sei svizzero oppure ti capiterà quel che ho visto io, cioè auto da mezza Europa accostate con le quattro frecce mentre il guidatore, contando sulle dita con aria perplessa o talvolta aiutandosi col cellulare, cerca di capire quanti blocchi di tre minuti ci sono in quattro ore.

Capirete quindi perché al ritorno serale, passato il Gottardo e riapparse le scritte in italiano, mi è sembrato di tornare a casa; e a Como, poi, finalmente la liberazione di poter accelerare e cominciare a interpretare i limiti di velocità anziché rispettarli…

P.S. Non vi ho detto nulla del concerto: a Lucerna siamo andati a sentire Abbado che dirigeva un’orchestra che suonava una roba che non avevo mai sentito. Devo premettere che io ho bazzicato molto la musica classica dai quattro ai quattordici anni, poi mi fecero ascoltare gli Iron Maiden e lì capii che ogni arte ha il suo momento storico. Comunque, questa nuovissima e lussuosissima sala da concerti svizzera era piena di gente in gran spolvero, chi da Monaco chi da Milano, tutti in abito da sera e alcune signore anche chiaramente imbalsamate subito prima di uscire perché stessero in piedi, che veniva ad ascoltare il maestro suonare male… almeno così ho capito, gli italiani dicevano che stasera suonava male, che è da un po’ che vuole suonare male, e che finalmente esegue la quarta sinfonia di male.

Secondo me invece suonavano bene; l’orchestra dal vivo fa sempre impressione, questa poi era enorme (ho contato fino a trentanove solo con i violinisti). Peccato che codesta quarta sinfonia di male – che non avevo mai sentito se non per cinque secondi che ho riconosciuto perché li usavano per la pubblicità dell’elettricità l’anno scorso su Radio Popolare – fosse una lagna assurda, una accozzaglia di pezzetti di trenta secondi che presi singolarmente sarebbero stati tutti molto belli, ma che venivano buttati lì senza una logica, in un ammasso di musica senza capo né coda che pareva generato con un procedimento casuale. All’inizio ero sveglio perché il mio posto era su un cornicione largo un metro posto a circa trenta metri d’altezza (non sto esagerando) sul muro laterale della sala, proprio sopra le teste degli orchestrali, separato dal vuoto solo da una bassa balaustra; è stato faticosissimo non svenire per le vertigini. Poi però mi sarei bellamente addormentato; e invece non riuscivo nemmeno a dormire, perché ogni tanto l’algoritmo di generazione casuale della musica buttava fuori un fortissimo e lì facevano veramente fortissimo, sembrava quasi che se l’avessero avuto avrebbero buttato in scena anche un elefante a barrire per fare più fortissimo.

Insomma non è che si può dire che fosse brutto, ogni tanto c’erano dei pezzi carini, però due palle così, davvero: in termini di teoria musicale, questa cosa per poter essere una sinfonia mancava di alcune cose fondamentali, tipo, che so, un tema melodico che si ripete variato, dei movimenti distinguibili l’uno dall’altro non solo in base all’ora che s’è fatta, e così via. Invece qui c’era un remix di pezzetti di valzer viennese e pezzetti di colonna sonora da film, e insomma ci avessero messo sullo schermo Titanic con Leonardo Di Caprio codesta musica ci sarebbe andata a fagiuolo e almeno sarebbe servita a qualcosa, ma senza immagini era noiosa come un qualsiasi disco della colonna sonora di un film, che infatti hanno smesso di pubblicarli e hanno cominciato a fare le compilation con le canzoni, anche quelle che nel film si sentono per tre secondi, perché di ascoltare un’ora di violini ora crescenti ora pianissimi ora drammatici ora estasiati non c’ha più voglia nessuno.

Magari se uno lo sente un po’ di volte poi gli piace, come i dischi del periodo minimalista dei Radiohead; tuttavia mi sa che la prossima volta vado a sentire Beethoven o qualcuno che componga una sinfonia con tutti i crismi.

[tags]svizzera, traffico, semafori, torture, parcheggi, matematica, lucerna, musica classica, abbado, male[/tags]

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venerdì 21 Agosto 2009, 16:20

Turismo sparso

Per prima cosa volevo lamentarmi del fatto che stamattina a Champoluc ho fatto venti minuti buoni di coda a passo d’uomo, attraverso l’unica via del paese, per arrivare fino al mercato settimanale. Il mercato occupa l’unico parcheggio del paese, per cui il giorno di mercato è normalmente affollato; di solito si parcheggia lungo la strada principale una volta usciti dal paese, in mezzo ai prati. Oggi però no: trattandosi del giorno più trafficato dell’anno, l’unico vigile si era appostato proprio accanto al mercato con l’unico scopo di multare senza pietà chiunque osasse cercare di lasciare l’auto da qualche parte. Il fatto che non esistessero altre possibilità di parcheggio pareva essere irrilevante: l’obiettivo non era organizzare meglio le cose – difatti il risultato era una fila di tre chilometri di auto ferme a sgasare in mezzo al paese, perchè chi arrivava là non sapeva bene che fare e rimaneva fermo in mezzo – ma semplicemente fare un po’ di cassa sulla pelle dei turisti.

Alla fine abbiamo lasciato l’auto sempre sul bordo della strada, ma qualche centinaio di metri più in là, fuori dalla portata del vigile: certo che dopo un trattamento del genere, unito al piacere di una lunga coda che neanche sullo svincolo di viale Certosa alle 9 di un lunedì mattina, e all’aria resa irrespirabile dai gas di scarico, non penso che tornerò tanto presto a Champoluc.

Comunque, stasera alla Sagra del Cinghiale di Pontey inizia il nostro tour, che prevede le seguenti tappe:

Ven 21 Pontey
Sab 22 (pom) Lucerna
Sab 22 (notte) Milano
Dom 23 Stoccolma
Lun 24 Stoccolma
Mar 25 Stoccolma
Mer 26 Turku
Gio 27 Helsinki
Ven 28 Helsinki
Sab 29 Tallinn
Dom 30 Helsinki
Lun 31 Toro-Empoli

Ho superato alcune difficoltà tecniche, come prenotare un traghetto finlandese da una compagnia che non accetta le carte di credito italiane per “problemi tecnici e di sicurezza”. Ora vediamo se riusciamo a fare l’intero giro senza intoppi: prometto di bloggare se e come si riesce…

[tags]turismo, val d’aosta, champoluc, traffico, pontey, giri strani[/tags]

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