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martedì 29 Agosto 2017, 08:57

Per fortuna c’è chi vigila

Nel 2004, due fisici russi trapiantati a Manchester hanno un’idea: dato che la grafite è formata da strati di carbonio sovrapposti (quelli che le matite depositano sui fogli di carta), non esisterà il modo di staccarne uno e costruire un materiale bidimensionale sottilissimo ma resistente? E trovano una soluzione geniale: attaccano alla grafite un pezzo di scotch e poi lo strappano via, ripetendo il procedimento fin che non gli resta attaccato un solo strato di carbonio: il grafene.

Nel 2010, i due fisici ricevono il premio Nobel per questa scoperta, mentre a Manchester gli dedicano un’ala del museo della scienza. In tutto il mondo nascono esperimenti e startup tecnologiche per lavorare alle applicazioni industriali, dall’elettronica all’ingegneria dei materiali.

Nel frattempo, come è giusto che sia, si indaga anche sulla tossicità del materiale: è intuitivo che, frammentando il grafene, si possano ottenere pezzetti sottilissimi che se respirati potrebbero fare male, esattamente come le altre microparticelle; anche se, essendo il grafene flessibile ma resistente come il diamante, frammentarlo non è proprio immediato.

A partire dal 2013 vengono pubblicati numerosi studi medici sulle più importanti riviste scientifiche, con risultati ancora non definitivi: alcuni sono più allarmisti, altri più tranquillizzanti. Si tratta comunque di un problema futuro, in quanto l’intero mercato mondiale del grafene è attualmente stimato in circa 150 milioni di euro: si tratta perlopiù di produzioni sperimentali o ultraspecialistiche, e ci vorranno ancora diversi anni prima che i prodotti basati sul grafene siano diffusi nelle nostre case e nelle nostre città.

Poi, nel 2017, è arrivato il Movimento 5 Stelle di Mandello del Lario.

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giovedì 10 Agosto 2017, 14:47

Venezuela e populismo

Anche per il Venezuela, inevitabilmente, le interpretazioni che si sentono dare qui da lontano sono più legate agli schemi ideologici precostituiti di chi commenta che alla realtà delle cose. Ho trovato però molto interessante e plausibile la ricostruzione che ha fatto un venezuelano emigrato, in un thread che stavo leggendo. La riporto più sotto, ma prima aggiungo due commenti.

Il primo è che quando, come in Venezuela, si arriva alla guerra civile, si verifica anche una incomunicabilità totale tra le due parti; le due fazioni vivono in due realtà diverse e inconciliabili. Ma forse è anche vero l’opposto; si arriva alla guerra civile perché le due fazioni vivono in due realtà diverse e inconciliabili, e la responsabilità di chi sta fuori, come noi, sarebbe quella di promuovere il dialogo e non di schierarsi dall’una o dall’altra parte.

Il secondo è che la parabola del chavismo, raccontata da chi l’ha vissuta, presenta delle somiglianze impressionanti con la parabola del populismo all’italiana. Un leader carismatico parte con buone intenzioni, polarizza lo scontro tra “esclusi” e “inclusi” mobilitando i primi, ma presto si circonda soltanto di fedelissimi. Arrivati al potere, si scopre che i fedelissimi sono lì anche o solo per i propri interessi personali, e che il risultato è una nuova classe dirigente mediocre o persino inetta. Fin che le casse pubbliche sono piene di soldi (per il Venezuela, grazie al prezzo del petrolio elevato) il sistema regge e ci sono anche dei benefici per i più poveri, poi però i soldi finiscono e non c’è più modo di tamponare i disastri dovuti a corruzione e incapacità, e il Paese tracolla.

Il Venezuela è alla fine della parabola, ma noi siamo circa a metà; e per questo la storia del chavismo deve metterci in allarme.

“Il gran merito di Chávez è quello di essersi rivolto a settori emarginati della società. In quel senso, magari possiamo dire che li ha dato una dignità che non sentivano di avere (parlo di “loro” perché come avrai capito, io sono figlio della classe media borghese). Il discorso di Chavez, però, a mio avviso, è stato sempre molto aggressivo e polarizzato, “ricchi contro poveri”. Diciamo che Chavez utilizzo il risentimento sociale delle classi più disagiate è il rifiuto intrinseco nei confronti dei poveri delle classi invece più privilegiate. È un discorso che ai “ricchi” non è piaciuto, per ovvi motivi, e hai “poveri” invece si. Praticamente, butto benzina sul fuoco, ma si questo siamo responsabili tutti, appunto, per aver ignorato sistematicamente i settori più poveri durante tanti anni.
Quindi, Chavez è al
Massimo della popolarità e con le tasche piene , grazie al prezzo del petrolio (massimo storico) investi in programmi sociali , la sua base elettorale molto contenta, ovviamente. E fa bene. Bisogna dare di più a chi ne ha più bisogno. Il problema è stato che Chavez si è circondato da una cricca di delinquenti , che non vedevano l’ora di istallarsi nel potere per “repartirse la torta”, come diciamo noi. Chavez ha permesso questa situazione perché aveva bisogna di persone leali al “processo”, anche se quella lealtà fosse a pagamento. Il risultato è che i programmi sociali, dicono, in realtà ha beneficiato soltanto a un 10% della popolazione, e oggi, dopo tanti anni, sono praticamente falliti tali programmi. Chavez non sfruttò la bonanza petrolifera per promuovere lo sviluppo economico del venezuela, che ad oggi dipende più che mai , del petrolio. Quei soldi sono stati usati per comprare alleanze internazionali, è una enorme fetta è in tasca di tanti membri del governo.
Il prezzo del petrolio cala, Venezuela non ha più soldi. I programmi sociali e tutti quei benefici , spariscono. La dignità diventa solo retorica, perché di dignità non si vive, e se devi cercare nella spazzatura per poter nutrirti, ecco…
il discorso, come al solito, i ricchi c compresi quelli nuovi, figlio della oscena corruzione che piaga il Venezuela, rimangono ricchi e se la cavano alla grande. La classe media sparisce lentamente, mangiata dall’inflazione galopante, e quelli che staranno sempre peggio sono i poveri. Durante Chavez c’è stato un picco di… stare meglio, per poi sprofondare nella merda più totale, grazie alla mediocrità del governo di Chavez e Maduro. Ecco perché Maduro non conta con il supporto della popolazione. Sta sempre più solo.”

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giovedì 3 Agosto 2017, 14:06

Palestina (8) – Nella moschea dei patriarchi

Mohamed è un ragazzone ben vestito, dalla maglietta viola. Avrà venticinque anni e parla un inglese perfetto; potrebbe essere un qualsiasi studente arabo di una università di Londra, e invece è qui a Hebron, nella sua città, a fare (anche) la guida ai turisti. Dà subito l’impressione di uno che ne ha viste molte, e che comunque è perfettamente in controllo della situazione; del resto, di turisti a Hebron non ce ne sono molti, e gli unici due gruppi che vedremo durante la mattinata saranno il nostro e un gruppetto di altri tre turisti affidato al suo amico del cuore, anch’egli di nome Mohamed; ed entrambi i gruppetti saranno osservati con interesse durante tutto il giro.

Mohamed appare nella veranda di un negozietto di souvenir sulla piazza della Tomba dei Patriarchi, l’unico aperto. Dall’altra parte c’è una specie di stazione dei pullman israeliana, con cibo self service e libri in ebraico; da questa c’è il negozietto degli arabi. Non c’è nessuna protezione, nessuna separazione; eppure per qualche motivo il confine tra la luce abbacinante che allaga la piazza deserta e l’ombra scura della veranda del negozio segna il salto da un mondo all’altro. La nostra guida israeliana non entra nella veranda, ci lascia a mezzo metro da lì; e da lì, varcando la soglia, siamo nelle mani dei palestinesi.

Mohamed ci tiene a mettere subito le cose in chiaro, e per prima cosa tira fuori la stampa A3 di una cartina, in inglese, impaginata in modo professionale e perfettamente plastificata. La cartina mostra il centro storico di Hebron, ed evidenzia tutte le restrizioni a cui sono sottoposti i palestinesi.

Noi ci troviamo vicino alla scritta “Bab al-Khan”, al checkpoint all’incrocio tra tre strade: quella rossa (riservata agli israeliani) che arriva da est, dove ci ha lasciati l’autobus; quella viola verso nord (dove il passaggio dei palestinesi è vietato salvo una autorizzazione specifica, come quella che ha Mohamed), che sale verso l’ingresso della moschea; e quella tratteggiata verso ovest, che porta agli insediamenti ebraici, e che è una terra di nessuno: una volta era piena di negozi, ma sono stati tutti chiusi per ordine dell’esercito israeliano, per motivi di sicurezza.

Il checkpoint in quel punto è in realtà semplicemente una transenna, dietro la quale stanno in piedi un paio di soldati; hanno solo chiesto conferma alla nostra guida israeliana che non ci fossero musulmani nel gruppo, visto che altrimenti avrebbero dovuto avere l’autorizzazione speciale. Più serio è il checkpoint in cima alla salita, a cui ci porta Mohamed, per passare dall’area H2 ebraica all’area H2 islamica: qui ci guardano dentro le borse, prima di farci passare verso l’ingresso della moschea.

Nel vicolo che porta alla moschea si vede un altro checkpoint, che praticamente è solo un tornello; oltre, una non meglio precisata opera di beneficenza islamica, legata al governo palestinese, sta distribuendo cibo alle famiglie arabe di Hebron. A giudicare dalla coda, una metà abbondante della popolazione di Hebron sono bambini…

Seguo Mohamed sulla scalinata che porta dentro la moschea; da vicino, sembra ancora più grosso. Ci confermerà poi che una delle sue varie attività è il pugilato, e che sono molti i giovani palestinesi che lo praticano, come forma di autodifesa verso i soldati israeliani.

Arriviamo all’ingresso della moschea dei patriarchi. Siamo tutti vestiti, come si dice in inglese arabo, “modestamente”; già il giorno prima ci avevano avvertiti di indossare pantaloni lunghi e, per le donne, coprire bene spalle e corpo. Nonostante questo, a Elena e alle altre donne del gruppo viene imposto una specie di cappuccio del Ku Klux Klan, per non offendere l’Islam e i fedeli presenti nella moschea.

La moschea è quasi completamente vuota, sia perché non è ora di preghiera, sia perché per arrivarci ci sono i checkpoint, ma è ben tenuta ed estremamente affascinante; davanti alle tombe dei patriarchi, protette da una inferriata, i fedeli lanciano monete e oggetti portafortuna.

Arriviamo proprio mentre un gruppo di persone si accinge a calare delle candele per illuminare la sottostante grotta di Macpela, quella in cui i resti dei patriarchi, secondo la leggenda biblica, sono effettivamente stati sepolti.

A un certo punto, un corridoio vicino alle tombe finisce contro una paratia di legno. Di là, ci spiegano, è la parte degli ebrei, la sinagoga. Le stanze di alcune tombe hanno una finestra che dà da un lato e un’altra che dà dall’altro, in modo da permettere a entrambi i gruppi di vederle. Ma per evitare che da una finestra possano tirare qualcosa contro i fedeli di diversa religione che stanno dietro l’altra, tra le due, in mezzo alla stanza chiusa, è stata collocata una protezione trasparente.

La moschea dei patriarchi è davvero un’oasi di pace, anche se fa specie sapere che anche lì dentro si sono sparati e massacrati; durante la visita, ci è stata ampiamente descritta più volte tutta la scena della strage di Hebron “palestinese”. Non dimenticare, non perdonare mai, punire tutti per le colpe di uno, sostenere sempre di avere un diritto in più e una vittima in più degli altri, è l’approccio tipico delle guerre etniche come questa. Questo lo abbiamo visto meglio subito dopo, quando Mohamed ci ha fatti uscire dalla moschea e portati nel cuore del conflitto: dentro l’antico mercato di Hebron.

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venerdì 14 Luglio 2017, 09:22

Palestina (7) – Il colono e la pistola

Andare a Hebron da Gerusalemme non è affatto difficile; ci si può andare con un normale bus di linea interurbano, il numero 383, che parte dalla stazione centrale dei pullman.

Anche per motivi di sicurezza, gli autobus partono dall’interno di un grosso edificio, al cui ingresso c’è un “normale” controllo con il metal detector, come quello che in Israele c’è in ogni ufficio pubblico o centro commerciale. Ci si trova quindi ad aspettare di fronte a un gate numerato, fin che l’autobus non arriva e carica i passeggeri. Il bus per Hebron è piuttosto frequente e ha un pubblico misto: metà sono i cosiddetti “coloni”, persone che abitano negli insediamenti ebraici nei territori occupati, o altri civili israeliani che si recano da loro; l’altra metà sono militari, generalmente ventenni o poco più, ragazzi e ragazze in ugual misura, vestiti mimetici e con grossi borsoni – e con i mitra.

La nostra guida, che per il viaggio iniziale è un ebreo di una associazione pacifista per il dialogo interetnico, cerca di rassicurarci spiegandoci che il bus è antiproiettile, vetri compresi; ma non è che questo ci rassicuri molto. Eppure, per il resto la situazione è sorprendentemente normale; saliamo, paghiamo il biglietto all’autista (meno di due euro), ci sediamo davanti, nel sedile panoramico; soltanto dopo mi viene in mente che, se mai qualcuno sparasse contro o dentro il bus, quella è probabilmente la posizione più esposta di tutte.

Il primo ostacolo, comunque, è riuscire a uscire dal garage dell’edificio, nel traffico impazzito di Gerusalemme ovest. Superato l’ingorgo, il pullman comincia tranquillamente a fare le sue fermate per strada, fino ad arrivare nella periferia sud, in quello spazio che teoricamente è oltre il confine del 1949 ma che è ormai annesso a Gerusalemme da un pezzo.

Qui sale un signore sulla cinquantina, vestito all’americana. Ha la kippah in testa, una camicia a quadrettoni, dei pantaloni Dockers con la cintura di pelle nera; è solo che si ferma a pagare il biglietto proprio davanti a me, e lì noto che ha una pistola infilata nella cintura. Avete presente quegli incubi in cui tutto sembra perfettamente normale, ma poi a un certo punto noti un dettaglio che ti fa capire che tutto è orrendamente sbagliato, e quindi è per forza un sogno? Ecco, ho provato la stessa sensazione, solo che era la realtà.

Il bus percorre in senso opposto la strada veloce che abbiamo percorso il giorno prima al ritorno, che con un viadotto e un paio di gallerie permette di superare Betlemme senza attraversarla; è una circonvallazione per velocizzare il traffico diretto in Giudea, ma è anche un modo per evitare agli israeliani diretti più a sud l’attraversamento della città araba; e infatti la strada è protetta dalla città soprastante con il suo bravo tratto del muro di Betlemme.

Superiamo il checkpoint, che è solo in senso opposto; non c’è nessun controllo per chi da Gerusalemme entra in Giudea. Di qui in poi, siamo nel cuore dei territori occupati, sulla principale arteria di comunicazione, che serve sia gli insediamenti ebraici che la popolazione palestinese. Qui, auto israeliane e auto palestinesi sfrecciano tranquillamente fianco a fianco; a giudicare dalle targhe, la proporzione è abbastanza paritaria.

Dopo una mezz’oretta, arriviamo a un grosso incrocio, alla cui fermata scendono diverse persone, sia civili che militari. In pratica, è un piccolo centro commerciale all’americana piantato sulla highway, e usato indistintamente da ebrei e musulmani. La nostra guida lo sottolinea con piacere, come per dire che non tutta la Cisgiordania è come Hebron, e non sempre la convivenza è impossibile.

In effetti, io mi aspettavo che tutta la strada fosse circondata da muri, barriere, posti di blocco; invece anche il viaggio è sorprendentemente normale. La strada si srotola tra colline piuttosto brulle ma sempre più coltivate, spesso coperte di piccoli e stentati filari di viti. Sono molto frequenti gli insediamenti, alcuni ebraici (la guida ci spiega che si riconoscono dai tetti rossi a punta), ma per la maggior parte arabi. Alla fine, il tutto ricorda abbastanza il Sud Italia, però più brullo.

Certo, anche sulla strada ci sono tracce del conflitto; per esempio le fermate dell’autobus in cemento, con protezioni di ulteriore cemento per evitare attentati con veicoli scagliati sulle persone in attesa, che qui sono già “normali” da decenni, e con tentativi poco riusciti di ingentilire il mezzo bunker con disegni per i bambini che ogni mattina lì aspettano lo scuolabus.

A un certo punto, parte una nuova circonvallazione; la strada storica si infila in una cittadina araba, ma anche qui gli israeliani, per poter raggiungere gli insediamenti di Hebron senza rischiare l’agguato, hanno costruito una variante che piega e serpeggia in mezzo al nulla, evitando tutti i villaggi fino a raggiungere l’ingresso di Kiryat Arba. Su questo bivio gli arabi hanno invano messo un grosso cartello che indica che Hebron “quella vera” è dalla loro parte. Io ho uno strano deja vu: l’andamento della strada e delle colline mi fa venire in mente la strada statale che da Alba porta a Torino, là dove hanno costruito la nuova circonvallazione di Canale e Montà. Il paragone palestinesi-cuneesi e israeliani-torinesi non ha molto senso, ma il cervello fa di questi scherzi.

Comunque, finalmente entriamo in questa famosa “colonia”. Kiryat Arba è un insieme di poche strade linde ma tortuose che seguono il profilo della collina, su cui sono state costruite villette e piccoli condomini.

A una fermata scende un gruppo di ragazze in vestiti civili, alte e dai capelli lunghi; sono le nove del mattino e mi sembrano una classe scolastica, ma se così è, è decisamente una scuola per modelle. Poi arriviamo in fondo, e finalmente sulla collina di fronte vediamo apparire la periferia di Hebron: qui non c’è muro, c’è solo una recinzione di rete metallica.

Infine, usciamo dalla colonia dal lato opposto rispetto a quello da cui siamo arrivati. Qui c’è un altro checkpoint, ma è soltanto una strettoia con una sbarra (la foto è rivolta all’indietro, dall’esterno verso l’interno di Kiryat Arba).

E’ a quel punto che le cose precipitano. Ma precipitano fisicamente: improvvisamente non ci sono più strade linde e fermate dell’autobus in vialetti alberati, ma una serie di case tutte coperte di scritte, in parte in ebraico e in parte in arabo, che sembrano abbandonate – le finestre chiuse, i negozi sbarrati. Il pullman comincia ad andare giù, sempre più giù, lungo una discesa tortuosa che si fa sempre più ripida, accelerando continuamente. E’ un percorso spettrale che probabilmente dura un paio di minuti, ma che sembra lungo come una discesa all’inferno; e che non sia un posto per gli umani si capisce proprio dal fatto che gli umani per strada improvvisamente non ci sono più.

E poi, senza preavviso, il pullman frena e accosta davanti a un giardinetto. E’ la fine della corsa, il capolinea; la piazza di ingresso al lato israeliano di Hebron, su cui incombe la Tomba dei patriarchi.

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lunedì 10 Luglio 2017, 14:03

Palestina (6) – Verso Hebron

Come vi ho raccontato, il nostro primo giorno per i territori palestinesi è stato, oltre che interessante, sorprendentemente tranquillo; pensavamo di andare in una zona di guerra, e invece non s’è visto niente di particolare, a parte un confine più fortificato del solito ma che abbiamo attraversato praticamente senza alcun controllo. Per questo, il secondo giorno abbiamo deciso di passare al livello successivo e di andare direttamente a Hebron. Prima di riprendere il racconto e di pubblicare le foto, però, è bene che conosciate un po’ meglio la storia e la situazione della città; altrimenti non capirete niente.

Se chiedessi di indicare Hebron su una cartina pochissimi lo saprebbero fare, eppure chiunque in Occidente ha sentito quel nome: è uno dei posti dove israeliani e arabi si ammazzano tra loro con maggiore frequenza. E’ una città talmente contesa che non fu possibile includerla negli Accordi di Oslo, ed è invece regolata da vent’anni da un successivo accordo speciale firmato tra Netanyahu e Arafat, e nemmeno ratificato formalmente. Basta una virgola di troppo in un documento, una parola sconsiderata o provocatoria che faccia immaginare la possibile attribuzione della città a una sola parte o solo all’altra, per scatenare reazioni furibonde, nuove crisi, nuova violenza a parole e anche nei fatti (per l’ultimo esempio, citofonare a quei fenomeni dell’Unesco).

Hebron è, innanzi tutto, la capitale della Giudea, la zona collinosa a sud di Gerusalemme che è la madrepatria storica del popolo ebraico, al punto che in tutte le lingue del centro e nord Europa gli ebrei vengono chiamati direttamente “giudei”. Essa ospita uno dei luoghi più sacri per tutte le religioni del libro, ossia la Tomba dei patriarchi, in cui (per chi ci crede) sono sepolti diversi personaggi biblici tra cui Abramo, progenitore di tutti gli ebrei, cristiani e musulmani.

Durante tutti i secoli di dominazione ottomana, a Hebron ha sempre vissuto anche una comunità ebraica; fu lì fino al 1929, quando sotto il dominio britannico, in un quadro di tensioni crescenti tra ebrei e musulmani, gli arabi cacciarono gli ebrei di Hebron con un terribile pogrom che provocò 67 morti (per gli israeliani, questa è la “strage di Hebron”).

Gli inglesi, da bravi colonialisti, prima fecero finta di niente e poi preferirono evacuare tutti gli ebrei sopravvissuti (alcune centinaia) e vietare loro di tornare nelle loro case. Anche quando, dopo il 1947, Hebron passò sotto controllo arabo e fu annessa alla Giordania, gli ebrei ne restarono banditi; in segno di buona volontà, gli arabi usarono le rovine dell’antica sinagoga cinquecentesca come stalla per le pecore.

Quando nel 1967 Israele riconquistò militarmente la Cisgiordania, un misto di eredi degli espulsi e di integralisti ebraici reclamò il diritto di rientrare nelle ex proprietà ebraiche di Hebron, nel frattempo distrutte o confiscate dagli arabi per loro uso, e ricostruire le case per ristabilire nella città una comunità ebraica. La cosa avvenne contro il volere dello stesso governo israeliano, che accettò infine la mediazione di costruire un po’ più in là la colonia di Kiryat Arba, su una collina (ex base militare) che guarda la città ma ne rimane all’esterno, e di permettere al massimo una visita scortata ogni tanto. Queste visite non vennero certo accolte tranquillamente dai palestinesi; tuttavia, la separazione fisica rendeva le cose ancora gestibili.

Il passo successivo dell’escalation avvenne nel 1979, quando un gruppo di coloni occupò direttamente l’ex ospedale ebraico nel centro storico di Hebron, accanto all’antica sinagoga, e fondò l’insediamento di Abraham Avinu; dopo diversi mesi di battaglie legali, la Corte Suprema di Israele diede ragione ai coloni, e il governo riconobbe l’insediamento.

Questo portò alla nascita delle cosiddette “colonie israeliane” di Hebron, che però secondo chi ci vive non sono “colonie”; loro dicono di essere semplicemente rientrati in proprietà che erano loro prima del 1929 o che sono state regolarmente acquistate dai legittimi proprietari, e in cui avrebbero diritto di vivere anche se si trovassero sotto piena sovranità palestinese.

La reazione violenta degli arabi palestinesi aumentò, culminando quando, nel maggio 1980, quattro membri di Al-Fatah si appostarono sul tetto di un palazzo di fronte al nuovo insediamento e spararono sugli ebrei che uscivano dalla sinagoga, uccidendo sei persone. (Sempre in segno di buona volontà, uno dei quattro terroristi qualche mese fa è stato eletto sindaco di Hebron dalla popolazione palestinese.)

Di lì in poi, ci furono successivi cicli di aggressioni reciproche tra israeliani e palestinesi, con provocazioni, morti e feriti da entrambe le parti, e una crescente militarizzazione dell’area degli insediamenti che rese la vita impossibile agli arabi che vi abitavano vicino. Particolarmente sanguinoso fu l’inverno del 1993-94, che si chiuse quando a febbraio uno stimato medico ebreo newyorchese, Baruch Goldstein, prese un fucile mitragliatore, entrò nella moschea delle tombe dei patriarchi all’ora della preghiera e sparò ad alzo zero, compiendo una strage di 29 persone – più altri 26 musulmani e 5 ebrei uccisi nei tumulti cittadini che ne seguirono. Per i palestinesi, è invece questa la “strage di Hebron”; da ambo le parti, ognuno rivendica la propria strage come colpa irredimibile degli altri e giustificazione per qualsiasi reazione.

Non stupisce quindi che presto il governo israeliano e quello palestinese abbiano deciso che l’unico modo per ridurre la violenza fosse separare fisicamente il più possibile le due comunità. L’accordo Netanyahu-Arafat, tuttora in vigore, prevede infatti la divisione della città in due aree: il 3% per gli ebrei israeliani e il 97% per gli arabi palestinesi. Tuttavia, non fidandosi della capacità della polizia palestinese di difendere gli ebrei israeliani, in realtà le aree sono tre.

La cosiddetta Area H1 (80% della città) è sotto il controllo dell’Autorità Palestinese ed è vietata agli ebrei. La restante Area H2 (20% della città) è sotto il controllo dell’esercito israeliano, ed è a sua volta divisa tra l’area centrale degli insediamenti, ossia il 3% abitato dagli ebrei e vietato agli arabi, e il rimanente 17% che è un’area “cuscinetto” abitata da arabi e in cui gli ebrei possono soltanto transitare.

Dato che le proprietà storiche degli ebrei ora ripopolate sono nel centro antico di Hebron, esso si trova in H2; e in H2 ricade anche la striscia attorno alla strada che collega il centro con Kiryat Arba e di lì con la strada per Gerusalemme, permettendo agli ebrei di entrare e uscire dalla città. La Tomba dei Patriarchi, pur trovandosi interamente sotto controllo israeliano nell’area mista di H2, è stata divisa in due, tirando un muro a metà edificio: da un lato è moschea, dall’altro sinagoga. Per passare da un’area di Hebron all’altra, ci sono i famosi checkpoint.

Questa divisione rigida è probabilmente il meno peggio che si potesse fare in una situazione del genere, ma realizzarla in pratica in una città antica e densamente popolata, tra due fazioni che cercano solo l’occasione buona per attaccarsi a vicenda, è piuttosto complicato; e nei prossimi post vi racconterò dei problemi e delle situazioni assurde che questa soluzione ha creato.

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venerdì 23 Giugno 2017, 20:02

In onore di Stefano Rodotà

Se ne è andato così, in un venerdì caldissimo, Stefano Rodotà, uno degli ultimi grandi intellettuali politici del nostro Paese. Da tempo aveva sempre più rarefatto le uscite, non stava bene, insomma non è stata una sorpresa, come non può esserlo oltre una certa età.

Adesso mi vengono in mente, affastellandosi, molti ricordi: la volta che diedi il suo numero di cellulare a Casaleggio, perché lo chiamasse e gli chiedesse di essere il candidato a presidente della Repubblica. Quella, poco dopo, in cui mi chiese di chiamare qualcuno a Roma che avvertisse Crimi e Lombardi perché andassero da lui, e feci l’ambasciata ad Airola sul bus. La volta ancora, qualche settimana dopo, che passai un quarto d’ora sul prato davanti a casa mia in montagna, cercando di far funzionare il cellulare sotto la pioggia, mentre lui, non con presunzione ma con incredibile umiltà, si discolpava dalla colpa inesistente di “voler fondare un partito con Civati per portarci via il consenso” (Grillo dixit), e mi pregava di mettere una buona parola con i cari leader per lui, e io trovavo tutta la situazione totalmente assurda, e gli dissi che al massimo sarebbero dovuti essere loro a ringraziare che lui fosse stato a sentirli, per venire poi scaricato in maniera così turpe.

Ma ricordo anche, tanti anni prima, ben prima del M5S, una cena ad Atene in cui ci raccontò della fuga di Toni Negri, di come si sentì turlupinato. O un pulmino verso l’ambasciata italiana a Rio, in cui eravamo in dodici e c’erano undici posti, e lui continuava a insistere che essendo il più smilzo era quello che doveva viaggiare in piedi. O la volta in cui, negli uffici di via Isonzo, io gli diedi del lei durante una riunione e lui mi interruppe dicendo per l’ennesima volta “ma ti prego, dammi del tu”, e io sbottai dal cuore, gridando disperato “ma non ci riesco!!”.

Sono stato molto fortunato ad avere a che fare con lui di persona, a poter leggere le sue mail e i suoi pensieri sulla rete in anteprima, a cercare di rubargli almeno un po’ di intelligenza, di rigore, di umanità, di quella incredibile energia e voglia di fare, di capire, di riflettere, che credo per lui fosse l’essenza stessa della vita. Involontariamente, è colpa sua se a un certo punto mi sono deciso a credere davvero nella possibilità di cambiare l’Italia tramite la vita pubblica, a impegnarmi direttamente in politica come lui aveva fatto per tutta la vita; e forse, ed è un rimorso, è colpa mia se anche solo per qualche mese ha dato credito al pentastellismo nascente, forse cogliendone la stessa allegra voglia di sparigliare le carte che è un po’ la caratteristica di chiunque sia mai stato radicale.

Ormai molti mesi fa ci eravamo scambiati per mail un augurio di rivederci ancora, e non è stato possibile; e mi dispiace moltissimo che non sia potuto succedere, per dirgli ancora una volta, semplicemente, grazie.

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giovedì 22 Giugno 2017, 14:13

Palestina (5) – Betlemme dalla mangiatoia al muro

A Betlemme ci sono essenzialmente due cose da vedere: il luogo di nascita di Gesù e i murales di Banksy. Questo, ad esempio, si trova sul muro di un autolavaggio dietro un campo di zucchini striminziti a Beit Sahour:

Il Flower Thrower è talmente famoso che l’altro giorno in televisione c’era la Camusso che protestava contro i voucher e aveva una maglietta con questo disegno; tutti lo interpretano a proprio uso e consumo, ma il senso del murale non è sostenere una causa o un lato di un conflitto, quanto piuttosto chiedere a chi combatte di agire per la pace invece che per la guerra.

Proseguendo, si capisce di essere arrivati nella zona centrale di Betlemme perché compaiono le classiche trappole per turisti; ammetto che mi sarebbe piaciuto fare check-in al KFC di Betlemme solo per poter dire di averlo fatto.

Betlemme è la città palestinese che è stata più danneggiata dall’intifada. In vista del Giubileo del 2000, infatti, era stato lanciato dall’Unesco un grande progetto di cooperazione per costruire infrastrutture e attrattive per i turisti religiosi cristiani, con la collaborazione di innumerevoli entità in gran parte italiane. La partecipazione di Leoluca Orlando deve avergli portato sfiga, perché nel settembre 2000, in risposta a una provocatoria passeggiata di Sharon sulla spianata delle moschee, Arafat chiese al mondo arabo di fermare la dissacrazione dei luoghi santi islamici di Gerusalemme, e la seconda intifada cominciò.

Il risultato fu che i turisti sparirono e tutta l’economia di Betlemme fu azzerata per anni; e tuttora i negozi della via della Stella, la tradizionale salita dei pellegrini fino alla chiesa della Natività, restano interamente chiusi per mancanza di passaggio.

Secondo la nostra guida, c’è stata negli ultimi anni una certa ripresa del turismo, anche se non è mai tornato ai livelli precedenti all’intifada. Tuttavia, adesso i turisti viaggiano praticamente sempre scortati nei pullman fino alla piazza, senza più fare il tratto a piedi; e così, i negozi si sono spostati e si sono concentrati subito attorno alla piazza.

La piazza della Natività, tuttavia, proprio perché richiama ospiti internazionali, è diventata anche il palcoscenico per le proteste politiche dei palestinesi, al punto che Trump, nella sua visita di un mesetto fa, ha evitato di andarci per non farcisi fotografare in mezzo. E così, un intero palazzo è coperto dalla bandiera con la scritta “Free Palestine” e le foto dei due leader storici del popolo palestinese, Yasser Arafat e Bruno Gambarotta (o qualcuno che gli somiglia molto):

Dall’altro lato, c’è una infografica in stile giornalistico sui numeri dei detenuti politici palestinesi – basta un copia e incolla et voilà le reportage:

La Chiesa in sé, come per il Santo Sepolcro, è costruita attorno a un luogo sacro rigidamente diviso, dopo secoli di scazzi incrociati, tra le principali marche di cristianesimo. E’ interessante notare come ai cattolici sia toccato anche qui lo scarto degli altri, perché mentre il punto esatto in cui è nato Gesù Cristo (esatto esatto eh! l’hanno misurato col GPS durante le doglie), marcato da una stella d’argento in cui puoi infilare le mani per toccare la pietra su cui venne al mondo il figlio di Dio, è metà di proprietà dei greci ortodossi e metà di proprietà degli armeni, al Vaticano tocca soltanto l’angolino tre metri più in là in cui si trovava la mangiatoia.

In compenso, l’intera piazza si chiama Manger Square, ovvero piazza della Mangiatoia; la nostra guida palestinese cercava di spiegare a una insopportabile turista americana (che ha passato tutto il tempo a lamentarsi di Trump) che “manger” è una parola che indica appunto il posto in cui mangiano gli animali, in cui Gesù fu messo subito dopo il parto, e lei rispondeva: “ok, nursery!”. E lui: “no nursery, where animals eat, eat, and Christ was put there”, e lei: “ok, got it, manger means nursery!”. Niente, non ci arrivava, probabilmente era una dei sedici milioni di americani che credono che il latte al cioccolato sia quello prodotto dalle mucche marroni.

Comunque, la Chiesa Cattolica si è rifatta dell’emarginazione costruendo un secolo fa una seconda chiesa tutta sua accanto a quella storica, la Chiesa di Santa Caterina, che era piena di veneti con cappellini bianchi e gialli che pregavano, ciò. Diciamo che uscendo di lì avevo una gran voglia di rivedere Brian di Nazareth.

Tuttavia, non è finita qui; c’è ancora una cosa da vedere a Betlemme. No, non sono le umili autovetture tra cui devi fare lo slalom a piedi come in una qualsiasi strada pedonale di Torino:

e no, non è nemmeno il monumento collocato al centro di piazza Azione Cattolica:

e nemmeno il panorama digradante di Betlemme verso il Grand Park Hotel:

e nemmeno l’ottima pasticceria in cui abbiamo mangiato il fantastico dolce palestinese fatto da una crepe ripiena di formaggio e ricoperta di miele:

Lo so, voi siete qui per questo, volete vedere sangue e guerra e quindi ve lo mostro: il muro di Betlemme in tutto il suo splendore.

Questo muro marca il confine di fatto tra Palestina e Israele. Qui è particolarmente alto e difeso, perché subito dietro la parete c’è un luogo sacro agli ebrei, la tomba di Rachele (che dev’essere un personaggio biblico famoso, ma non chiedete a me; in termini di epiche, io mi sono fermato al Signore degli Anelli). Betlemme si trova subito a sud di Gerusalemme e il confine normalmente segue la separazione amministrativa tra le due città, ma in questo caso gli israeliani hanno costruito un “dito” di circa 400 metri per annettersi il luogo santo e uno stretto corridoio attorno alla strada per arrivarci.

Il muro è coperto di graffiti, alcuni molto belli, altri boh, altri ancora frutto del vandalismo di occidentali in fregola; questo è uno dei miei preferiti, che ricorda anche come i musulmani di Betlemme, pur abitando a una decina di chilometri dalla Cupola della Roccia ossia uno dei luoghi più sacri dell’Islam, non hanno né la possibilità di vederla né di visitarla, a meno di non ottenere un complicato permesso speciale; e non possono nemmeno visitare i propri parenti e conoscenti dall’altra parte del muro.

Sul muro sono affissi manifesti stampati dai palestinesi per raccontare tutte le difficoltà e i maltrattamenti subiti per recarsi a Gerusalemme, dalle lunghe attese per i controlli al trattamento sprezzante o minaccioso dei soldati israeliani al confine. Proprio di fronte, inoltre, c’è l’ultima trovata di Banksy, un albergo con “la peggior vista del mondo”.

In effetti, la sensazione è doppiamente straniante. Da una parte, un muro di cemento per separare a forza due comunità è orrendo; non esiste rappresentazione migliore della bruttezza innanzi tutto estetica della guerra etnica che si trascina da cent’anni in Medio Oriente; parla di sofferenza, di incomunicabilità, di violenza, di storie terribili, di diritti negati. Dall’altra, basta girarsi dall’altra parte per vedere una strada col traffico (una BMW e un’Audi… me ne sono accorto solo ora riguardando la foto), i negozi, la pubblicità della birra Bavaria, la vita che scorre tranquilla come in un posto qualsiasi. E in mezzo, a collegare le due parti, gli occidentali, che sfruttano la tranquillità e le infrastrutture della parte normale, alle loro spalle, per guardare e fotografare soltanto la parte conflittuale.

E’ per questo che penso che una foto obiettiva della Palestina di oggi debba comprendere tutte e due queste facce, anche se ovviamente ciascuna delle due parti in causa cerca in ogni modo di farne vedere una soltanto.

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lunedì 19 Giugno 2017, 19:15

Palestina (4) – Vietato l’accesso agli ebrei

Sì, lo so che voi volete solo sentir parlare della mia visita nelle colonie ebraiche, dei ragazzi dell’Intifada e dei soldati coi mitra, ma lì ci sono arrivato solo il giorno dopo. La verità è che davvero la Palestina è in gran parte un posto normale, e che lo sarebbe ancora di più se fossero di più i turisti stranieri che visitano queste terre, ignorando l’impressione sbagliata di stare per trovarsi in mezzo a gente che passa la giornata a spararsi. E così, anche il resto del mio primo giorno è stato piacevolmente tranquillo, sia a Gerico che a Betlemme.

Anche Gerico è quindi un posto normale; una pianura caldissima piena di alberi di banano, di strade e di case, delimitata a ovest dalla parete rocciosa quasi verticale del Monte della Tentazione, raggiungibile con una moderna funivia Doppelmayr, e occupata da una cittadina talmente normale che in centro c’è persino la sosta a pagamento, con le auto targate “P” piuttosto nuove e ordinatamente parcheggiate a spina di pesce, anche se la doppia fila c’è anche qui.

Dall’altra parte della piazza principale ci sono invece i taxi:

Anche qui, tutto sommato, il commercio non manca, e in città ho visto numerosi cartelloni pubblicitari, soprattutto di cibo, dai gelati alla Coca Cola, ma anche di viaggi (almeno così pare quella nella foto; se qualcuno sa l’arabo mi aiuti) e persino del parco dei divertimenti Banana Land, il sogno di tutti i bambini palestinesi, anche se da un po’ ha aperto anche il concorrente Waterland.

Gerico è infatti la capitale del turismo interno palestinese, il luogo in cui vanno i palestinesi benestanti a passare il fine settimana; prima dell’Intifada speravano di attrarre anche molti israeliani, sfruttando la vicinanza alla strada di grande comunicazione che collega la Galilea con Gerusalemme, con la Giudea e con la Giordania, ma ovviamente nella situazione attuale non è possibile. Infatti, se per caso un israeliano che passa di lì decidesse di visitare la città, appena svoltato dalla strada principale si troverebbe di fronte questo cartello:

La nostra guida palestinese ha fatto fermare apposta il pullman in mezzo al niente per farcelo fotografare, pregando di farlo vedere agli amici in Occidente; e ha aggiunto che non c’è alcun vero motivo di sicurezza per vietare agli israeliani l’accesso alle loro città, e che loro non gli farebbero del male. Anzi, secondo lui il vero motivo di questo divieto è evitare che le due popolazioni possano conoscersi e scoprire di non odiarsi poi così tanto; i governi di destra che amministrano Israele vivono sulla paura degli arabi, e la loro egemonia culturale sarebbe così messa a rischio. Inoltre, i prezzi nelle comunità arabe sono inferiori, e “da noi si mangia meglio” (detto da lui con molto orgoglio, ma in effetti sono abbastanza d’accordo), per cui se gli israeliani potessero portare i loro soldi nei territori occupati l’economia palestinese ne beneficerebbe mentre quella israeliana ne soffrirebbe; e anche per questo l’accesso è vietato.

Queste considerazioni non sono infondate, ma devo però dire che se fossi un israeliano, visto che una volta al mese un terrorista palestinese si presenta a Gerusalemme e ammazza qualche israeliano a caso, non sarei affatto convinto che la mia visita nelle cittadine arabe sarebbe accolta a braccia aperte; considerando che la stessa guida ci ha istruiti a non mangiare e bere per strada perché avrebbe potuto essere ritenuta una provocazione dai musulmani in digiuno per il Ramadan, la tolleranza verso gli altri non sembra tanto comune da queste parti.

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sabato 17 Giugno 2017, 11:35

Palestina (3) – Sono stati gli zingari

Lasciata Ramallah, abbiamo iniziato la lunga discesa verso la valle del Giordano: Ramallah si trova a quasi 900 metri di altitudine, mentre Gerico è 250 metri sotto il livello del mare, un dislivello quasi alpino che viene superato da strade in forte pendenza, in mezzo a un deserto ancora più brullo del lato verso la costa mediterranea.

Questo nulla desertico è però punteggiato da baracche al bordo delle strade, sotto le quali si riparano piccoli gruppi di pecore; generalmente vicino ci sono un vecchio pickup e una tenda, spesso protetta anch’essa da una baracca. Sono gli accampamenti dei beduini, i terzi incomodi nel conflitto israelo-palestinese; popolazioni nomadi che vivono ancora come diecimila anni fa, a parte un po’ di attrezzatura moderna.

Saputo questo, un altro turista del gruppo ha chiesto alla nostra guida palestinese: ma quindi i palestinesi sono discendenti dei beduini che a un certo punto sono diventati stanziali? Lì la guida è rimasta in silenzio, poi con una faccia offesa ha risposto: ma cosa vuol dire, tutti gli uomini diecimila anni fa erano nomadi, no? In pratica, abbiamo capito che si era offeso a morte all’idea che i palestinesi potessero essere accostati ai beduini, un po’ come se gli avessimo detto che sua nonna era una puttana.

E in un attimo, di sua iniziativa, ha iniziato a raccontarci cose sui beduini, e precisamente che:

  • il governo palestinese ha provato a dargli delle case vere, ma loro ci si accampavano dentro con la tenda o ci tenevano gli animali;
  • il governo palestinese deve costringerli a mandare i figli a scuola, se no loro non lo farebbero;
  • non hanno rispetto per la proprietà, sono abituati a prendere quello che trovano in giro, anche se non è loro, anche rubandolo;
  • sembrano poveri ma in realtà sono ricchi, hanno conti in banca miliardari, vivono così perché lo vogliono loro.

Insomma, ha raccontato esattamente le stesse cose che gli abitanti di Falchera Nuova mi dicevano dei rom, precise identiche.

E lì ho definitivamente capito che ogni popolo ha i suoi zingari, che disprezza allo stesso modo, con gli stessi luoghi comuni, probabilmente per gli stessi motivi profondi e istintivi; e mi chiedo quanto questi motivi siano moderni e quanto invece siano ancestrali, archetipi che si propagano sin da diecimila anni fa, nati quando tra gli uomini emersero i primi che smisero di vivere da cacciatori-raccoglitori (come i beduini e i rom di fatto sono ancora oggi) e iniziarono a vivere da agricoltori, in società organizzate e regolate da leggi sempre più complesse, imposte con l’aiuto della religione, strumento vitale per creare la paura della punizione che porta le persone a rispettare le regole e a fare cose che non avrebbero poi così tanta voglia di fare, tipo alzarsi tutte le mattine alle cinque per andare a zappare un pezzo di deserto.

(E qui vien bene ricordare che uno dei punti di massimo orgoglio degli ebrei è l’introduzione dello Shabbat, ossia la prima rivendicazione sindacale della storia dell’umanità organizzata, quella di lavorare solo sei giorni ogni sette e averne uno di riposo.)

Del resto, poco dopo siamo arrivati nell’area archeologica di Gerico e la guida ci ha mostrato con orgoglio “il più antico edificio del mondo” (o giù di lì, comunque uno dei più antichi), questa torre di pietra costruita 10.500 anni fa.

Voi vedete una torre e pensate subito che fosse una struttura di guardia, con dentro i soldati; ebbene, la teoria invece è che non servisse a proteggere le persone, ma il grano, ossia il prodotto della dura fatica che aveva motivato un gruppo di esseri umani ad abbandonare il nomadismo e organizzarsi per coltivare insieme il terreno. Il raccolto era la motivazione fondante e costituzionale della società di allora, e quindi una torre per contenerlo era sia un simbolo, per dimostrare ai beduini il potere che derivava dal nuovo stile di vita, sia una garanzia, perché se fosse stato perso il raccolto sarebbe stata distrutta la ragione stessa della società umana.

Ma stringi stringi, riassumendo questo aulico discorso, viene fuori una grande verità: che già diecimila anni fa una delle principali paure del cittadino medio era quella di venire derubato dagli zingari.

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martedì 13 Giugno 2017, 13:58

Palestina (2) РRamallah ̬ un posto normale

Non so quanti di voi siano mai stati davvero nei territori occupati o anche solo in Israele: penso pochi. Gli altri, presumo, avranno di Israele la stessa idea che avevo io prima di andarci per la prima volta, sentendone parlare solo tramite i media: e mi immaginavo un luogo militarizzato, pieno di pericoli, in cui c’era da avere paura anche solo a uscire di casa.

Non parliamo poi della Palestina occupata: fermatevi un attimo a immaginarvela, cosa vi appare in testa? Secondo me vi viene in mente un girone infernale, fatto di campi profughi e di case bombardate, popolato da gente poverissima, priva di mezzi di sostentamento, tagliata fuori dal mondo e rinchiusa dagli israeliani in vere e proprie prigioni a cielo aperto, dove militari ebrei col fucile in mano si divertono a passeggiare per le strade insultando gli abitanti e rendendogli la vita impossibile, pronti a sparare alla minima obiezione.

E così, noi siamo saliti su un pullman per un giro organizzato, con una guida palestinese, e per prima cosa siamo andati a Ramallah, la capitale dell’Autorità Palestinese. Abbiamo costeggiato un muro piuttosto inquietante, davvero simile a quello di un carcere, e mi aspettavo quindi lunghi controlli al checkpoint; con mia sorpresa, l’abbiamo invece passato senza nemmeno essere fermati; e improvvisamente lo scenario è cambiato.

Ci siamo infatti trovati su una lunga strada in salita in mezzo alle case, solo che non era un tratturo bombardato, anzi; l’asfalto era stato rifatto da poco, tra le due corsie c’era un’aiuola su cui stavano piantando l’erba, e ai lati c’erano case più che dignitose, negozi, e persino un concessionario Mitsubishi.

Il bus ci ha lasciato nella piazza centrale di Ramallah, che peraltro è al confine con il vicino paese di Albireh: infatti si trattava fino a poco tempo fa di villaggi minori, che sono diventati importanti da quando sono diventati l’avamposto palestinese alla periferia nord di Gerusalemme, ospitando molte funzioni che fino al 1967, quando la parte araba della Palestina era una provincia della Giordania, si trovavano a Gerusalemme est.

Bene, io qui sono sceso e sono rimasto ancora più confuso. Innanzi tutto, non c’era la minima traccia di israeliani, né militari né civili (ai civili è proprio vietato entrare nelle città palestinesi); e nemmeno di carri armati, bandiere con la stella di David, scritte in ebraico e altri segni di occupazione politica o anche solo culturale (tutte le insegne e i cartelli sono in arabo, al massimo con la traduzione in inglese). In compenso, la piazza era dominata da un modernissimo maxischermo che sparava pubblicità di cellulari, mentre il palazzo a fianco era dominato dal meraviglioso Stars & Bucks Café in perfetto stile U-S-A.

Ora, certamente Ramallah non è Montecarlo e i palestinesi non sono miliardari, e le strade comunque sono incasinate, piuttosto sporche per i nostri standard, piene di angoli abbandonati e di immondizia; eppure, nel complesso Ramallah mi è sembrata né più né meno come una città araba qualsiasi, come Tunisi, Cairo o Marrakech, per citarne tre che ho visto di persona; anzi, forse persino un po’ meglio.

Di sicuro, Ramallah non è un campo di concentramento, né un campo profughi, né un posto particolarmente povero o poco dignitoso per vivere; del resto, i palazzi non sarebbero tappezzati di gigantesche pubblicità se le persone del posto (turisti non ce n’è, ci guardavano tutti come alieni) non avessero soldi da spendere in cellulari o in Coca-Cola.

Ma il colpo finale ai miei preconcetti è arrivato quando abbiamo ripreso il pullman, e verso l’uscita della città ho visto questo:

Ecco, tutto mi aspettavo di trovare a Ramallah, meno che un concessionario Mercedes-Benz nuovo di zecca, in un bel palazzo denominato Brazil Tower. Ma probabilmente sono io che sono razzista e vorrei negare ai palestinesi, tra i loro diritti umani continuamente calpestati, quello di comprarsi un Mercedes, un bene di prima necessità di cui la morsa israeliana li vorrebbe crudelmente deprivare.

Seriamente: nessuno nega le ampie restrizioni ai diritti individuali, né i danni all’economia palestinese portati da cinquant’anni di limbo e legge marziale, né l’espansionismo israeliano sulle terre degli arabi; ho visto pure quello e ne parleremo ampiamente. Ma la prima cosa che ho notato, e mi è bastata mezz’ora nei territori occupati, è quanto l’immagine drammatica che ne danno i media occidentali sia lontanissima dalla realtà, e quanto si tratti tutto sommato di un posto quasi normale, discretamente autonomo almeno per l’ordinaria amministrazione, e tutt’altro che alla fame. Se ci pensate, è un segno di speranza: le cose laggiù non sono poi così brutte come vengono dipinte.

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