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venerdì 9 Giugno 2017, 13:49

Palestina (1) – L’impatto

La prima cosa che colpisce all’impatto con la Palestina è che non c’è nessun impatto.

Questo già mi colpì alla mia prima visita in Israele, due anni fa: il tassista che ci portava da Tel Aviv a Gerusalemme (ci pagammo un taxi in obbedienza alle raccomandazioni ufficiali dello Stato italiano, secondo cui qualsiasi altro mezzo di trasporto in Israele salterà in aria con voi a bordo) invece di imboccare l’autostrada principale, che passa tutta in territorio israeliano, imboccò la strada alternativa che passa nei territori occupati.

Guardando il percorso sul cellulare, arrivati in prossimità del confine (quello dell’armistizio del 1949, ossia quello normalmente disegnato sulle nostre cartine politiche), mi aspettavo di trovare il portone dell’inferno, con una lunga fila di auto in attesa di passare il controllo passaporti di fronte a carri armati schierati, filo spinato e soldati incarogniti che frustano palestinesi in lacrime: e invece niente, neanche un cartello. C’è a un certo punto, molto più avanti, uno dei famosi “checkpoint”: in pratica è un casello autostradale dove un soldato israeliano dà un’occhiata annoiata alle auto in arrivo e le manda avanti; alla frontiera italo-svizzera ci sono controlli molto più stretti.

A ben pensarci, il motivo è lo stesso per cui nemmeno al confine tra Irlanda e Irlanda del Nord c’è anche solo un cartello. Entrambe le parti infatti, al di là delle frasi diplomatiche e degli accordi internazionali, hanno sempre rivendicato concettualmente il possesso di tutta la Palestina dal mare al Giordano. Nei fatti, comunque, l’unico confine esistente è quello dell’armistizio del 1967, che separa Israele e Giordania lungo la valle del Giordano; quello del 1949 esiste solo nella testa degli occidentali.

La seconda cosa che colpisce all’impatto con la Palestina, e qui prego sia gli ebrei che gli arabi di non offendersi, è quanto sia naturalmente inospitale. Ovviamente non in senso umano: tutti sono stati molto generosi e accoglienti, e bisogna anche dire che gli israeliani hanno mostrato grandi capacità di investire, lavorare, trasformare il nulla in coltivazioni e villaggi. Tuttavia, percorrendo per la prima volta la strada verso Gerusalemme, vedevo dal finestrino una serie di colline aride e coperte di pietre su cui crescono a stento degli alberelli, almeno dove non sono state ricoperte invece di cemento e di case da una delle due fazioni; le colline sono separate da vallate brulle che sembrano canyon, costringendo spesso le strade a percorsi tortuosi e scomodi; e se vai oltre e scendi verso il fiume, finisci nell’equivalente indoeuropeo della Death Valley americana. Il fatto che da migliaia di anni tutti si ammazzino per questa terra è davvero la prova che la convinzione religiosa e l’appartenenza etnica prevalgono su qualsiasi logica di interesse immediato.

La terza cosa che colpisce sono i muri. Perché il confine non esiste, ma appena ti addentri un po’ nella parte abitata scopri che quasi tutto è recintato; attorno agli insediamenti arabi ci sono dei muri veri e propri, che si snodano per chilometri su e giù per le colline, mentre attorno a quelli ebraici generalmente ci sono recinzioni più discrete, più simili alle classiche protezioni dei compound residenziali americani; in entrambi i casi, ci sono pochi ingressi, sottoposti a controllo, che portano al territorio condiviso in cui passano le strade usate da entrambi. Persino a Gerusalemme – che fa eccezione, nel senso che non ci sono barriere di separazione tra la zona est (araba) e quella ovest (ebraica) – l’università, l’ospedale e altri grossi complessi sono recintati e con molti ingressi chiusi in permanenza, in modo da concentrare gli accessi in un solo punto controllabile; del resto, vista la densità di aspiranti terroristi suicidi, non si capisce come potrebbe essere diverso.

La scorsa volta, visto il quadro spaventoso che di Israele danno i media europei, già arrivare vivo a Gerusalemme mi sembrava un gran risultato. Dovendoci tornare, stavolta mi sono organizzato e ho passato due giorni a girare per i territori occupati. Ciò che ho visto è stato molto interessante, in parte simile a ciò che mi aspettavo, in parte molto diverso; e spero di avere tempo, nei prossimi giorni, di mostrarvi un po’ di cose.

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venerdì 9 Giugno 2017, 09:09

La rivolta della seggiola

In politica, nelle aule elettive, ci si parla continuamente; nei corridoi, tra i banchi, persino coi cellulari, gli esponenti di tutti i partiti si scambiano battute, punzecchiature, idee e anticipazioni. Per questo motivo, ieri in Parlamento, era sicuramente chiaro da prima cosa stava per succedere. E’ uno scenario normalissimo; si è fatto un accordo tra maggioranza e opposizione, ma siccome molti da entrambi i lati lo vogliono far saltare, l’opposizione presenta un emendamento e si dice “costretta a votarlo per principio”, e sfruttando il voto segreto lo votano anche molti della maggioranza, così l’emendamento passa e l’accordo salta.

Quella che abbiamo visto ieri è insomma una maggioranza trasversale di parlamentari che volevano far saltare le elezioni anticipate, con varie motivazioni di cui la più elementare è il voler restare incollati alla poltrona fino alla scadenza naturale, o in alternativa la paura di perdere le proprie chance di rielezione con il nuovo sistema elettorale.

E se è vero che molti di loro erano del PD, è anche vero che molti di più erano i parlamentari del M5S (e se qualcuno del M5S ha davvero votato quell’emendamento senza capire cosa stava succedendo, non è in grado di sedere in Parlamento). Ciò che si è visto è una rivolta dei parlamentari a cinque stelle contro Grillo, Casaleggio e Di Maio, la cui leadership è continuamente sotto attacco, in modo da prolungare la legislatura.

In tutto questo, due sono le cose particolarmente deprimenti: la prima è il tentativo di dire che la posizione M5S sulla legge elettorale è decisa online dagli iscritti, quando la posizione cambia continuamente (ogni volta imboccando gli iscritti con una votazione online diversa) e poi la scelta di far saltare l’accordo non viene votata da nessuno.

La seconda è il titolo pietoso del Fatto Quotidiano, che dice “il PD fa saltare l’accordo, il M5S: al voto subito” – il che è palesemente propaganda ben lontana dal vero. Quand’è che il Fatto ha smesso di essere giornalismo e si è ridotto a essere un giornale di partito come l’Unità renziana, però pro M5S?

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venerdì 7 Aprile 2017, 13:29

Risolvi anche tu la guerra in Siria

Anche tu esperto di geopolitica? Bene, proponi pure la tua soluzione pacifica per la guerra in Siria, tenendo conto delle seguenti condizioni:

1) Per accontentare Assad, bisogna che il nuovo presidente sia Assad.

2) Per accontentare l’ISIS, tutti gli altri devono morire (o, se donne, farsi stuprare e poi morire).

3) Per accontentare i ribelli dell’opposizione laica e democratica, bisogna stabilire in Siria un regime laico e democratico in cui i Fratelli Musulmani possano prendere il 51% alle prime elezioni e poi abolire la laicità e la democrazia.

4) Per accontentare i curdi, bisogna che il Rojava diventi indipendente.

5) Per accontentare la Turchia, bisogna che in Siria governi chiunque purché reprima i curdi, o in alternativa il Rojava deve passare alla Turchia.

6) Per accontentare il Libano… vabbe’, dai, il Libano come il Molise non esiste.

7) Per accontentare l’Iran, la Siria deve restare sotto il potere degli sciiti.

8) Per accontentare l’Arabia Saudita, la Siria deve passare sotto il potere dei sunniti.

9) Per accontentare Israele, bisogna che nessuno degli altri si avvicini troppo (stanno in cima al Golan apposta per questo).

10) Per accontentare la Russia, la costa siriana deve restare in mano a un alleato, specialmente il porto di Tartus.

11) Per accontentare gli Stati Uniti, bisogna che la Siria costruisca a sue spese un muro alto alto che impedisca ai sirianesi di venire a rubare i posti di lavoro dei veri americani, ma in alternativa anche sparacchiare qualche bomba qua e là può andare, se serve per fare i titoli del telegiornale.

12) Per accontentare l’Europa, bisogna che i siriani stiano lì a morire in silenzio senza rompere le balle con la convenzione di Ginevra.

Facile no?

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domenica 26 Marzo 2017, 14:34

Un futuro alternativo al populismo

Ultimamente provo un grande senso di frustrazione e di impotenza per come vanno le cose in Italia e nel mondo. I miei critici personali lo attribuiscono al mio divorzio con il M5S, ma questo c’entra solo in modo molto indiretto.

Infatti, ciò che mi arrovella, ciò che mi rende spesso negativo, è che vedo il nostro mondo andare verso il disastro; e se fin che facevo politica attiva mi sembrava di far qualcosa per evitarlo, ora che non posso più fare niente mi sento frustrato. Anzi, visto che il M5S invece di evitare questa fine ha cominciato a lavorare attivamente per arrivarci, mi sento anche un po’ responsabile, pur avendo fatto tutto il possibile per combattere questa deriva dall’interno e dall’esterno, e avendo dunque la coscienza a posto.

Voglio dunque farvi un discorso lungo e importante, partendo da alcuni fatti, per dimostrare che il populismo che cresce in tutto l’Occidente ha le radici, come sempre accade nella storia, in un meccanismo di egemonia culturale che modifica la percezione delle cose, e in particolare della globalizzazione.

Ciò che è veramente accaduto grazie alla globalizzazione è ben esemplificato da un grafico che ripropongo a ogni occasione: l’aumento reale di ricchezza della popolazione terrestre tra il 1988 e il 2008, in funzione della fascia di ricchezza a cui ognuno di noi appartiene su scala globale.

Quando si dice che la globalizzazione ha beneficiato solo “l’1% più ricco” o “una piccola minoranza”, si dice una grande bugia. In realtà, dalla globalizzazione hanno guadagnato quasi tutti: hanno guadagnato le classi medio-alte dei paesi occidentali, che stanno all’estremo destro del grafico, e hanno guadagnato tutti, sia poveri che ricchi, nei paesi in via di sviluppo e persino in quelli più poveri del pianeta. Gli unici che non hanno guadagnato sono quelli tra il 75 e il 90 per cento, ovvero le classi medio-basse dei paesi ricchi.

Su scala planetaria, insomma, la globalizzazione ha portato crescita e ricchezza alla grande maggioranza degli esseri umani; negli ultimi trent’anni, miliardi di persone sono uscite dalla povertà.

Ma persino se prendiamo soltanto le nostre singole nazioni, questa idea che la disuguaglianza sia cresciuta, che “l’1% si è arricchito alle spalle del 99%”, è vera solo in parte. Questo grafico mostra l’andamento del coefficiente di Gini, la grandezza che misura la disuguaglianza economica all’interno della società, in Italia, Germania e Stati Uniti.

E’ vero che il trend generale dagli anni ’80 è in ascesa, e indubbiamente la competizione globale ha premiato di più chi era più in grado di approfittarne, in primis chi aveva i capitali per investire. Eppure, specialmente prendendo le curve più basse, cioè quelle dopo la redistribuzione di ricchezza operata dallo Stato tramite la tassazione, si scopre che il coefficiente di Gini non è salito poi di così tanto; in Italia, anzi, dopo un forte aumento nei primi anni ’90, dal 1998 non ha fatto che calare, e anche dopo il 2010 pare essere rimasto sostanzialmente stabile, nonostante persino Il Sole 24 Ore faccia un titolo che dice l’opposto.

Del resto, il “top 5%” su scala globale che stando al primo grafico si è arricchito non corrisponde a soltanto il 5% dell’Occidente, proprio perché esso è concentrato al suo interno; esso corrisponde almeno al 20-40% delle società occidentali. Per questo la disuguaglianza in Occidente è salita, ma non così tanto, perché l’arricchimento materiale dovuto alla globalizzazione, anche da noi, è stato molto più diffuso di quel che comunemente si dice; molti ne hanno beneficiato, ma non se ne rendono conto.

Più che aumentare le disuguaglianze, quindi, è l’intera società italiana che è cresciuta meno delle altre. Potremmo dire anzi che nel complesso, dal 2008 in poi, si è abbastanza uniformemente impoverita, in senso assoluto ma soprattutto in senso relativo, rispetto ai nostri vicini europei; perché restiamo comunque tra i più ricchi Paesi del pianeta, l’ottava economia del mondo e circa la trentesima (su duecento) in termini di PIL pro capite.

Qual è allora il problema? Il problema è che l’essere umano non è altruista, ma utilitaristico; pensa essenzialmente solo a se stesso. E quindi, alle classi medio-basse dell’Italia e di molti paesi occidentali importa poco se la globalizzazione ha migliorato le condizioni di vita degli asiatici e in buona misura anche degli africani, dei russi, dei brasiliani; importa il fatto di aver dovuto fare rinunce, o addirittura di fare fatica ad arrivare a fine mese.

Questo, peraltro, è sacrosanto; non si può dismettere la crescente antipatia occidentale di massa per la globalizzazione come frutto di ignoranza, di ingordigia o di xenofobia, come fanno da troppo tempo le élite dominanti; non si può trascurare la quantità crescente di persone che fanno fatica a tirare avanti, e che la globalizzazione ha oggettivamente danneggiato.

Del resto, ognuno ha il diritto di inseguire il proprio benessere materiale, e, da essere umano medio, lo farà anche a discapito degli altri. I discorsi sulla decrescita felice e sull’amorevole terzomondismo, pur avendo il proprio senso, sono gingilli per gente con la pancia piena e tempo da occupare; e mentre le élite si gingillano con questi sogni, le masse dei paesi occidentali si organizzano per provare a riprendersi la ricchezza che si è trasferita verso il resto del mondo.

Di qui nasce il populismo dilagante; l’abbondanza di politici che, talvolta credendoci sinceramente, talvolta sfruttando cinicamente la situazione, promettono alle masse ricchezza e benessere, andandolo a prendere a questo mitico 1% di privilegiati che però, come abbiamo visto, esiste, ed è probabilmente alla radice di molte scelte politiche a favore della globalizzazione, ma non è affatto il suo effetto primario o il problema principale dell’attuale momento storico.

Già, perché io ho fatto un calcolo molto semplice: sono andato sul sito della Banca Mondiale, ho scaricato la tabella con il PIL dei vari paesi nel 2015 e ho fatto la somma; fa 73 mila miliardi di dollari. Dividetela ora per i sette miliardi di abitanti del pianeta, quanto fa? Fa diecimila dollari a testa.

Il PIL italiano è attualmente di circa 36.000 dollari a testa, quindi, cari ragazzi, se anche riuscissimo a prendere tutti i ricchi nelle loro isole felici e ci mettessimo a redistribuire le loro immense ricchezze a tutto il pianeta, introducendo un bel reddito di cittadinanza globale, le frontiere aperte per tutti e la massima e totale uguaglianza tanto agognata dalle sinistre mondiali, tutti noi italiani dovremmo ancora rinunciare in media a tre quarti della nostra ricchezza.

Perché, vedete, alla fine i ricchi siamo noi, ma non solo gli Agnelli e i Berlusconi; siamo tutti noi, esclusi al massimo i rom che vivono nelle baracche e gli immigrati che raccolgono pomodori a tre euro l’ora; ma nemmeno loro sono i veri poveri del mondo, e infatti rischiano la vita pur di venire qui a raccogliere pomodori a tre euro l’ora, perché per loro è comunque un miglioramento economico.

Ma questo vuol anche dire un’altra cosa: che o siamo in grado di realizzare prodotti che valgano più della media mondiale, posizionandoci all’avanguardia della tecnologia e dell’innovazione di prodotto e di mercato, oppure, se continueremo a competere con tutto il pianeta su produzioni poco qualificate che si possono fare ovunque, siamo destinati a ristagnare fin quando il nostro reddito non sarà più o meno allineato con la media mondiale, cioè tra un paio di generazioni (persino se noi restassimo totalmente fermi e il mondo meno sviluppato crescesse regolarmente del 5% l’anno, ci vorrebbero ancora quasi trent’anni).

Allora, dove pensate che i populisti possano prendere la ricchezza per ridare soldi in tasca alle nostre classi medio-basse? Un po’, per carità, si potrà ancora provare ad aumentare la tassazione ai nostri ricchi, ma siamo già a livelli molto alti, e dato che ci stiamo relativamente impoverendo tutti, questo darà qualche soldo in più ad alcuni a scapito di altri, ma non fermerà certo l’impoverimento collettivo dell’Italia; del resto, tutti i tentativi di mettere più soldi in tasca ai poveri sostenendo che questo avrebbe rilanciato i consumi e la crescita sono finora essenzialmente falliti.

Per il resto, però, l’unica possibilità per ottenere ricchezza dall’alto e senza faticare, cioè senza riqualificarci, darci da fare e metterci a offrire prodotti e servizi unici che non possano essere imitati a un terzo del prezzo da un lavoratore asiatico o africano, è interrompere la globalizzazione con la forza, economica o militare, tirare su i muri e reimpoverire qualcun altro per riarricchirci noi; dove il qualcun altro, a scelta, può essere un altro paese europeo che è stato più bravo di noi a sfruttare la situazione, oppure può essere il resto del mondo.

Solo che, vedete, nel frattempo la Cina ha costruito le portaerei. No, ve lo dico, perché magari pensate ancora che noi europei siamo i padroni del mondo, e non è più così. Forse lo sono gli americani… forse. E del resto, è più facile che sia Trump a impoverire a forza l’Europa, che l’Europa a impoverire a forza gli Stati Uniti, specie se l’Europa si spezza e diventa una miriade di Paesi poco o per nulla rilevanti. Quanto a noi italiani, manco siamo autosufficienti energeticamente: abbiamo fatto progressi, ma basta che Putin si incazzi e stiamo al freddo.

Capirete dunque che, in queste condizioni, affidarsi al populismo è facile, ma è probabilmente un suicidio; perché un governo populista potrà inizialmente raschiare il fondo del barile per mantenere le proprie promesse di restituire ricchezza a pioggia, ma poi non ci riuscirà. Non volendo lasciare il potere (nessuno mai vuole lasciare il potere), in Italia e altrove vedremo le classiche fasi dei governi populisti:

1) Propaganda: il governo populista andrà avanti a dire che la situazione non cambia per colpa di quelli che c’erano prima, di quelli che stanno fuori dal Paese, dei cattivi europei/finanzieri/multinazionali/riccastri eccetera. Nel frattempo avrà il potere in mano, i nuovi politici si arricchiranno come e peggio di quelli vecchi, piazzeranno gli amici, e continueranno a prendere in giro i loro seguaci per farsi rivotare.

2) Paranoia: si comincerà a dire che la situazione non cambia perché ci sono dei traditori della nazione, innanzi tutto gli oppositori politici; poi, in base alle lotte di potere interno, improvvisamente anche qualcuno dei governanti verrà scaricato e additato alla folla come capro espiatorio. Questa è la fase in cui si rischia la violenza, perché se la gente ha fame e gli dici che è colpa di Tizio che abita tre isolati più in là, qualcuno che lo va a cercare salta fuori di sicuro; ed è anche la fase in cui chi sta al potere spesso coglie l’occasione per instaurare un regime autoritario o direttamente una dittatura (abbiamo già esempi ai bordi dell’Europa).

3) Guerra: alla fine, se il governo non crolla prima, l’unico modo di ottenere risorse sarà una guerra economica, diplomatica o persino militare con qualche Paese straniero vicino o lontano, cominciando a requisirne le proprietà o a non ripagargli i prestiti che ci ha fatto, senza sapere dove si andrà a finire.

Del resto, prima ancora di governare a livello nazionale, il M5S di oggi è già alla seconda fase; possiamo sperare che non arrivi mai alla terza, ma bisogna essere ciechi per non vedere i segnali tipici di questa deriva, già sperimentata da molti Paesi negli ultimi cento anni.

Eppure, il populismo vincerà le elezioni tra gli applausi della gente, e sapete perché? Non è soltanto perché la situazione è questa; è perché le misere leadership dell’Italia e dell’Europa di oggi, dopo aver per anni ignorato il problema, non hanno saputo dare una risposta alternativa né sul piano dei comportamenti, continuando a farsi i fatti propri e a ballare sul Titanic, né sul piano culturale.

Su questo piano, almeno in Italia, il populismo ha già vinto: perché non c’è alcun leader o progetto politico culturalmente alternativo. Berlusconi? Era populista prima di Grillo. Salvini? Un Grillo più xenofobo. Renzi? Renzi ha inseguito Grillo con slogan ad effetto, battute altrettanto arroganti e sparate altrettanto populiste, e se nel brevissimo periodo questo lo ha portato al 40%, nel medio periodo, non avendo ovviamente mantenuto alcunché, si è bruciato. E’ inutile che il PD candidi Renzi, il suo sorriso vacuo e i suoi slogan; è bruciato, e per quanto la gente possa essere poco convinta di Grillo, tra lui e Grillo a questo giro l’Italia sceglierà il secondo, proprio come l’America ha scelto Trump piuttosto che riavere i Clinton, e l’Inghilterra ha scelto la Brexit; con l’aggravante che mentre all’estero il populismo fa presa soprattutto sui vecchi, da noi la fa soprattutto sui giovani.

L’unico modo di battere il populismo è rovesciarne l’egemonia culturale, nel dibattito pubblico e nella mente degli italiani; avere il coraggio di dire chiaramente le verità scomode, di parlare di valori democratici non negoziabili e di progetti a lungo termine, di spiegare che la globalizzazione non ha impoverito “tutti tranne i super-ricchi” e che non c’è alcuna scorciatoia per il benessere collettivo rispetto al darsi da fare, di trattare gli ignoranti per gli ignoranti che sono, di promuovere l’idea che non è la politica che deve scendere al livello della marmaglia da social network, ma la marmaglia che deve educarsi se vuole avere un ruolo nel dibattito pubblico, da cui altrimenti deve essere estromessa non con la forza, ma con gli argomenti, con i fatti (quelli sì, difesi con forza dalle bugie), ed eventualmente con la ridicolizzazione che ben le sta.

Per come è ridotta la mentalità degli italiani oggi, temo che sia comunque troppo tardi; le verità scomode potranno essere riconosciute soltanto sulle ceneri di un disastro totale del populismo, spero non grave come quello del populismo di Mussolini, anche se persino la giustamente decantata Italia seria e operosa del dopoguerra è esistita soltanto dopo che la via facile del populismo era stata catastroficamente sperimentata fino in fondo.

Eppure, questa è l’urgenza della politica italiana ed europea oggi: produrre una alternativa politica e culturale globalista, moderna, seria, competente e non compromessa col passato, quindi altrettanto credibile del populismo come proposta per il futuro.

Questo, si badi, non vuol dire astenersi da qualsiasi critica o richiesta all’Unione Europea e a chi gestisce i fenomeni globali, a partire dal dibattito sulla sovranità monetaria, e nemmeno da qualsiasi limite alla circolazione dei capitali, delle merci e delle persone, limite invece che è auspicabile proprio per rendere gestibile una situazione sociale che altrimenti rischia di esploderci in mano. Questo, però, vuol dire scegliere i valori prima che il consenso immediato, e decidere per principio di essere europei e cittadini del mondo, anche se questo dovesse costarci qualcosa nel breve termine, perché è l’unica via per la pace e la prosperità nel lungo termine.

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sabato 18 Marzo 2017, 10:34

Cellulare pazzo

Ho l’abitudine di controllare ogni tanto i consumi del cellulare, e continuo a farlo anche col numero aziendale TIM. Evidentemente serve, perché stamattina (sono ancora in Inghilterra) ho aperto l’app e ho notato il credito in discesa: nonostante l’azienda abbia ovviamente scelto una tariffa che include il roaming voce e dati in tutta Europa, da un paio di giorni hanno cominciato a farmi pagare i dati; ed è sparita dal mio profilo l’opzione “5 Eurogiga”.

Recupero da un collega il numero di telefono dell’assistenza clienti dall’estero, e chiamo: mi sorbisco quasi due minuti di messaggini registrati, poi risponde una signorina, comincio a spiegare il problema, e tac! “casualmente” cade la linea.

Seconda chiamata: rifaccio la trafila, arrivo all’operatrice, mi dice che quello che ho fatto è il numero per le ricaricabili consumer, mentre io ho una ricaricabile business, quindi non può aiutarmi, ma “anche dall’Inghilterra le basta fare il 191”.

Terza chiamata, faccio il 191: silenzio e poi una voce inglesissima mi dice “you have dialled an incorrect number”.

Allora apro il PC, cerco online, trovo il numero estero dell’assistenza TIM business: +39 33 44 191. Chiamo, e mi risponde una voce computerizzata, che mi chiede di spiegare il mio problema. Lo spiego, c’è un po’ di silenzio, e poi la voce computerizzata mi dice: scusi non ho capito, può ripetere il problema? Io ripeto, silenzio, e il computer mi dice: sto cercando di aiutarla, può ripetere il problema? Al terzo inutile tentativo, finalmente mi passano l’operatrice.

Stavolta è l’operatrice giusta, la conversazione inizia bene perché parto con “buongiorno” e lei risponde “buongiorno” quasi stupita, si vede che la gente di solito nemmeno saluta. Lei controlla, e mi dice: certo, lei ha finito i 5 GB. Ma come? Dato che li controllo regolarmente, so che tre giorni fa avevo ancora quattro giga e mezzo, e poi non ho fatto altro che controllare la posta e poco altro. Mi dice che si può ordinare una verifica, ma ci vogliono 48 ore, e nel frattempo non c’è niente da fare, o disabilito i dati o pago. E poi aggiunge: può provare a guardare anche lei sul web.

Io ordino la verifica, ringrazio, riprendo il PC, navigo tra interfacce incomprensibili, faccio una estrazione dati, e viene fuori quel che vedete nella foto: la mia tariffazione dati ha un buco di 24 ore esatte, l’ultimo giorno in Danimarca, e poi riemerge con la tariffa disattivata.

A questo punto il mistero si infittisce: cosa sarà successo? Aspetto la verifica; certo che mi chiedo come faccia TIM a sopravvivere funzionando così male.

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venerdì 17 Marzo 2017, 12:21

Genova senza le stelle

Quando ho scritto che il M5S degli ultimi tempi sta andando rapidamente verso il fascismo mi sono beccato insulti di ogni genere. Eppure, come altro definire quello che è successo a Genova? Anche lì, da molto tempo, la corrente dei “fedelissimi” ha progressivamente emarginato le teste pensanti e le persone indipendenti, fino all’abbandono della gran parte dei consiglieri uscenti.

Per assicurarsi il controllo del Movimento, con il beneplacito dello staff, a Genova è stato imposto un assurdo metodo di votazione online della lista per le elezioni comunali, che costringeva i candidati consiglieri ad associarsi a uno specifico candidato sindaco, formalizzando le correnti, e stabiliva che la lista sarebbe stata composta solo dai candidati della corrente vincente, estromettendo tutti gli altri persino se fossero stati i più votati. Persino i più convinti della base si sono resi conto dell’autoritarismo dietro a questa deriva, portando alla clamorosa sconfitta della corrente ortodossa, tre giorni fa, nella votazione online.

E allora che succede? Succede che lo staff annulla la votazione e ne stabilisce una nuova, in cui può votare chiunque in Italia (ho verificato, posso votare persino io…), ma si può votare per un solo candidato sindaco, quello della corrente dei fedelissimi uscito sconfitto dalla votazione precedente, oppure scegliere di non presentare la lista. In pratica, la democrazia online del M5S di oggi è: potete votare, ma solo per ratificare quello che vuole Grillo, e se non votate per quello si rivota fin che non vince quello. Ammesso poi che sia veramente Grillo e non chissà chi altro a decidere queste cose, visto che Grillo ha da poco formalmente disconosciuto la paternità del suo blog.

Ma allora, non vi fa veramente paura che gente così allergica alla democrazia e alla trasparenza (nonostante il continuo riempirsene la bocca) possa conquistare il potere nazionale? Come sarebbero riscritte la legge elettorale e la Costituzione da un ipotetico governo a cinque stelle?

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sabato 4 Marzo 2017, 09:32

Cercasi meccanico

Anche voi, come me, avete una vecchia macchina che da circa un decennio va sempre peggio, non accelera, si blocca, sta cadendo a pezzi.

Fino a sei anni fa la portavamo da un meccanico che faceva sempre lo splendido, girava con la Ferrari, aveva l’officina piena di belle ragazze, sui calendari e di persona. Per un po’, nonostante il conto salato, aveva dato l’impressione di poter trasformare anche la nostra macchina in un macchinone, fin che una volta non siamo rimasti completamente a piedi in autostrada, e si è scoperto che aveva raccontato parecchie balle, e gli hanno praticamente chiuso a forza l’officina, anche se è da allora che cerca in ogni modo di riaprirla.

Per un paio d’anni ci hanno imposto l’officina ufficiale della casa produttrice, ma con quelli non sai mai se veramente facciano l’interesse tuo o del produttore. Allora, appena abbiamo di nuovo potuto scegliere, siamo andati dall’altra officina storica del quartiere; all’inizio c’era il vecchio, un signore un po’ anziano che si era quasi stupito che gli avessimo affidato la macchina, tanto che in pochi mesi fu fatto fuori dal figlio, più giovane e con più energia per gestire il rinnovato successo della ditta. Solo che anche il figlio ha fatto tante promesse, e per un paio d’anni la macchina sembrava andare abbastanza bene, ma poi alla fine sono riapparsi i vecchi problemi, e la macchina ha cominciato a rompersi di nuovo, dandoci il dubbio che pure lui si approfittasse di noi gonfiando le parcelle. Lui ha scommesso che l’avrebbe riparata definitivamente come sapeva lui, ma la scommessa non ha funzionato e ultimamente ha persino dovuto lasciare l’officina a un prestanome.

Da qualche anno però nel quartiere c’è un meccanico giovane, simpatico, che promette mari e monti e ha riempito le vie di pubblicità, cercando di convincere tutti a passare da lui; a diversa gente piace, anche se l’impressione è che le spari grosse e che molto faccia il fatto che è decisamente più bravo degli altri nel marketing. Saremmo piuttosto tentati di cambiare officina, anche solo per provare come va; però, a ben vedere, quelli che l’hanno già fatto sono piuttosto perplessi, perché alla fine la macchina va più o meno come prima, anzi in qualche caso il nuovo meccanico, anche solo per inesperienza, ha combinato dei bei disastri. E in fondo, abbiamo tutti il dubbio che non appena avrà conquistato il mercato comincerà anche lui ad approfittarsi di noi.

Insomma, è un vero dilemma: da che meccanico portare la macchina? E’ proprio vero che in Italia trovare un buon meccanico è molto difficile: viene davvero voglia di scendere e andare a piedi.

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giovedì 2 Marzo 2017, 13:59

Italo, perché?

Avendo ricevuto un invito per un incontro a Roma martedì prossimo, mi sono messo a prenotare i treni. Con così scarso preavviso i prezzi sono alti, ma ho trovato una buona opzione su Italo e mi sono messo a prenotarla, se non che… andando avanti, arrivavo al pagamento senza che mi facesse scegliere il posto. Mi sono insospettito, ho cercato, e ho scoperto che da un certo tempo, almeno sui biglietti più economici, Italo non ti fa più scegliere il posto: te lo da lui.

Ora, quando viaggio io voglio assolutamente il finestrino, perché sono uno di quelli che passa il viaggio a pensare guardando fuori. Per cui, per me questo è un problema sufficiente da passare a Trenitalia e pagare anche qualche euro in più; invece, non si capisce quale sia il risparmio di Italo nel non farmi scegliere il posto. Ma quale luminoso manager dallo stipendio di giada avrà mai concepito una stronzata autolesionista del genere?

Comunque, alla fine ho preso Italo lo stesso: infatti ho osservato che non puoi scegliere il posto, ma alla fine c’è un pulsante per tornare alla selezione del treno e ripetere la procedura; e ogni volta l’algoritmo ti assegna un posto diverso. Calcolando che i posti sono quattro per fila numerati in ordine, mi è bastato ripetere la cosa un paio di volte per farmi dare un posto con un numero che diviso per 4 dà resto zero o uno, e che quindi dovrebbe essere un posto finestrino. Martedì vi saprò dire se funziona…

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mercoledì 15 Febbraio 2017, 18:45

Dati alla mano, perché bloccare i diesel è sbagliato

A me, e alle migliaia di torinesi a cui i blocchi del traffico di Appendino non piacciono, non va di passare per inquinatore pigro col sedere sempre sull’auto. Per questo, permettetemi di contestare questo provvedimento coi dati; sono tutti presi dal sito del Comune di Torino, sezione Informambiente, ossia sono gli stessi che hanno sul tavolo sindaca e consiglieri comunali.

Si dice che il blocco dei diesel è necessario perché siamo in una emergenza ambientale che fa “centinaia di morti l’anno”, dovuta a livelli intollerabili di PM10. A parte che il concetto di “morte da inquinamento” è valido ma difficilissimo da quantificare oggettivamente, dato che diventa una concausa di una presunta anticipazione della morte naturale, se prendiamo i dati storici nelle tabelle qui sotto vediamo che da otto anni ormai Torino è entro i limiti di legge (50 microgrammi al metro cubo) in termini di media.


Siamo ancora fuori legge in termini di numero di giorni di sforamento; ma è evidente, pur nella forte oscillazione di questi dati dovuta alla variabilità del tempo nei vari anni, un trend in discesa legato al cambiamento strutturale di veicoli e abitudini. E’ giusto incentivarlo, anche accelerarlo, ma allora quello che si deve fare è promuovere il passaggio dall’auto privata a forme di mobilità più sostenibile, invece che l’acquisto di un’auto privata più nuova; e comunque, non c’è nessuna emergenza, altrimenti dieci o vent’anni fa, quando l’inquinamento era doppio o triplo, Torino sarebbe stata sterminata.

Bene, voi direte: ma anche un provvedimento come questo, che invece di incentivare a lasciare l’auto privata spinge a comprarne una nuova passando da diesel a benzina, è utile a questo trend, perché il PM10 è responsabilità dei diesel. Peccato che la realtà sia ben diversa: la prossima tabella mostra le emissioni medie di PM10 dei veicoli diesel e benzina, secondo la categoria “Euro X”. Notate qualcosa?

Certo, i vecchi diesel Euro 0 o precedenti producevano quantità abnormi di PM10, ma a partire dall’Euro 5, le emissioni di PM10 dei diesel sono uguali a quelle dei benzina. Uguali! E allora che senso ha bloccare anche i diesel Euro 5-6 ma non i benzina, come prevede la delibera dell’amministrazione torinese in caso di sforamenti elevati?

Anche per gli Euro 3-4, le emissioni medie sono circa doppie dei corrispondenti benzina; più alte, certo, ma non così tanto da attribuire solo a queste macchine la responsabilità del PM10, che invece è ormai distribuita su tutto il parco circolante, benzina o diesel che sia, e dipende molto di più dalle abitudini di spostamento, ossia da quanto ognuno usa la propria macchina. Per esempio, un veicolo a benzina Euro 6 che percorre 30 km al giorno emette il 50% in più di PM10 di un diesel Euro 3 che ne percorre 10.

L’ultima figura, qui sopra, è quella che usa il Comune per giustificare l’accanimento contro il traffico, invece che contro le caldaie o i roghi della plastica. Ci sta, probabilmente è vero che il traffico è tuttora il principale responsabile del PM10, però guardate la data in fondo: sono cifre del 2010. Vista la continua discesa del numero e delle emissioni dei veicoli circolanti, viene naturale pensare che sette anni dopo le proporzioni potrebbero essere cambiate significativamente; per esempio, questo studio, dati alla mano, sostiene che il grosso del particolato nell’aria della pianura padana derivi dall’uso di legna e pellet come combustibile.

Morale? Secondo me questo blocco non ha nulla a che fare con la salute e con motivazioni scientifiche; se così fosse, guardando queste tabelle, la scelta sarebbe stata di concentrarsi sull’incentivazione della mobilità alternativa, proseguendo il trend degli anni scorsi senza tanti allarmismi; ma anche volendo invece fare qualcosa, si sarebbe allora provveduto a bloccare uniformemente tutte le auto, a rotazione, vecchie e nuove, benzina e diesel, colpendo allo stesso modo tutti, per mandare il messaggio che bisogna usare di meno l’auto privata e di più gli altri sistemi di mobilità, invece che quello di cambiare l’auto (chi ha i soldi per farlo) da diesel a benzina, per poi poter sgasare liberamente persino con un SUV da sei chilometri al litro.

E allora perché questo provvedimento? Secondo me la risposta è una sola: propaganda. Ben studiata, perché fermare tutti fa arrabbiare tutti, mentre fermare solo i diesel fa arrabbiare solo chi possiede un diesel, che però viene additato come sporco inquinatore, mentre tutti gli altri possono dire: vedi, questa sindaca ci tiene alla salute, non come quello prima! Peccato che l’effetto sulla salute di questo provvedimento, per come è studiato, sarà circa nullo, e comunque indimostrabile. Ma per far finta di fare qualcosa, va bene.

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sabato 11 Febbraio 2017, 10:35

Il ventennio grillista

Qualche giorno fa su Radio Popolare intervistavano Emiliano Fittipaldi, il giornalista dell’Espresso autore dello scoop sulle polizze della Raggi. Popolare vive ancora negli anni ’90, se non nei ’70, e quindi gli hanno chiesto: ma i continui attacchi di Di Maio e di tutto il M5S ai giornalisti e ai magistrati non sono un modo di fare berlusconiano? Lui li ha gelati rispondendo: a me ricordano piuttosto il periodo che portò al ventennio fascista.

Questo piccolo scambio ha suscitato in me una riflessione. E’ dalla nascita del Movimento 5 Stelle che si dice che al suo interno ci sono modi di fare squadristi, ma dall’interno noi abbiamo sempre, credo a ragione, derubricato la cosa a folklore marginale di pochi idioti; il Movimento delle origini, infatti, brulicava di partecipazione, di riflessioni sulla democrazia, di assemblee, di decisioni collettive. Era una cosa a metà tra il Partito Pirata e i girotondi antiberlusconiani, pieno di persone che venivano dai partiti e dai movimenti di sinistra, dall’ambientalismo, dalla cittadinanza attiva; e questo corpo diffuso bilanciava ampiamente il ruolo e il tono forte dei due capi politici, e il seguito personale carismatico di Beppe Grillo nella pancia del Paese.

Il problema è che, progressivamente, la partecipazione e la democrazia si sono spente; degli originari attivisti di 7-10 anni fa per cui “ognuno vale uno”, adesso una parte sono VIP televisivi o comunque politici in carriera, concentrati sulla gestione del consenso collettivo e personale, mentre quasi tutti gli altri hanno smesso o sono stati allontanati. Nessuna decisione è più presa dal basso; le discussioni avvengono tra eletti, in stanze chiuse, e vengono poi trasformate in propaganda con cui indottrinare la base e l’elettorato, o al massimo in qualche plebiscito online dall’esito già scritto.

Nel frattempo, la situazione politica italiana non fa che deteriorarsi. La somma di una crisi economica nazionale senza sbocchi e di un dibattito politico e mediatico sempre più rabbioso, divisivo e slegato dai fatti ricorda davvero il periodo di cent’anni fa che precedette il fascismo, peggiorato ulteriormente dalla novità della pressione socioculturale dovuta a flussi migratori ingestiti e probabilmente ingestibili. Nessun italiano di oggi ha vissuto quel periodo, e l’Italia, a differenza di altre nazioni, non ha mai maturato alcun anticorpo contro di esso.

Il M5S probabilmente dall’anno prossimo governerà l’Italia, o sarà perlomeno il maggior partito in una situazione di stallo totale che ridurrà ulteriormente la fiducia nella democrazia. Per questo è giusto chiedersi se sia davvero possibile un Ventennio a cinque stelle; non è detto che il M5S al potere porti per forza a un nuovo regime autoritario, ma i segnali preoccupanti esistono.

Preoccupante, difatti, non è soltanto lo squadrismo diffuso della base, di cui sotto vi darò un piccolo esempio; è preoccupante la reazione dei vertici e degli eletti a tutti i livelli, ovvero la futura classe dirigente del Paese, che non si dissociano mai da questi comportamenti, ma stanno zitti o peggio aizzano la folla contro chi dissente, contro i giornali, contro i giudici (solo quelli che indagano il M5S però), cioè contro gli elementi fondamentali di qualsiasi democrazia occidentale.

Sono quelli che se Feltri fa un titolo sessista e disgustoso contro la Raggi si scandalizzano a morte, salvo poi applaudire il capo e i colleghi, o perlomeno esibirsi nei distinguo, quando essi fanno la stessa cosa. Sono quelli che davanti a qualsiasi cattivo comportamento di qualcuno del M5S rispondono dicendo che è tutto un complotto dei giornali, o di “traditori” che vogliono “apparire sui giornali” o “tenersi la poltrona”. E non si capisce se ci credono veramente, nel qual caso sono talmente dissociati dalla realtà da essere pericolosi, o se sono solo furbetti, nel qual caso sono disonesti e pronti a tutto per mantenere il consenso e quindi altrettanto pericolosi.

Per questo a me spaventano i discorsi un po’ da bar, pieni di luoghi comuni, della nuova dirigenza grillina. Non è tanto un problema di grammatica e stile letterario, ma di scarsità di cultura politica, che porta queste persone a fare tutto un discorso sulla censura dei poteri forti o sulla resistenza al nazifascismo, e poi ad andare nelle riunioni interne a imporre la linea unica del capo o a cercare di cacciare chi la pensa diversamente da loro, essendo pure convinti che queste cose stiano bene insieme.

Oltre a quella della propria effettiva capacità amministrativa, questa è per me la principale questione sul tavolo del Movimento 5 Stelle. Siamo tutti convinti che il vecchio sistema politico sia corrotto e incapace, non c’è bisogno di ripeterlo; ma è comunque meglio una democrazia corrotta che una nuova dittatura. Per questo, se il M5S vuole governare il Paese, è il momento che i suoi eletti e i suoi sostenitori cambino registro – se ne sono capaci.

E ora, per farvi capire di cosa parlo, incollo un po’ dei commenti e dei messaggi che ho ricevuto da simpatizzanti e attivisti a cinque stelle dopo il mio post sulle polizze della Raggi: buona lettura.

 

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