Francoforte
Stasera (ieri sera per chi legge, visto che non c’è il wi-fi in camera e manderò il post in differita) sono a Francoforte, per un meeting domenicale dell’At Large europea, che è stato appositamente convocato in un giorno festivo e in un luogo più o meno centrale, e ben connesso via aerea, del continente.
Sono partito di corsa al pomeriggio, dopo una mattinata in cui dieci persone volevano dieci cose da me tutte allo stesso momento, e un pranzo finalmente piacevole ma devastante per il mio stomaco (perchè se non mi stendo di vino potrò almeno stendermi di cibo?). E poi, una corsa selvaggia a 180 all’ora in tangenziale per essere a Caselle per tempo (13 minuti netti da casa, di cui uno e mezzo perso all’unico semaforo del percorso), solo per scoprire poi che oggi pomeriggio l’aeroporto era insolitamente deserto. E così, eccomi qui.
Certo, è sempre strano essere in un posto di cui non si parla la lingua. Io ho cominciato a imparare il tedesco da bambino, ai tempi del C=64, quando ottenni per vie traverse il mio primo compilatore Pascal, e con orrore scoprii che era completamente e solo in tedesco. Lì scoprii le basi minime per orientarmi, tipo la sottile ma fondamentale differenza tra ein, kein e nein; e col tempo ho imparato a cavarmela almeno con la lettura. Il tedesco non è troppo difficile da interpretare, magari con un po’ di orecchio per la derivazione inglese – e qui va una nota di merito alla semplicità anglosassone, prendendo ad esempio termini come next e nächst che si pronunciano allo stesso modo e vogliono dire la stessa cosa, ma per cui il tedesco richiede una ortografia annurca. Ma capirlo sentendolo parlare è un’altra cosa.
E così, anche stasera sono un po’ dentro il solito effetto Lost in Translation: in cui è come se improvvisamente il mondo fosse cifrato in ROT13, e tutto intorno a te divenisse poco e difficilmente comprensibile, lasciandoti solo e insieme egualmente vicino a tutti quelli che passano. Solo che negli alberghi dove vado io non c’è mai Scarlet Johansson, ma solo gruppi di giapponesi e un pullman di russi, che vorrei diplomaticamente salutare al grido di “Oh Dimitri, ne hai fatta cento litri” ma sono da solo e il coro non verrebbe bene.
L’effetto è comunque raddoppiato nel mio giro alla stazione, dove cerco qualcosa per cena. A dire il vero pensavo di mangiare il piatto tipico tedesco, il döner kebab, ma non ho saputo resistere a un bratwürst + brötchen (il panino con il wurstelone che scappa da ambo i lati). E poi, il supermercato aveva l’ottima birra Köstritzer, la versione tedesca della Guinness, solo più acquosa e più amara, scoperta alle Olimpiadi a casa Turingia. E’ stata comunque intensa la sensazione di attraversare con un wurstel in mano l’umanità varia che popola una grande stazione, in più con una vista da scena finale di film, con il tramonto arancione e lontano in fondo ai binari già illuminati ma quasi interamente vuoti, e con i tabelloni luminosi a sottintendere il ricordo di qualcosa che è partito, o l’attesa per qualcosa che forse prima o poi arriverà .
Non è poi così bello viaggiare all’estero per lavoro, se uno lo fa troppo spesso (e ci sono peraltro molte persone che lo fanno ancora più spesso di me). Ma non è nemmeno così male, dopo una bella doccia, stare disteso sul letto in pigiama a guardare l’amichevole Francia-Messico, con Rudi Völler che parla misteriosamente in tedesco anzichè in romano. Solo, mi manca avere qualcuno a cui raccontarlo, a cui mandare un messaggio per dire come va; e mi manca, in fondo, la persona con cui mi piaceva viaggiare.