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venerdì 7 Luglio 2006, 23:03

8 Mile

Stasera su Studio Universal davano 8 Mile, e così ho colto l’occasione per rivederlo.

Se non l’avete visto ma ne avete sentito parlare, immagino che anche voi avrete lo stesso preconcetto: come può un film sul rap con Eminem come protagonista non essere spazzatura commerciale? E invece, 8 Mile è un film molto molto bello, e forse, se non avesse subito quel preconcetto, avrebbe avuto la stessa fortuna critica che ha avuto il precedente film di Curtis Hanson, L.A. Confidential, che ha vinto due Oscar nel 1998.

Il racconto è ambientato nelle favelas bianche di Detroit, e racconta di quel momento in cui un ragazzo timido, insicuro e perdente, senza soldi e con una famiglia degradata, trova il coraggio di diventare adulto, sfruttando l’unica chance di cambiare la propria vita. Girato in modo iperrealista, mostra uno spaccato dell’America perdente che non si vede tanto spesso, dove tutto è squallido (ma anche buffo, violento, vivo) e dove i gruppi che si trovano e si sfidano in strada a colpi di rap – se fossero in Brasile, sarebbe capoeira – rappresentano l’unico modo di fuggire con la fantasia.

Che il cast di contorno (da una Kim Basinger invecchiata e sbattutissima al talento emergente Mekhi Phifer, il dottor Pratt di E.R.) sia di ottimo livello è normale; che Eminem, al primo film, funzioni, è meno normale. Eppure è adatto, intenso e sperduto insieme, come una Alice nel Paese delle Meraviglie che improvvisamente prende il controllo delle proprie fantasie. Paradossalmente, la parte meno riuscita è l’immancabile storia d’amore, con l’improbabile biondina strafiga casualmente capitata nei peggiori sobborghi urbani (bella comunque la scena di sesso in silenzio, con il sottofondo delle presse). Ma questo film è come avrebbe potuto essere Rocky se ci fosse stato un regista dotato di compassione per gli esseri umani; una storia di volontà che spunta da non si sa bene dove e piega le cose.

In più, c’è la colonna sonora, dove ovviamente Eminem è a proprio agio; e in particolare Lose Yourself, una canzone con un battito accelerato e teso che rappresenta tutta la paura e l’adrenalina e il brivido di quel momento in cui è vivere o morire, e ci si gioca un futuro in un attimo. Per molti di noi, nella vita, viene un momento del genere, in ambiti o per cose diverse; che sia un esame importante, un colloquio di lavoro, una partita di calcio, o la chance con una donna di cui si è innamorati, ci sono prima o poi dieci minuti che possono cambiare per sempre la propria esistenza. Magari li viviamo in modo spensierato, ma sono in realtà, raccontati a posteriori, i dieci minuti più drammatici della nostra vita.

La canzone trasmette bene tutto questo; e il film la accompagna bene, prendendola a tema. I tre minuti in cui Eminem compone la canzone, in cui le parole gli appaiono piano piano, smozzicate, nella mente, guardando la sorella e la roulotte in cui vive, e poi si picchia con l’amante della madre che la sta mollando, sono di un verismo, di una intensità mozzafiato; valgono il prezzo del biglietto. Ma ce ne sono altri, di momenti così; un film, insomma, da vedere.

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