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martedì 3 Ottobre 2006, 00:01

Big change, no change

Ovvero: cambiare tutto per non cambiare niente. Il governo americano deve essere andato a scuola dal suo storico alleato Andreotti, se per mantenere il controllo di ICANN di fronte alle crescenti pressioni internazionali ha scelto la più classica delle formule dorotee.

Con la fine di settembre scadeva l’ultima proroga dello storico “memorandum of understanding” tra ICANN e il governo americano, che, con il complemento di altri documenti, stabiliva che cosa ICANN dovesse fare, con tanto di elenco dettagliato di attività che l’organizzazione doveva realizzare entro la scadenza del contratto.

Da mesi ci si chiedeva cosa sarebbe successo di questo accordo: se è vero che al summit di Tunisi ci si era accordati per ricercare un “nuovo modello di cooperazione” e quindi un nuovo ruolo dei governi nel controllo degli identificatori unici della rete (nomi a dominio e indirizzi IP), in pratica entrambe le opzioni erano sgradite: rinnovare l’accordo avrebbe voluto dire ribadire il principio secondo cui era il governo americano a stabilire il piano di lavoro di ICANN, mentre lasciarlo scadere senza sostituirlo avrebbe lasciato ICANN sostanzialmente senza controllo.

E allora, che cosa si sono inventati? Semplice: via il memorandum of understanding, arriva il joint project agreement: il governo americano e ICANN, da pari a pari, si mettono d’accordo su cosa si debba fare. Formalmente è un passo avanti; in pratica cambia poco.

Del resto, due sono le cose che veramente stanno a cuore al governo americano: che i cambiamenti al file radice del DNS – il file che contiene l’elenco dei domini di primo livello, sia generici che nazionali, e stabilisce chi gestisce ognuno di essi – continuino a richiedere la sua approvazione, e che tutti i possessori di domini del mondo siano obbligati a identificarsi e pubblicare i propri dati nel Whois, in modo che le multinazionali della proprietà intellettuale possano molestarli con efficacia. La prima cosa è prevista da altri accordi che restano bellamente in vigore; la seconda è stata esplicitamente inserita (al punto 5 dell’allegato A) come una delle clausole obbligatorie e perentorie che ICANN deve rispettare, nonostante sia, ai sensi delle leggi sulla privacy di tutto il resto del mondo, completamente illegale, tanto che gli stessi organismi interni di ICANN stavano per approvare una riforma del sistema (pericolo scampato, penserà la RIAA).

E il resto del mondo? Immagino che, volendo, anche gli altri governi del mondo potrebbero chiedere ad ICANN di fare un bel progetto insieme, e firmare il loro bell’accordino con cui baloccarsi. La verità, difatti, è che il potere di controllo esercitato da ICANN non deriva affatto dai soli accordi con il governo americano, o dalla sua struttura formale.

Deriva invece in gran parte dalla rete di relazioni interpersonali che c’è al suo interno e nelle altre organizzazioni che gestiscono la rete, da un management quasi tutto anglosassone, da quelle poche persone influenti che prendono le decisioni nei corridoi o davanti al buffet, e che appartengono tutte all’aristocrazia del grande business americano del settore (AT&T, Cisco, IBM, e le immancabili Google e Verisign, le centrali informative globali dell’America in rete).

E quindi, le forme cambiano per dare qualche contentino, se non proprio per darla un po’ a bere ai governi di mezzo mondo, un po’ gonzi e un po’ duri a comprendere il ventunesimo secolo, quello dove il controllo globale degli affari e dei flussi informativi determina un potere ben superiore a quello di qualsiasi legge nazionale o accordo diplomatico.

Ma finchè l’Europa non comincerà ad usare tecnologie e servizi propri, invece di quelli americani, resterà sempre la periferia dell’Impero.

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