Oggi pomeriggio, verso le 16:30, sono uscito di casa e sono andato a prendere la metro per andare dal dentista. Giunto alla macchinetta, ho selezionato il biglietto, ho inserito un euro, mi è arrivato il biglietto, ma la macchinetta si è ingoiata il resto.
A questo punto avrei dovuto capire che non era giornata, tornare a casa, e mettermi a letto sotto le coperte. Invece ho proseguito, ed è stato un errore.
Difatti, l’appuntamento dal dentista riguardava la tanto sospirata estrazione del mio dente del giudizio superiore sinistro, che era già stata rimandata (da loro) per un paio di volte, dopo essere stata bellamente ignorata da me per un paio d’anni. Il risultato è che nel frattempo il dente, situato in posizione dimenticata da Dio e dagli uomini, si era cariato e aveva cominciato a venire via a pezzettini e schegge, oltre che a farmi male per giorni ogni volta che prendevo un aereo.
Verso le 17:10, sistemato il bavaglio, accomodata la poltrona, il chirurgo ingaggiato dalle mie dentiste per la bisogna mi si presenta, e mi chiede scherzando se voglio l’anestesia; io, ovviamente, rispondo di sì. Me ne fanno una dose, aspettano qualche minuto, e poi cominciano ad esaminare la bocca. Primi gesti di disappunto: il dente subito precedente, che sporge un po’, ha ferito nel tempo l’interno della guancia, provocando un ispessimento della pelle che azzera la già precaria visibilità .
Io, comunque, non demordo, e sono anzi curioso. Mi son chiesto, negli anni, come avrebbero fatto a togliermi questo dente, visto che io, in innumerevoli tentativi con varie combinazioni di specchi, non sono mai riuscito nemmeno a vederlo; del resto, il motivo per cui era così cariato è che era irraggiungibile anche allo spazzolino. Però, io, ho ingaggiato i professionisti, e son qui che aspetto di vedere quali meraviglie la tecnica ha escogitato per compiere una operazione che parrebbe fisicamente impossibile.
L’inizio, devo dire, è un po’ low-tech: cominciano ad infilarmi in bocca pezzi di ferro di ogni forma e dimensione, cercando di fare presa sul dente per allentarlo un po’. Il problema è che il mio dente è decisamente “marcio” (definizione del chirurgo stesso): di fatto, la corona si sbriciola sotto i loro strumenti, lasciandoli senza presa.
Dopo venti minuti, comincia ad affiorare un po’ di nervosismo: il dente è ancora saldissimo, mentre la collezione di strumenti sul tavolino è già significativa. Partono dei conciliaboli a bassa voce nell’angolino, che io tanto non sento, essendo un po’ rincoglionito dalla doppia dose di anestesia che mi fa sentire guance e palpebre come se fossero di gomma pesante.
Decidono di provare con altri metodi: e così, se ne vanno altri venti minuti, in cui, invece dei previsti raggi laser e ultrasuoni, altri pezzi di ferro vengono infilati in ogni modo nella mia bocca. Mentre rischio di soffocare per la saliva e il catarro, e al contempo mi viene continuamente da soffiarmi il naso visto che l’anestesia è arrivata fin lì, il nervosismo si intensifica: partono un paio di semiscazzi tra il chirurgo e l’assistente; il primo sembra sul punto di gettare la spugna e dire “maestra, il compito era troppo difficile, me ne dà un’altro?”. Poi però riprende, e si arriva al punto più raccapricciante; d’improvviso, mentre io in preda a un comunque ragguardevole dolore ho la faccia deformata, e già ci sono schizzi e pozzette di sangue un po’ ovunque, afferra dal tavolino un martelletto e con aria assatanata comincia ad assestarmi svariate martellate sul dente. Giuro! E’ come vedere qualcuno che sfonda una vetrata a martellate, però in soggettiva dal punto di vista della vetrata. L’ultimo colpo mi risuona fin nelle profondità del cranio, spingendomi a reagire con un feroce mugolio.
Ormai è più di un’ora che litigano col mio dente, indignandosi ogni tanto tra loro con dettagli tecnici tipo “come mai non ruota” e “non è possibile che sia ancora attaccato”, e io sto già pensando alle prossime mosse: già mi vedevo il chirurgo andare a prendere il cric dal baule della macchina, infilarmelo sotto il dente e cominciare a saltarci sopra con i piedi. Invece, a un certo punto succede il miracolo, e facendo leva dall’angolo della mia bocca, dilatata al livello di un parto, riescono a far venire giù il dente.
E lì si sprecano i commenti: in pratica, mentre io sto ancora sputando tanto sangue che basterebbe a una operazione a cuore aperto, il chirurgo mi dice che non solo ho un raro dente del giudizio a tre radici, ma le radici sono tutte e tre curve, e una è pure malformata, avendo una forma rigonfia e quasi a S che le impediva di venire fuori. Insomma, per il bene della razza odontoiatrica mi esorta a non avere figli, ed evitare di propagare nei miei geni tanta mostruosità .
Poi mi cuciono la ferita per quel che si può, mi rifilano un tampone da tenere in bocca, una borsa del ghiaccio (in effetti, tra gonfiore e macchie di sangue ovunque, sembra che mi abbiano pestato) e una prescrizione di antibiotici e antiinfiammatori vari, e tra l’esultanza della coda che si è formata nella sala d’attesa mi spediscono sulla metro, di ritorno a casa, infelice e dolorante.
Tutto è bene quel che finisce bene. Tutto sommato, però, penso che forse potevo andare a farmi togliere il dente al Fight Club: ci avrei messo di meno, avrei speso di meno, e almeno avrei potuto restituire qualche cazzotto.