In piazza per il lavoro
Oggi pomeriggio, un numero variabile ma consistente di giovani e vecchi che si riconoscono nella sinistra estrema sarà in piazza a Roma, per chiedere pane e f..a per tutti: posti fissi, pensioni, persino un reddito di cittadinanza che, immagino, dovrebbe essere garantito assegnando a ciascuno la giusta quota dei soldi che crescono spontanei sugli alberi. Ne parla persino l’house organ del governo, naturalmente molto ma molto più in basso rispetto allo scoop su quanto sia bella la nuova sede del Partito Democratico.
Come sapete, non sono mai tenero con la sinistra tradizionale, quella che difende i posti di lavoro degli assenteisti e dei fancazzisti pubblici e parapubblici, quella che promuove il principio tutto italico secondo cui i cinquantenni di oggi possono andare in pensione dieci anni prima che nel resto dell’Europa e a carico dei loro figli precari, quella che dell’economia del ventunesimo secolo non ha capito nulla e ha quindi tante possibilità di gestire un Paese con successo quante ne ho io di battere il record mondiale dei cento metri. Personalmente, se capisco i vecchi che difendono con le unghie le proprie prerogative, credo che ai giovani che saranno in piazza oggi si possa dare il tafazzino d’oro.
Però, sarebbe ora di parlare anche dell’altro lato della questione: perché è vero che la flessibilità è un elemento imprescindibile della vita di oggi e sarà meglio farci l’abitudine, ma è altrettanto vero che la maggior parte delle aziende italiane la sfrutta ben oltre i limiti della decenza, lasciandone al lavoratore tutti gli svantaggi e nessuno dei vantaggi.
E’ vero che la richiesta di un posto a vita a prescindere dall’impegno è anacronistica e pure moralmente ingiustificabile, ma è vero che chi lavora nello stesso posto da un anno tutti i giorni come un dipendente ha tutto il diritto di pretendere delle garanzie come un preavviso e una compensazione per il licenziamento, anziché un contratto rinnovato di mese in mese quando va bene.
E’ vero che i giovani italiani sono in buona parte bamboccioni, cresciuti nella bambagia ed educati con l’obiettivo di farsi raccomandare più che di dimostrare il proprio valore e venirne ricompensati, ma è anche vero che come si fa a metter su famiglia o anche solo vivere da soli, con ottocento euro al mese?
Ciò che mi preoccupa è la contrapposizione crescente tra una classe dirigente focalizzata sul salvare se stessa, che agita l’economia di mercato come scusa per fregarsene del crescente impoverimento dei propri cittadini, e la convinzione strisciante nel popolo che il paese dei balocchi è lì a un passo, basta fare sufficiente casino in modo che lo decretino per legge… e quindi, via col casino.
La sola via d’uscita è quella difficile, che passa per il lavoro di tutti nessuno escluso, ma anche per il riconoscimento di tale lavoro in termini economici, e per un rinnovamento che metta a goderne chi lo merita e non chi ci si è aggrappato con le radici; e mandi a gestire ministeri e aziende chi lo vede come un servizio alla collettività e un mezzo di realizzazione personale e collettiva, e non come un puro modo per arricchirsi alla faccia degli altri.
Certamente questo significa anche cacciare i fancazzisti senza pietà ; però bisogna cominciare a farlo non solo con l’impiegato cinquantenne delle Poste che scalda la sedia, ma anche e soprattutto con il dirigente suvvato da cinquemila euro al mese che blatera e lecca culi tutto il giorno. Del resto, come pensate che si sia salvata la Fiat? Nel periodo della svolta il numero dei dirigenti in certe aree è sceso di botto del 60%…
Possiamo dissentire su quali siano gli strumenti più efficaci per raggiungere l’obiettivo; ma non possiamo dissentire sul fatto che esso debba essere quello di ricompensare un normale lavoro con una vita dignitosa. Non lo si può garantire con la bacchetta magica, ma anche nelle condizioni attuali lo si può certamente fare molto più di quanto lo si faccia oggi. Chiederlo, anzi pretenderlo da chi ci dirige è doveroso.
[tags]20 ottobre, lavoro, precarietà , legge biagi[/tags]