Prospettive di vita giapponese
Oggi ho fatto proprio bene a mettere in programma due cose che i visitatori di breve periodo a Tokyo normalmente non fanno, perché ho avuto un’illuminazione.
La prima cosa è stata quella di investire un po’ di yen in un tour guidato fuori dalla città , a vedere le pendici del Monte Fuji e la zona termale elegante di Hakone. Il tour in sé non è stato il massimo, perché il tempo era coperto e il Fuji si è visto ben poco, ma alla quinta stazione (quasi 2400 metri di altitudine e 28 gradi di temperatura pur in un giorno senza sole) ho di nuovo assaggiato la strabiliante densità di questo popolo: era come andare ad un qualsiasi rifugio alpino di quell’altitudine in estate, solo che invece di esserci un rifugio c’erano sei palazzi di quattro piani, e invece di esserci qualche decina di persone intente a prendere il sole o a partire per le salite più serie ce n’erano probabilmente oltre un migliaio: erano tutti vestiti tecnicissimi da scalatori provetti, ma il sentiero alpino che porta in cima al Fuji era più o meno come via Garibaldi il sabato pomeriggio.
Uscendo dalla città , ho scoperto che il Giappone ha sì 120 milioni di abitanti in un territorio grande come la Germania, ma questi abitanti sono concentrati nel 25% del territorio costituito da pianure o da fondovalli; il rimanente 75% sono montagne praticamente disabitate. Per questo motivo, finché si sta in pianura non si vedono che case, case, case e case a perdita d’occhio per decine e centinaia di chilometri, al massimo – dopo i primi 30-40 km di allontanamento dal centro – inframmezzati da qualche timido campo di riso (non risaia, che a quanto pare qui non li allagano, ma seminano a giugno e raccolgono a ottobre; tanto c’è abbastanza acqua nell’aria per tutta l’estate, è come se le piante fossero a mollo).
Poi, d’improvviso, si arriva al bordo della montagna; e di botto le cose cambiano. Lì gli insediamenti umani sono piccoli villaggi che si fanno faticosamente strada in mezzo a una vegetazione lussureggiante, densissima, quasi impenetrabile; che siano foreste (come per la maggior parte) o prati di erba alta mezzo metro, la natura crea un intrico misterioso che respinge. In più, l’orografia del territorio è labirintica, perché il Giappone non è stato creato da uno scontro di continenti con successiva erosione delle acque, ma da eruzioni vulcaniche che ogni tanto, anche in tempi geologicamente recenti, creavano una nuova montagna dove prima non c’era, in un luogo più o meno casuale.
Si capisce insomma come i giapponesi da una parte si schiaccino in pianura, e dall’altra abbiano questo rispetto atavico per la natura che ce li schiaccia: vorrebbero allargarsi, ma vulcani, terremoti e foreste glielo impediscono.
La sera, poi, sono andato a cena a casa del mio amico Izumi; è un’opportunità molto rara perché non è facile essere invitati in casa da un giapponese. Io mi ero preparato, mi ero portato il regalo, mi ero anche tenuto da parte un paio di calze nuove, ma ero piuttosto teso all’idea di confrontarmi con tutti i vari tabù dei giapponesi, pur se il mio amico ha girato il mondo e in patria è considerato molto occidentalizzato. Invece è stata una bella serata, soprattutto perché ho scoperto un ulteriore livello della cortesia dell’ospite: se il tuo invitato scatarra nel bicchiere perché non sa che è maleducazione (è solo un esempio, non l’ho fatto…), tu non devi semplicemente fingere che vada tutto bene; devi prendere il tuo bicchiere e scatarrare anche tu giurando che quella è la normalità delle buone maniere locali. In alcuni casi ha usato anche l’inganno, ad esempio insistendo perché ci trovassimo alla stazione di Meguro per andare insieme a casa sua, per poi scoprire che casa sua è a 10 euro di taxi, che lui si è fatto una volta per venire a prendermi e una seconda per riportarmi indietro (la terza l’ho pagata io).
Però ho capito una cosa importante: che quel che si vede dall’esterno, cioè la folla inimmaginabile, i formicai umani, il rumore, le luci, la confusione e l’intruppamento, ha un suo contrappeso non evidente nello spazio privato, che pure esiste, nelle viuzze semideserte e silenziose di periferia, e nelle case piccole ma accoglienti che ci si affacciano sopra. Anche esse stracolme di roba, affastellata in modo incredibile, tanto che alla fine mi sono un po’ preoccupato perchè il mio regalo occuperà una trentina di centimetri di diametro e in quella casa è una percentuale significativa dello spazio disponibile. Però tranquille, ben studiate, piene di vecchi mobili di legno o magari di plastica.
La vita è dura per i giapponesi, e noi bene abituati non sappiamo nemmeno immaginare quanto: io sono andato via alle undici e mezza e la figlia più piccola del mio amico, vent’anni e qualcosa, non era ancora tornata dal lavoro come commessa in palestra; i giapponesi lavorano sei giorni su sette, per tutto il giorno e spesso anche la sera, e per riprendersi hanno una settimana di ferie l’anno. Non è un caso che sui treni del sistema ferroviario più efficiente del mondo, dove nulla si rompe mai e un minuto di ritardo vale le scuse in ginocchio dell’intera azienda, si leggano continuamente nei pannelli informativi, tutti i giorni, uno dietro l’altro, annunci di questa o quella linea bloccata per “incidente”. Dopo dieci minuti, pulito il sangue, i pendolari ricominciano a scorrere.
In origine, dal dopoguerra fino agli anni ’80, tutto questo sacrificio – quello che ti viene richiesto in quanto piccola rotellina senza spazio di manovra, ma con l’orgoglio di contribuire al fatto che la tua comunità primeggi nel mondo – era ripagato da una grande ricchezza collettiva, che faceva essere i giapponesi danarosi quasi quanto gli arabi. Da quindici anni, dopo la crisi e la globalizzazione e l’esplosione degli odiati cugini cinesi, non si vede nemmeno più bene il perché di tutto questo; se non, forse, per godersi per sei o sette ore al giorno – tra vita, pasti e sonno – quei pochi metri quadri di periferia.
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