Genova per noi (e anche De André)
Ieri, approfittando del fatto che io avevo un appuntamento là nel tardo pomeriggio, siamo andati a visitare Genova.
Paradossalmente, è una delle città italiane che conosco di meno; a parte le stazioni, il mio unico giro risaliva a un tour notturno sulla macchina di .mau. oltre dieci anni fa, oltre a una toccata e fuga per l’Hackmeeting 2004. Ieri ho comunque avuto conferma della mia prima impressione, cioè che Genova è, urbanisticamente parlando, costruita con gli scarti di Torino: noi abbiamo tolto dai nostri progetti tutta l’irrazionalità e tutti gli angoli non retti e li abbiamo scaricati laggiù, dove tra Ottocento e Novecento hanno costruito una città in stile sabaudo – a parte le imposte verdi – però disponendo vie e palazzi nei modi e con le forme più assurde. In un certo senso, Genova è Torino vista attraverso uno specchio deformante che trasforma i rettilinei in curve e la pianura in pareti vertiginose; è come sarebbe Torino se l’avesse progettata Escher invece di Lagrange.
Per noi, l’effetto è preoccupante: in una città così, proprio non ci si raccapezza. Il percorso da Principe a piazza De Ferrari non ha né capo né coda: una strada stretta in discesa, un pezzo di stradone ingrigito, l’imbocco di una galleria da camionale, una via mezza curva, un rettilineo con dei palazzi tutti uguali, un’altra salita verso destra… non è certo come un bel viale dagli alberi maestosi che ti accoglie e ti indica chiaramente la via. Le cose sono leggermente migliorate quando, già avanti nel nostro giro, siamo risaliti da piazza Caricamento verso il centro: ecco, allora lì le cose cominciano ad avere un pelino più di logica, ad esempio ti trovi davanti il Duomo dalla facciata invece che dal retro.
Probabilmente se Genova avesse solo il porto e la parte antica sarebbe più bella, invece così è come se dietro la parte antica avessero costruito uno spazioporto pieno di astronavi ottocentesche, culminato da quel capolavoro dell’orrore che è la torre quadrata del teatro Carlo Felice, una specie di enorme autosilo di cemento che sarebbe deturpante persino a Los Angeles. Peraltro anche la parte antica è davvero inquietante: a Lisbona o a Barcellona le vie sono almeno un po’ più larghe, ma a Genova c’è una costante, orribile sensazione di soffocamento, di bassifondi e di marciume eterno da luoghi in cui non batte mai il sole, oltre al problema che disegnare il percorso ottimale dal punto A al punto B è praticamente impossibile; a un certo punto mi è venuta voglia di farmi largo tra le case con un bazooka.
Siamo anche andati a visitare la tanto pubblicizzata mostra su De André a Palazzo Ducale. In termini tecnici, la mostra è una fregatura, visto che per otto euro (sei esibendo un biglietto del treno) gli unici reperti esibiti sono una decina di foglietti autografi, il suo pianoforte, vecchie fotografie e un po’ dei vinili dei suoi dischi, per un totale di tre sale. Tuttavia, la mostra è molto coinvolgente dal punto di vista emotivo, e permette efficacemente di capire di più sulla storia personale e sul pensiero a tutto campo dell’artista.
Anche De André – che, ricordiamolo, era di genitori piemontesi, ed aveva passato l’infanzia per le colline di Asti – rappresenta uno dei vari elementi della tensione costante tra Torino e Genova; naturalmente De André ne costituisce l’orgoglio genovese, tanto che in uno dei pannelli gli si attribuisce come merito artistico quello di “aver dato finalmente una visione di Genova diversa da quella di fantasia per i contadini del basso Piemonte”, con tanti saluti al “contadino” Paolo Conte. In realtà , l’impegno sociale e politico di De André – che non a caso è sostanzialmente assente nei vari brunilauzi e ginipaoli – è tema tipicamente da intellettuale sabaudo, ma lo specchio deformante di Genova trasforma lo scritto in cantato, e l’ortodossia marxista delle fabbriche torinesi nell’anarchia cangiante dei vicoli e del mare.
Personalmente, di De André ho da tempo eliminato tutti i grandi classici, i vari La guerra di Piero e Bocca di rosa, che pur se ricoperte di talento sono composizioni abbastanza banali e anche un po’ infantili nella loro semplificazione del mondo, cosa peraltro inevitabile visto che furono scritte a vent’anni o poco più. La parte veramente eccezionale della produzione di De André è quella adulta, quella che davvero riesce a cogliere la meraviglia e la povertà della vita e delle vite senza voler esprimere giudizi; inizia probabilmente con Rimini nel 1978 e passa attraverso canzoni meravigliose come Princesa o La domenica delle salme. Credo che la cosa migliore che si possa dire di De André è che c’è una sua canzone per ogni carattere e per ogni caso della vita, ed è sempre una bella canzone.
Per il resto, abbiamo soddisfacentemente mangiato alla Trattoria Vegia Zena, in un vicolo praticamente di fronte all’Acquario: 55 euro in tutto per due primi semplici ma ottimi (viva il sugo di noci ma peccato per il pesto microemulsionato, una scuola di pensiero che aborro), due secondi davvero buoni (seppie in umido e stoccafisso accomodato), un dolce e un caffé. E abbiamo visto il museo Chiossone, in un posto bellissimo ma che vi dovrete sudare per scale e salite varie, che contiene una selezione di oggetti antichi giapponesi non enorme ma davvero molto molto bella: vale sicuramente la pena.
E’ stata, insomma, una bella gita, nonostante il freddo assurdo portato dal vento: alla faccia del posto di mare!
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