Una città bloccata
Ieri sera, incuriosito da una segnalazione, sono andato alla Fondazione Sandretto ad assistere a un dibattito organizzato dall’Associazione NewTo, insieme alla redazione locale di Repubblica, sul tema “L’Italia da sbloccare: e Torino?”.
Il tema, ovviamente, è importante; l’esito è stato un po’ così. Questa associazione, di cui non avevo mai sentito parlare, è stata fondata da alcuni “giovani” (cioè 30-40enni) torinesi con posizioni di responsabilità : c’è chi lavora o lavorava al Toroc, chi a Torino Internazionale, chi dirigeva il Salone della Musica, chi ha incarichi in Confindustria. Un ex collega ritrovato in sala, che era già stato ad incontri precedenti, l’ha definita una associazione di “raccomandati buoni”: certamente nella Torino di oggi non si arriva in quegli ambienti senza qualche bella sponsorizzazione, però l’impressione che mi hanno dato, chi più chi meno, è stata di persone che sanno il fatto proprio, con particolare nota di merito per l’imprenditore Dal Poz.
La cosa negativa, però, è stata la puzza di vecchio di tutto l’evento, a cominciare dalla presenza sul palco di un mostro sacro come Luciano Gallino, che ha esordito spiegando che “l’industria ICT non è solo software, perché ci sono anche quelli che montano e vendono i PC”: e davanti a siffatta comprensione delle cose, che vogliamo obiettare? Infatti, ha proseguito dicendo più o meno che l’ICT è economicamente irrilevante perché è fatta solo di microaziende da dieci persone o meno, e così il convegno è surrealmente proseguito orientandosi sulla centralità per lo sviluppo torinese, indovinate un po’, dell’industria dell’auto, su cui dobbiamo puntare per il nostro futuro.
Gallino ha pure detto che il rinnovamento anagrafico della classe dirigente non è poi così necessario, perché non è necessariamente detto che un giovane sia anche capace, e anzi l’unica industria che era basata sui giovani era quella finanziaria, e sono stati proprio tutti questi ventottenni rampanti e assetati di denaro a portare il mondo al disastro, quindi è tempo di riportare il potere nelle mani dei sessantenni che l’hanno gestito così bene: infatti, ha concluso Gallino trionfante, a Torino si sono perse decine di migliaia di posti di lavoro nell’indotto auto ma grazie ai nostri sessantenni dirigenti la città è tuttora ricchissima e viviamo tutti senza problemi.
Ovviamente io non ci ho più visto; dopo qualche intervento – tra cui quello del sottosegretario Giachino, che ha rimarcato come lo sviluppo del Piemonte in crisi passi dalla logistica e in particolare dall’incrocio della TAV Lisbona-Kiev con la TAV Genova-Rotterdam; se ho capito bene, il piano del governo è che torme di giovani piemontesi si trasferiscano a Novara per scaricare scatolette di sgombro provenienti da Lisbona e caricarle in direzione Rotterdam – ho afferrato il microfono e ho messo in chiaro alcune cosette.
Per esempio, ho fatto notare che ci sono altre industrie messe in piedi da ventenni e trentenni, tipo, che so, Google, Youtube, boite del genere; e che a Torino ci vivrà riccamente lui, ma la realtà è quella di una città provinciale dove le opportunità di lavoro, qualificato e non, scarseggiano sempre più; e che forse se i trentenni non riescono ad emergere è perché c’è un intero sistema sociale che concentra potere e denaro nelle mani delle persone da 60 anni in su, evitando accuratamente di stimolare i giovani a innovare come dovrebbero, visto che non permette loro nemmeno di andare a vivere da soli.
Mi ha confortato che in sala ci fossero altri giovani che hanno suffragato le mie tesi, facendo notare come l’ICT non sia un settore industriale ma piuttosto un modo di pensare, un servizio trasversale che modifica e ottimizza l’intera produzione e anche gli altri aspetti della vita; ma soprattutto che, senza contarsi balle, Torino è una città bloccata; che è il caso di ammettere che o appartieni ai salotti buoni della Crocetta e della collina o nessuno ti affiderà mai un posto di responsabilità a trenta o a quarant’anni, perché non sapranno nemmeno che esisti, perché i meccanismi di selezione sono rigorosamente nascosti, centrati sulle conoscenze e sulle padrinerie di vario genere. Alla fine l’hanno ammesso a mezza bocca anche i “giovani di successo” che stavano sul palco.
Eppure, la sensazione di essere fuor d’acqua non se ne è andata via; ha fatto un po’ strano sentire queste voci prese a panino tra il già citato intervento del sottosegretario e quello di Federico De Giuli: sì proprio lui, la metà della famigerata De-Ga, e adesso almeno l’ho visto in faccia. E non mi ha nemmeno fatto cattiva impressione, anzi: perché la cosa triste è che le caste non sono mica delle malvagie associazioni di gente che si trova apposta per dire “sì, dai, facciamo la casta, chiudiamo fuori tutti gli altri”. E’ semplicemente che questi personaggi li disegnano così; nascono in un ambiente diverso dal nostro, ed è puramente naturale che ci restino senza nemmeno rendersi conto che ne esistono altri.
E’ quindi lodevole che si tengano in città incontri di questo tipo; ho solo qualche dubbio sul fatto che la classe dirigente cittadina riesca a rinnovare se stessa – a parte la cooptazione di qualche figlio e nipote – partendo dalla sicumera con cui pensa di essere la migliore possibile.
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