Che la guerra continui
Oggi, con quello che è successo a Kabul, è un momento particolare per parlare di guerra.
Io credo nel pacifismo e nel ripudio della guerra, nella riconversione delle spese militari, e anche nel fatto che le attuali “missioni di pace” siano funzionali a un modello politico-economico colonialista, basato sulla crescita indefinita e insostenibile del PIL, e siano dunque decise soprattutto in base agli interessi economici; sono molto fiducioso sul fatto che la decrescita possa portare pace.
Tuttavia, credo che la posizione che rifiuta l’uso della forza militare sempre e comunque sia ipocrita: senza l’uso della forza oggi saremmo tutti nazifascisti. Dubito molto che l’autodifesa nonviolenta, a fronte dell’invasione da parte di un esercito nemico o di una guerra civile in corso, possa vincere da sola: dunque ci sono delle condizioni in cui un esercito è necessario.
Ricordo la posizione di un grandissimo europeo quale fu Alexander Langer, certo non tacciabile di militarismo, quando andò a vedere Tuzla dopo la strage e ne tornò con il grido di denuncia dei bosniaci, “siamo attaccati da un regime nazionalista che ci vuole sterminare e voi europei non fate nulla, dunque siete loro complici”. Lui lo sottoscrisse e invocò l’intervento armato dell’ONU, e per uno che aveva diretto Lotta Continua e fondato i Verdi ed era divenuto leader riconosciuto dei primi movimenti ecologisti e pacifisti d’Italia fu una posizione difficile, che lo portò all’isolamento e che forse fu una delle cause del suo suicidio. Ma sono profondamente convinto che avesse ragione.
Dunque credo che rifiutare per principio qualsiasi uso delle armi sia una posizione semplicistica, talvolta addirittura egoista, che per evitare di affrontare il dilemma scomodo – esistono condizioni in cui l’uso della forza è il male minore? – abbandona al loro destino interi popoli. E credo che una volta che si sono spedite delle truppe dall’altra parte del mondo – truppe scelte sì, magari anche con qualche esaltato, ma in generale fatte di persone che lo fanno come lavoro, talvolta per mancanza di alternative, spesso anche con grande convinzione sul valore positivo della loro missione – sia doveroso non abbandonarle al loro destino: ogni appello al ritiro in queste condizioni è una coltellata alle loro spalle, e incita gli attentatori ad altri attentati, perché dà ad essi la speranza di poter vincere il conflitto in questo modo.
Abbandonare intere parti del mondo nelle mani di una cultura profondamente antidemocratica e autoritaria come quella integralista islamica – quella in cui i genitori ammazzano le figlie perché frequentano un non musulmano – mi sembra una idea ributtante, nonché un modo per preparare conflitti più grandi per il futuro, esattamente come successe quando l’Europa, per evitare lo scontro, non reagì alle prime annessioni del nazismo.
Ricostruire un mondo pacifico al posto di un mondo di conflitti è una impresa che richiede cambiamenti profondi nel modo di pensare, dunque richiede molte generazioni; richiede anche dialogo, integrazione, la costruzione di una cultura profondamente rispettosa delle diversità di tutti. Ma non può tradursi nel rifiuto delle responsabilità , anche militari, che toccano ai paesi più sviluppati. Probabilmente in Afghanistan non ci dovevamo andare, forse si poteva ottenere qualcosa con la diplomazia e con più pazienza – del resto molti regimi autoritari si stanno democratizzando quasi (quasi!) senza uno sparo, come la Russia e la Cina. Eppure non penso che possiamo permetterci da subito di rifiutare per principio qualsiasi uso delle armi: sarebbe una posizione bella, appagante per noi e per le nostre coscienze, ma irresponsabile per persone che, come chi fa parte del movimento di Grillo, potrebbero trovarsi prima o poi ad avere responsabilità pubbliche.
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