La donna del Bancomat
Tu.
Tu che incedi con il piumino foderato di sacchetti della spazzatura viola, solo perché qualche marchettaro minchione di Milano ha deciso che quest’anno è il viola il colore che le anime deboli come te, costrette a uniformarsi agli ordini sottili della comunicazione di massa, devono correre ad acquistare nelle boutique eleganti, buttando via lo stesso abito acquistato anni fa, ma verde pisello.
Tu che sfoggi un povero cane di quelli addestrati duramente a rompere i coglioni, sempre, comunque, ovunque; proprio come te.
Tu che probabilmente, per essere in giro pittata in quel modo a mezzogiorno di un martedì feriale, non svolgi attività lavorative di alcun genere, se non forse l’estetista per altre anime deboli o l’imbucata nell’azienda del papi, e magari ti fai mantenere da un povero fesso a cui la sventoli davanti da anni ma son più le volte che c’hai mal di testa.
Tu che ti poni davanti al mio bancomat – è mio, sono io che ci ho parcheggiato davanti, facendo tutta la manovra per benino perché non sono uno di quelli che pensano che le quattro frecce smaterializzino magicamente l’auto permettendole così di sostare senza problemi nel perfetto centro della strada. E mentre io parcheggio, tu lasci la tua nuova 500 (pensata apposta per te da Lapo Elkann) con due ruote sul marciapiede e pure storta.
E ti metti al bancomat.
E infili la tessera.
E passi tre minuti a farti la ricarica del cellulare, sbagliando due volte a digitare il numero.
E togli la tessera.
E rimetti la tessera.
E ti fai stampare l’estratto conto del tuo conto su cui sicuramente figurano un sacco di soldi, ma sempre meno di quelli che avrebbe una persona sana di mente che non spenda i suoi soldi in costrutti di spazzatura viola e in cagnolini di razza fighetta tanto puri quanto stronzi.
E sono passati cinque minuti e porca miseria, io ho un appuntamento, sto arrivando in ritardo, devo premere due bottoni e farmi dare cento euro, non ci vuole tanto, ci metto un attimo.
E tu riprendi la tua tessera e fai per infilarla ancora una volta, la terza.
E io allora cerco di non sbottare, di non essere maleducato e nemmeno aggressivo, e dico gentilmente “Scusa, potresti solo farmi prelevare e poi vado via?”.
E tu mi guardi con il tuo sguardo da lobotomia di massa, inconsapevole del fatto che al mondo esistano altri che te, ignorante del fatto che il futuro del pianeta (dunque anche il tuo) dipenda dalla collaborazione e dalla solidarietà tra tutti gli esseri viventi, e mi dici: “Adesso ci sono io, ci sto quanto mi pare!”.
Sì, adesso ci sei tu.
Ci sei tu a prendertela nel culo dall’inflazione, dal tiggiunocinquequattrodue, dalla rivenditrice e dal fabbricante di sacchetti della spazzatura viola, dalla tua banca che sicuramente ti addebita nottetempo costi inesistenti, dal pubblicitario che ti fa passare serate a piangere disperata perché hai visto una tipa più in tiro di te, o perché tu hai tutto il guardaroba viola e invece il colore del futuro è il verde oliva, porca miseria, è sicuramente il verde oliva.
Ci sei tu a non avere la minima idea di quanto la felicità dipenda dall’armonia con gli altri e di quanto la tua infelicità (che peraltro fai finta di non vedere) sia creata ad arte per renderti schiava, per eliminare il tuo libero arbitrio col rincoglionimento sociale e per trasformarti in un numero qualsiasi, in un codice fiscale vestito alla moda.
Ci sei tu, ad avere accanto un animale e ad usarlo come un simbolo di stato invece che come una meravigliosa creatura vivente, a meno che a forza di trattarlo come un peluche e di trasmettergli nevrosi tu sia pure riuscita a estirpare da lui l’energia vitale.
Fidati: i soldi del papi, del ganzo, dell’amante, del servizio sociale, della pensione del nonno, di qualsiasi fonte provveda ad abbeverare il tuo egoismo e la tua ignoranza, finiranno. E a quel punto, ma te lo dico con tristezza, vedremo chi ride ultimo.
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