Sopraffatto
Sono stato qui solo per mezza giornata e sono già stato sopraffatto dal Giappone – in senso positivo.
Certo, resistere è inutile. Sul volo da Osaka a Sapporo ero l’unico occidentale. All’aeroporto di Sapporo ero l’unico occidentale. Sul treno dall’aeroporto al centro ero l’unico occidentale. Camminando per le vie del centro con i bagagli ero l’unico occidentale. Sulla metro per il centro conferenze ero l’unico occidentale. Insomma, almeno qui a Sapporo (immagino che a Tokyo sarà diverso) non c’è comunque scampo: sei obbligato a fare un bel respiro ed immergerti, e anche a beccarti ogni tanto qualche sguardo di sorpresa, come se d’improvviso nella via fosse apparso un orso polare.
Immergersi non è poi così difficile; per esempio, le terribili macchinette elettroniche vendibiglietti hanno in realtà anche il menu in inglese, e sono efficientissime: ho infilato dentro una di esse una banconota da 10.000 yen – circa 60 euro – e senza fare una piega mi ha stampato il biglietto e mi ha dato il resto ordinatamente diviso in una banconota da 5.000, tre da 1.000, e la moneta.
I giapponesi sono molto gentili; quelli che incontri normalmente – ovviamente alla conferenza è diverso – non parlano mai più di quattro parole di engrish, nemmeno quelli che lavorano all’aeroporto, ma sorridono e abbassano gli occhi. Ho il sospetto che il giapponese medio, più che disprezzare lo straniero, sia dannatamente timido, e con una notevole paura di “buttarsi” per evitare di fare brutta figura agli occhi del mondo, e quindi farla fare al suo paese. Per ora, rispondere al sorriso mi ha aperto tutte le porte, persino al temuto controllo immigrazione dove mi avevano detto che avrebbero fatto tante storie e che invece si è risolto in trenta secondi, naturalmente previa prelievo di foto e delle impronte digitali di entrambi gli indici.
Io sono un po’ nervoso a mia volta, avendo paura di mancare a chissà quale convenzione; ok, le mie calze sono quasi perfettamente intere e mi ripeto continuamente di non soffiarmi il naso, ma stavo per dimenticarmi di porgere il biglietto da visita con entrambe le mani!
Ieri ho completato il percorso aeroporto -> treno -> stazione -> piedi -> albergo -> check-in -> metro -> centro conferenze appena in tempo per aggregarmi al ricevimento serale, offerto dal sindaco di Sapporo. E’ stato un evento molto giappo, perché ad esso era associata la premiazione di un concorso per il miglior ristorante di sushi della città , con tanto di concorrenti, elegantissimi in vestito e cravatta oppure vestiti come i cuochi dei fumetti, che vengono chiamati sul palco a ricevere l’applauso e talora – a seconda della loro posizione gerarchica – a tenere un breve discorso, come il “presidente dei ristoranti taldeitali”; nemmeno i ristoranti possono scampare alla gerarchia con un presidente in cima.
L’assaggio finale di sushi c’era ma limitato, e in più non avevo voglia di andare all’assalto: mi sono quindi dedicato al resto del buffet, una serie di originali ricette che mescolavano cucina giapponese e internazionale, partendo da pesce e frutti di mare di ogni genere: una più buona dell’altra. Alla fine, in un angolo, ho trovato un roast-beef che si scioglieva in bocca e in più era condito con una salsa che ne rovescia l’essenza: è come se il roast-beef fosse fatto di rafano, e nonostante questo – e la conseguente urticazione della bocca – il risultato è ottimo! Idem per il calamaro scottato alla piastra, che all’esterno è carbonizzato e coperto di soia, ma solo per un millimetro – il resto è tiepido e cotto appena appena, davvero eccellente.
Ci siamo poi spostati in un vicino locale alla moda, una specie di discoteca-concerti, per il concerto: ed è stata un’altra immersione culturale. Avete presenti i film di Kitano? Ecco, noi siamo risaliti su per la via fino ad entrare in un elegante grattacielo con il pavimento di legno e i marmi alle pareti, nell’atrio del quale c’erano tre ascensori dalle pareti d’acciaio e di specchi, guardati a vista da due signori. Entrando, si sale fino all’ultimo piano, dove si esce direttamente nell’ingresso del locale: che è come fosse una media discoteca da noi, con il palco in fondo e l’angolo bar, un po’ come la sala sinistra dell’Hiroshima per capirci, ma sempre con marmi alle pareti e pavimento di legno lucido. In più, in un angolo, c’è la scala dalla quale si sale fino alla sala privata, una zona chiusa situata al piano di sopra rispetto al locale, ma con un’ampia vetrata che dà di sotto verso il palco: la classica stanza riservata con vista su tutto, dove il capo yakuza si incontra e viene poi sorpreso da Kitano o da qualche sicario nemico. Solo che Takeshi non si è fatto vedere; solo una tremenda performance di arte concettuale da San Francisco (40 minuti di luci e rumore che hanno messo a dura prova la resistenza di tutti) e poi un gruppo “ainu dub”, ovvero reggae suonato con costumi e strumenti tradizionali del posto.
E così, verso le dieci mi sono ancora fatto una passeggiata di un quarto d’ora attraverso il centro, per tornare all’albergo; anche questa mi ha colpito. Venivo dalle serate dublinesi, e così ho subito notato una serie di cose che sembravano strane:
1. Non piove e non fa freddo, anzi la temperatura è ideale, 18-20 gradi.
2. Ad ogni isolato c’è un piccolo supermercato aperto 24 ore su 24 – talvolta anche due per isolato, ma tutti delle stesse due o tre catene.
3. Il supermercato, in mezzo a interi armadi refrigerati di lattine di liquidi che non ho la più pallida idea di cosa siano e non lo voglio sapere, vende tranquillamente anche la birra.
4. Nonostante questo, per strada c’è folla ma non c’è neanche un ubriaco.
Così mi son preso coraggio: sono entrato nel supermercato, mi sono preso la mia bibita, ho aspettato che un cassiere mi gridasse “dos!” – che non è un sistema operativo ma “doozo” ovvero “prego” -, ho porto due monete da 100 yen, ho preso il resto stando ben attento a non guardarlo e ancora meno a contarlo – è grave maleducazione, è come dire che il cassiere è un ladro – e me ne sono uscito, a godermi delle insegne al neon così enormi che il ronzio si sentiva dalla strada, e delle luminarie così fantascientifiche che Times Square sta ad esse come gli addobbi natalizi della famiglia Simpson stanno a quelli della famiglia Flanders.
Insomma, pur avendo visto mezzo mondo, devo dire che il Giappone è forse il posto che mi è immediatamente sembrato più distintivamente diverso; pur essendo per molti versi una copia estremizzata degli Stati Uniti, così come per secoli lo fu della Cina, ci sono però elementi culturali totalmente alieni che ti sorprendono nei momenti più impensati. Il rapporto tra “noi” e “gli altri” diventa per i giapponesi quasi schizofrenico, perché da una parte si sentono un popolo superiore e baciato dagli dei, sin da quando la flotta di Kublai Khan, che li avrebbe schiacciati, fu spazzata via da un tifone; dall’altra però copiano ossessivamente i dettagli delle culture forti che incontrano, non solo cercando di rifarle ancora meglio, ma come desiderando di non essere se stessi: e quindi costruendo alberghi che sembrano castelli europei o grattacieli della Manhattan anni ’30, e supermercati con un brand da villaggio del Far West.
Spero di avere tempo di fotografare e pubblicare alcune di queste cose: sono spesso minuzie, ma ti danno il segno di un altro pianeta.
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31 Luglio 2008, 09:27
Manco dal Giappone da oltre 25 anni ma i miei ricordi sbiaditi coincidono col tuo racconto.
Mi dico (auguro??) spesso che il Giappone e i giapponesi devono essere cambiati in tutto questo tempo. O no? :-)
Se non lo fossero però, avrei qualche dubbio sulla loro timidezza e non disprezzo per lo straniero. Anche se forse “disprezzo” non è (era) la parola giusta.
31 Luglio 2008, 11:47
Sembra Lost in translation 2: il ritorno in giappone.
31 Luglio 2008, 13:36
sì, peccato che vb non sia Scarlett Johansson
31 Luglio 2008, 14:02
Uno dei liquidi è sicuramente succo di prugna.
Ma d’altra parte chi viene in Italia prima o poi si pone la domanda: “Ma che cosa sarà mai questo ‘Chinotto’?”