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Archivio per la categoria 'Life&Universe'


venerdì 3 Aprile 2009, 14:26

Ritmo

Oggi è la mia prima giornata di nuovo a Torino, e vederla dopo New York mi ha fatto impressione: tutto sembra fermo.

A New York le grandi avenue hanno quattro, cinque, sei corsie in un solo senso di marcia, e anche se gli ingorghi esistono eccome, i semafori sono tutti sincronizzati, e la massa di auto in movimento è sempre elevata. Stamattina ho preso corso Vittorio per andare in centro, e il viale era intasato: c’è un semaforo uno (quello all’angolo di via Morosini) che rimane inspiegabilmente rosso per dei minuti, anche se dalla traversa non passa mai nessuno, ed è sufficiente a impilare dieci auto che sono a loro volta sufficienti a bloccare l’incrocio di corso Inghilterra e intasare tutto; il sistema è talmente mal regolato da non reggere nemmeno dieci auto per volta.

A New York i pedoni sono frettolosi e indisciplinati; quando scatta il verde per le auto, lasciano esaurire l’ondata e poi passano col rosso, se necessario correndo. Da noi ci sono quelli che scrivono a Specchio dei Tempi per lamentarsi che il verde pedonale per attraversare corso Siracusa dura solo mezzo minuto, e alle volte gli tocca finire col giallo e a quest’idea gli viene tanta paura.

A New York non solo le scale mobili della metro (dove esistono, perché la struttura è davvero vintage: è ancora esattamente com’era cent’anni fa all’inaugurazione, solo scrostata e arrugginita) sono piene di gente che le sale e le scende di corsa mentre i pochi fermi stanno rigorosamente da un lato, ma ci sono avvisi luminosi e sonori che invitano a salire e scendere velocemente per non rallentare il passaggio degli altri viaggiatori. Da noi, le scale mobili della metro sono piene di gente stravaccata in modo da bloccare il passaggio, che si guarda attorno ed esclama stupefatta “Oooh! Si muove!”.

Vivere in una città tranquilla ha comunque tanti vantaggi; credo che Torino sia la grande città più vivibile d’Italia, e anche una delle più fascinose. Eppure, girando il mondo ti rendi anche conto di come qui le cose siano ferme a decenni fa, e che quel che qui ti sembra una grande conquista (dalla metro alla vita notturna) sia nel resto del mondo un minimo essenziale; e capisci meglio perché i torinesi espatriati e i visitatori stranieri apprezzino molto Torino, ma la vedano, in prospettiva globale, come una sonnolenta, marginale città di provincia.

[tags]torino, new york, città, ritmo[/tags]

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sabato 28 Marzo 2009, 23:06

La sottile linea rosa

Avendo il weekend da passare qui e la necessità di spostarsi da Boston a New York, mi è venuto naturale pensare di affittare una macchina e sfruttare l’occasione per vedere un po’ di New England, al di fuori delle città. Il problema è che, per gli standard turistici europei, nel New England non c’è molto da vedere; e così la scelta sul dove trascorrere il sabato notte si è ridotta alle sole tre zone veramente turistiche del Massachusetts, cioè Martha’s Vineyard, Nantucket e Cape Cod.

E dato che siamo in inverno, che la temperatura notturna è sotto zero e che i traghetti sono quasi tutti fermi, abbiamo eliminato le due isole. Quindi la scelta più logica è stata una sola: Provincetown, il capoluogo turistico di Cape Cod, situata proprio all’estremità del lungo arco peninsulare; il primo posto dove i padri pellegrini della Mayflower toccarono terra, prima di ripartire per stabilirsi a Plymouth.

Avrei dovuto però capire che c’era qualcosa di sbagliato in questo ragionamento, se non altro quando ho scoperto che nessun albergo permetteva la prenotazione online, perché erano tutti chiusi; non demordendo, sono passato alle guest house, ossia la versione americana dei bed & breakfast. E lì proprio avrei dovuto capire, dato che scorrendo i vari siti comparivano le facce sorridenti dei padroni di casa: Tim & Luis, Peter & Chuck, Rainer, Jürgen & Hans.

Ma, pur cominciando a sospettare, ancora non avevo ben realizzato l’estensione del problema. Mi sono fidato di TripAdvisor, per cui la migliore di 89 guest house era l’Oxford: e così ho prenotato da Trevor & Stephen, non dando particolare peso al fatto che il secondo sito da cui sono caldamente raccomandati, oltre a TripAdvisor, è PinkChoice.

Così siamo arrivati, siamo stati accolti benissimo, ci siamo sistemati in una stanza meravigliosa (d’accordo, 130 dollari a notte prezzo di bassa stagione, ma la casa è davvero splendida), siamo andati a fare un giro… Insomma, P-Town, come la chiamano qui, è una tranquilla cittadina di mare del New England (ma sembra la Scozia, con quella bella nebbiolina grigia che copre tutto e l’acqua del mare sciolta nell’aria e sparata dal vento) con la particolarità di essere abitata quasi esclusivamente da coppie gay di ambo i sessi. Sulla strada principale, ad elegantissime gallerie d’arte si alternano pornoshop assurdi, e quasi tutte le case espongono la bandiera arcobaleno invece di quella americana. Ed è un posto bellissimo, dove si respira libertà ad ogni angolo, tanto è vero che da tutto il mondo ci sono persone che mollano tutto e vengono a vivere qui.

Eppure, mi sono anche reso conto di come il venire da un paese omofobico e integralista cattolico come l’Italia ti segni in profondità: infatti, quando a cena siamo finiti in un caffé-ristorante che suonava disco music a manetta, dove i camerieri erano giovanotti del tipo ultra-macho e dove le coppie etero erano in netta minoranza – a fianco a noi c’erano due lesbiche di mezza età, lei genere camionista con i piedi appoggiati sulla panca dall’altra parte, intente a chiacchierare e ogni tanto a sbaciucchiarsi – mi sono comunque sentito sottilmente a disagio.

Non ci siamo abituati, perché da noi comunque i gay vivono abbastanza sotto traccia, ritrovandosi mediante segni chiari ma poco visibili al mondo degli etero (oddio, qualcosa sto imparando, visto che quando sulla strada ho visto l’insegna Ursie’s Restaurant ho subito capito di cosa si trattasse). Ogni buon bambino italiano cresce giocando a pallone ai giardinetti in mezzo a coetanei che usano “frocio” come un insulto, e queste cose, anche quando vanno via dalla testa, ti restano nei riflessi; ed è ben diverso provare, come succede da noi, la piacevole sensazione di essere aperti di mente nei confronti della rara coppia gay che incontri per strada o a una cena, rispetto alla sensazione naturalmente meno piacevole di essere tu la minoranza che deve farsi tollerare.

Come unico incidente, sulla spiaggia abbiamo avuto un piccolo incidente con una checca in vestaglia: insomma, alle volte il mix di aggressività maschile e suscettibilità femminile genera davvero dei comportamenti da caricatura. Ma sono appunto caricature: la realtà è ben diversa, ed è quella di un posto dove davvero si può vivere la propria sessualità senza problemi. Fa piacere quindi essere in uno di quei paesi più civili del nostro, dove i matrimoni tra omosessuali sono permessi ed equiparati a quelli tra eterosessuali.

[tags]viaggi, stati uniti, massachusetts, new england, cape cod, provincetown, omosessuali, gay, matrimoni[/tags]

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venerdì 20 Marzo 2009, 19:44

Ancora sulla libertà

Ecco, ho passato il pomeriggio a discutere per via del post di ieri – che comunque non ritratto, anche se effettivamente la censura può non essere lo strumento giusto, visto il rischio di abusi: sarebbe stato sufficiente un serio avvertimento prima del film e un divieto ai minori di 18 o almeno di 16 – come peraltro è stato in quasi tutto il mondo – invece che di 14 anni.

Però ci tengo a dire che da alcuni concetti mi dissocio: dall’idea che la libertà di espressione sia senza limiti, per esempio. Io sono ben contento che l’apologia di fascismo, nazismo e razzismo sia vietata; gli stessi Stati Uniti, patria del primo emendamento, sono comunque arrivate a vietare in modo talvolta fin ridicolo qualsiasi promozione o giustificazione del razzismo. Ritengo che il bene per la collettività derivante da questi divieti sia superiore al rischio per la collettività derivante dal loro potenziale abuso.

Credo che se siamo arrivati ad avere una società in cui i giovani, per divertirsi, danno fuoco a un barbone o girano i semafori per causare un incidente e poi riprenderlo col telefonino, è anche perché da qualche decennio passa questo messaggio: che non ci sono limiti, che tutto è permesso, che “sono solo parole” (finché non vengono messe in atto, e poi dal giorno dopo è “come è stato possibile, nessuno l’avrebbe mai immaginato”).

E l’educazione spetta sì ai genitori, ma è il risultato dei messaggi che passano ovunque, spesso con mezzi di comunicazione che hanno un potere di impressionare e di persuadere molto superiore a quello di qualsiasi genitore; il cinema tra questi. E’ responsabilità di tutti noi lavorare per una società pacifica, dunque è irresponsabile e immorale proporre “solo parole” e “solo immagini” che presentino la violenza come normale, accettabile, esteticamente bella, simbolo di superiorità (di prevaricazione) anche se praticato dai “buoni” sui “cattivi”; tanto più quando è violenza gratuita, eccessiva, ingiustificata – perché i “supereroi” di Watchmen non si limitano a catturare i cattivi, si divertono a torturarli e ad ammazzarli in modi atroci per aumentare l’incasso al botteghino.

Scusate dunque se ho disturbato per un attimo il festino generale a base di donne mercificate con tette e culi ovunque, di guerre e ammazzamenti passati a ciclo continuo finché non fanno più alzare nemmeno un sopracciglio di indignazione, di sfruttamento senza limiti degli animali e della natura, di croci celtiche ed ex bravi ragazzi di Salò pensionati a spese nostre, e soprattutto di esseri umani persi in un relativismo totale, senza più scopi né ideologie né fedi se non quella di drogarsi di emozioni che svaniscono in un momento, lasciando soltanto il desiderio di provare la volta prossima qualcosa di più forte, di più nuovo, di più realistico; dimenticando che la realtà è innanzi tutto dentro di noi, e che la realizzazione personale non può che passare da una piena relazione con gli altri, che necessariamente implica una limitazione della propria libertà.

[tags]libertà, etica, morale[/tags]

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mercoledì 25 Febbraio 2009, 15:39

Dieci minuti fermo

Mi è successo ieri sera di trovarmi per dieci minuti fermo, ad aspettare, all’uscita di Milano Cadorna; in un angolo tra la stazione e la metro, proprio ai bordi del maggiore flusso di pendolari in esodo dalla città.

Non sarà come a Tokyo, ma il flusso in quel punto è davvero intenso; è un’esperienza interessante mettersi di lato e osservare le persone che camminano correndo. In qualche caso sono in gruppo, ma quasi tutti sono soli; si stanno spostando dal circolo sociale del lavoro a quello della famiglia, e nel mezzo sono in un non-stato. Pochi, infatti, sembrano aver l’aria di starsi godendo il viaggio, o di essere intenti a qualcosa; la maggior parte sembra soltanto intenta a non essere intenta a niente, se non a far passare il tempo e lo spazio.

Al non-stato corrisponde un non-luogo; e quelle poche decine di metri tra l’uscita dagli inferi della metro e i tornelli delle Nord devono essere il non-luogo più frequentato di Milano. Non so quanti tra coloro che passano ogni giorno di lì saprebbero descrivere il pavimento o le pareti, se non con una sensazione di indistinto grigiore.

Eppure ogni persona che passa è singola e diversa dalle altre; ha una storia, una identità, delle aspirazioni, delle emozioni. E’ in rapporto con altri e li definisce, così come loro definiscono lei. In queste situazioni, tuttavia, non siamo più individui, ma siamo soltanto utenti; utenti dei trasporti e della vita. L’identità non ci serve, anzi complica soltanto le cose, e già differenziare i biglietti per età e professione è una usanza ormai quasi perduta. E’, forse, la forma suprema di uguaglianza sociale; ciò nonostante, è anche piuttosto inquietante.

[tags]milano, cadorna, trasporti, pendolari, folla, persone, identità, società[/tags]

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martedì 10 Febbraio 2009, 09:57

M & F

Questa – quella di questi giorni a Bricherasio, in provincia di Pinerolo – è una storia triste e ancora parzialmente avvolta dal mistero, anche se ormai, salvo ulteriori colpi di scena, le cose sembrano chiare. Nonostante lo scalpore, però, è una storia archetipale e per questo merita una descrizione archetipale, senza nomi – anche per rispetto alle persone coinvolte – e soltanto come simbolo.

La storia si svolge in un paese di provincia medio, tra persone medie: né belle né brutte, né geniali né stupide, né ricche né povere. Anche la loro età è media, tra i trenta e i trentacinque anni, proprio a metà del cammin di nostra vita: il momento in cui tutti i nodi del nostro essere vengono al pettine.

M1 e F1 sono sposati; lei è molto innamorata, tanto che per sposarlo, tanti anni fa, ha persino interrotto gli studi e si è messa a fare la colf. Lui, pare, lo è di meno: tanto è vero che la maltratta regolarmente, almeno a parole. Un anno e mezzo fa, quando il loro bambino ha circa sei anni, i due si separano; stando ai racconti, come spesso accade, è la persona più coinvolta a dire basta, stanca di dare senza ricevere, ma allo stesso tempo è anche la più distrutta. Lui si fa la sua vita di operaio, lei continua a vivere nella villetta di famiglia, con il bambino, ma è devastata: antidepressivi, psichiatri e così via.

Il tutto viene aggravato dagli inevitabili strascichi della separazione: la villetta bifamiliare in cui vivevano era stata comprata dai genitori di lui, un appartamento per M1 e un altro per suo fratello, ma il giudice l’aveva lasciata a lei; il fatto che la ex moglie resista nella villetta provoca screzi tra le famiglie, tanto che il fratello di M1 lucchetta l’appartamento e va a vivere da un’altra parte e che M1 fa storie per pagare gli alimenti, definendo esagerate le pretese della ex. Fossimo in Africa, ci sarebbe già pronto un consiglio degli anziani per dirimere la questione e consolare gli afflitti; da noi c’è solo qualche chilo di carte in un tribunale di periferia.

Dopo un anno e mezzo, F1 è ancora innamorata dell’ex marito, anzi, stando ai racconti delle amiche, spera ancora che lui ritorni da lei, naturalmente però cambiato, più buono e più affettuoso. Comunque, comincia a frequentare M2, non si sa con quanta convinzione, visto che non lo presenta a nessuno; probabilmente la situazione è rovesciata, M2 è innamorato ma per F1 è solo un inutile tentativo di riempire un buco. Il buco è tanto doloroso che in questi mesi F1 continua a frequentare M3 e F3, sposati, con quattro figli; lui è un grande amico dell’ex marito, e forse lei spera che possa intercedere per farlo ritornare da lei. Domenica primo febbraio, tutta la famigliola va a pranzo da F1, nella villetta.

Il martedì pomeriggio, F1 sparisce, in mezz’oretta di buco nero tra l’acquisto in panetteria di un cannolo per il bambino e l’orario di uscita da scuola, dove stava andando a prenderlo. Il sabato viene trovata morta, uccisa, nel bosco dietro il paese. La sua macchina è più giù, probabilmente è stata uccisa durante una passeggiata o un incontro riservato al limitar del bosco, e magari caricata su un’auto per portare il cadavere più lontano.

Cominciano quindi le ipotesi: si pensa a una vendetta dell’ex marito, ai litigi tra le famiglie, a possibile gelosia tra M2 e M1. Anche queste sarebbero situazioni archetipali, ma troppo semplici. La svolta avviene molto in fretta, quando gli inquirenti si accorgono che, nelle stesse ore dell’omicidio, M3 ha denunciato l’incendio della sua auto, con un racconto però incompatibile con i fatti e con i vigili del fuoco. Ma non fanno in tempo: M3 si uccide lasciando un biglietto che dice “non sono stato io”.

M3 è il classico padre di famiglia, marito modello, dedito ai figli, gran lavoratore e così via. A differenza di quella di F1, la sua sarebbe una vita perfetta e infatti tutti sono stupiti, sconvolti, del suo suicidio. Ma l’ipotesi – che, va detto, è per ora solo una ipotesi, e potrebbe ancora rovesciarsi – è che, mentre F1 frequentava M3 per chiedergli di intercedere con l’ex marito, M3 frequentasse F1 perché ne era segretamente innamorato, o perlomeno attratto. Sono due esigenze inconciliabili; forse F1 era troppo presa dal suo ex marito per accorgersi che l’aiuto di M3 non era disinteressato. O forse F1 aveva ascoltato troppe canzoni, e pensava che davvero M3 fosse talmente succube di lei che, per amore, avrebbe convinto il suo ragazzo a ritornare da lei. E’ caratteristica dell’attrazione ossessiva, che solo per errore chiamiamo amore, di restarsene a covare per anni, nascosta sotto la cenere; poi, quando l’occasione attesa finalmente si presenta e però la speranza viene frustrata, esplode di colpo con lucida follia, lasciando sul tappeto due morti e cinque orfani.

Messa nelle mani di uno sceneggiatore di San Paolo del Brasile, sarebbe una perfetta telenovela brasiliana. In Italia, le femministe diranno che gli uomini dovrebbero tagliarsi l’uccello, e i maschilisti diranno che le donne si innamorano solo degli stronzi e portano alla pazzia gli uomini gentili. Queste sono verità, ma sono parziali; perché se due torti non fanno una ragione, esistono anche situazioni come questa, dove due ragioni fanno un torto.

La natura è interessata solo a riprodursi; per questo, cinicamente, ci ha dotato di un sistema biologico a orologeria, che parte con un istinto incontenibile di concedersi a un semisconosciuto; l’istinto è necessariamente fortissimo, perché deve vincere il pudore, la paura e l’enorme rischio di presentarsi nudi di fronte a qualcuno che in realtà non si conosce. L’istinto dura quel tanto necessario per accoppiarsi, mettere al mondo il bambino e svezzarlo; dopodiché, trascorsi un paio d’anni, naturalmente finisce, perché è interesse della natura che le due persone si lascino e si accoppino con altri esseri umani, in modo da moltiplicare la diversità genetica e con essa l’evoluzione.

Da un diecimila anni a questa parte, l’umanità ha però creato una società basata su criteri diversi; una società talmente complessa per cui è utile, quasi necessario che i bambini vengano accuditi da entrambi i genitori ben oltre lo svezzamento, e che le due persone restino insieme molto più a lungo, anche perché la vita da soli è praticamente, economicamente e affettivamente molto più difficile che per i nostri antenati delle caverne. Tutto questo, però, è profondamente innaturale, e porta alla repressione del nostro naturale istinto all’accoppiamento distribuito e al cambio ciclico del partner.

Aggiungiamoci la difficoltà di diventare adulti in un ambiente artificialmente protetto, e un pizzico di alienazioni, frustrazioni, insicurezze indotte: ecco che i rapporti tra M e F diventano facilmente miscele amare e potenzialmente esplosive.

A meno che non si prenda atto che, in queste faccende, l’istinto è tanto fondamentale quanto devastante; e che è obbligatorio che siamo noi a capire quando lo si deve lasciare libero, e quando invece bisogna relegarlo.

Peccato che, quando l’istinto è troppo forte, relegarlo diventi impossibile.

[tags]amore, attrazione, rapporti di coppia, omicidi, uomini, donne, bricherasio[/tags]

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mercoledì 4 Febbraio 2009, 11:59

Tradimento e terrore

Oggi sono di nuovo a Milano, e le differenze mi straniscono; e non parlo solo del fatto che qui chiamano i bus al femminile.

Per esempio, a Torino c’è Lidl, ma qui c’è LD: la catena di discount del signor Lombardini. (C’è anche a Torino, ma non vicino a casa.) E così, ho dovuto tradire ed entrare in un altro discount.

L’esperienza è inquietante: ci sono tutte le stesse cose, ma leggermente diverse. Hanno tutte lo stesso aspetto anonimo, ma sono più anonime di quelle che conosci bene dopo anni di frequentazione del Lidl; e sono disposte in modo simile, ma un po’ diverso. E così sei privo delle tue certezze: devi ricominciare a trovare, provare, scoprire, valutare.

A parte questo, LD mi è piaciuto: quel che ho provato finora era di qualità assolutamente decente, e i sughi sono addirittura buoni. I prezzi sono abbastanza equivalenti a Lidl, qualcosina un pelo meno, qualcosina un pelo più. La birra, per esempio, costa di più; i biscotti al burro decisamente di meno. Ci sono anche alcune cose che a Lidl mancano molto, tipo le lenticchie precotte in lattina o una birra dunkel che non abbia un sapore dolciastro (ma qui, ne converrete, sono esigente). In generale, essendo una catena italiana, è più forte sui prodotti nostrani e meno sul genere crucco-etnico-internazionale.

C’è però, in questa casa di Milano, un grosso problema: non c’è né l’ADSL né la televisione. Per l’ADSL io sopperisco temporaneamente con un cellulare GPRS, tanto ci vengo un giorno a settimana. Ma mi sono reso conto che l’assenza della televisione mi angoscia, e mi ritorna in mente come un tarlo a intervalli regolari.

E dire che io non guardo poi molto la televisione; se mai sono dipendente dal PC. Tuttavia, la mancanza dell’ADSL mi preoccupa di meno; sono abituato ad avere dei periodi offline anche lunghi. La mancanza della televisione, invece, è una sensazione completamente nuova: per tutta la mia vita, in casa mia c’è sempre stata una televisione accesa. Nei periodi di solitudine, quando ti annoi e non sai cosa fare, puoi sempre premere un rassicurante bottone e ricevere degli stimoli audiovisivi, e anche se non li guardi almeno ti fanno compagnia. Quando sei con altri, e nessuno sa cosa dire, si può sempre guardare qualche cosa in TV. E se non sai come riempire la serata, ci puoi aggiungere un bel lettore DVD. Anche ripensando al passato, faccio fatica a ricordare un pasto senza la televisione accesa (cioè, ce ne sono sicuramente stati, ma erano meglio quando c’era la televisione accesa).

E’ comunque strano, perché non sono certo una persona passiva; sono preso in tonnellate di progetti, hobby, discussioni, e poi ogni tanto leggo, ogni tanto scrivo, ogni tanto prendo e vado a fare un giro in bicicletta, o, se mi trovo fuori casa, vado ad esplorare il posto. Ma l’idea di non avere lì, a portata di mano, un comodo pulsante per entrare in modalità riempitivo mi terrorizza davvero.

[tags]milano, discount, lidl, ld, televisione, adsl, dipendenza[/tags]

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mercoledì 31 Dicembre 2008, 14:19

Capodanno

Vi state preparando a festeggiare il Capodanno? Naturalmente sì: è una di quelle feste comandate in cui bisogna per forza fare qualcosa. Non è necessariamente un caso negativo; in genere è l’occasione per farsi una bella mangiata con un po’ di amici (so che c’è anche gente che festeggia andando a dimenarsi in locali e capannoni vari, ma da quello mi sono sempre tenuto ben lontano).

La situazione può diventare pesante solo se si finisce nell’inevitabile festa degli avanzati: quelli che al 29 dicembre non hanno ancora combinato niente e si fanno però prendere dalla frenesia del non restare soli con la donna di picche in mano. A quel punto tutti gli avanzati si mettono insieme, e nascono incroci improbabili tra gente che non si vede da mesi, talvolta da anni; in quel caso la serata può anche virare verso la malinconia che inevitabilmente tutte le feste forzose generano in noi.

Quest’anno, comunque, io ho optato per qualcosa di diverso: dieci giorni di ritiro di coppia a Diano Marina. All’inizio avevo un po’ di timore, visto che è da quando ho compiuto diciott’anni che non trascorro una serata di Capodanno con meno di otto persone; anzi, il mio primo Capodanno di gruppo fuori dalla famiglia – a Bardonecchia con la classe del liceo – fu uno dei momenti che segnarono la mia transizione verso l’età quasi-adulta. Invece sono proprio contento, perché il mare ispira (specie quando si hanno tutta una serie di articoli arretrati da scrivere) e il riposo è assicurato, così come una controllata enfasi mangiatoria.

Effettivamente, questo è l’unico periodo dell’anno in cui la Liguria recupera un po’ della sua originaria bellezza; non oserei mai avvicinarmi alla Riviera di Ponente in agosto, pur avendoci trascorso buona parte dele mie estati da bambino. Dal balcone del monolocale in cui stiamo – in un ex albergo anni ’50 ristrutturato in appartamentini, con quel magico sapore di cemento invecchiato e di fasti trascorsi che caratterizza sempre la Liguria – c’è una vista spettacolare; e anche la passeggiata fino in centro, per i rifornimenti di focaccia, è della lunghezza giusta.

Diano Marina è piuttosto piena di gente, anche se spesso ti trovi in mezzo a decine di persone e realizzi improvvisamente che siete gli unici sotto i cinquant’anni… ma questo ha anche i suoi vantaggi, per esempio nelle lunghe code alla focacceria ogni tanto si guadagna qualche posizione perché a qualcuno dei vecchietti prima di te cede la prostata. C’è comunque anche qualche famigliola con bimbi piccoli, anche se dall’accento sembrano quasi tutti locali. L’unità economica di Diano è il diecieuro, non esiste niente che costi di meno; ma basta prendere la macchina e andare nei discount della vicina Oneglia.

Insomma, le cose procedono bene, ragion per cui metto in frigo il mezzo chilo di paste in due (da unirsi a un pandolce e un panettone) e vi auguro buon anno.

[tags]auguri, capodanno, feste, liguria, diano marina[/tags]

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giovedì 25 Dicembre 2008, 09:16

Il Natale della persona desiderata è momentaneamente irraggiungibile

Ehi, tu! Vorresti trovare anche qui un post pieno di auguri, di speranza, o magari di riflessioni sul valore profondo del Natale. E invece nulla di tutto questo! Certo, puoi rimediare parzialmente rileggendoti i pipponi del Natale 2006 e del Natale 2007, ma ti garantisco che non sarà la stessa cosa.

Infatti, parliamoci chiaro: il 2008 è stato un anno del cacchio, ma non è niente rispetto a ciò che ci attende nel 2009! Nonostante tutti i grandi della Terra si affrettino ad implorarci di continuare imperterriti nel nostro produci consuma crepa, una generale sfiducia nel futuro genera sintomi diffusi ed evidenti: isteria, aggressività, rimozione dei problemi, temerarietà, apatia. E’ la sindrome da l’anno nuovo sarà sicuramente peggio, e quindi i centri commerciali straboccano di gente angosciata per gli ultimi regali da comprare, e di cassiere svaccate nella loro fiera nullità oppure pronte ad esprimersi finalmente in un giorno di ordinaria follia.

Il Natale è la festa della nascita: che senso ha festeggiarlo stando in un presente che non è affatto di letame ma piuttosto di diamanti, proprio quelli da cui non nasce niente? Imperliamoci di gadget tecnologici, oberiamoci di cenoni, produciamo altro rifiuto su cui sederci (in primis, rifiuto di cambiare). Celebriamo il rito e poi andiamocene affanculo sul nostro Titanic planetario, ma non pretendiamo di vedere la rinascita dove c’è solo ostentata decadenza. Buon Natale, al massimo, se lo dicano quelli che hanno già cambiato vita; quelli che già esistono in armonia col tutto e con il grande flusso luminoso dell’essere.

A noi che stiamo ancora qui, alla deriva nel vuoto sul jet Occidente dalle tendine degli oblò rigorosamente abbassate, si possono al massimo portare gli “auguri di stagione”, come fanno gli americani: che il modo migliore per non offendere nessuno è candeggiare ogni valore, e cercare la vita nella materia invece che nella mente.

E quindi, buoni auguri di stagione a tutti: con tutto il gusto pieno del nostro cibo industriale, in attesa della purga che ce ne libererà.

[tags]natale, auguri, occidente, consumismo, tempi che corrono, cccp[/tags]

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mercoledì 17 Dicembre 2008, 13:52

Frigo

Alle volte, anche una frase è sufficiente per dire tante cose, per far capire qual è la mentalità che la genera e che non viene esplicitamente detta, ma traspare dai pensieri che vengono naturalmente a chi scrive e che si trasformano in testo.

La frase che oggi mi ha colpito è in questo articolo di cronaca de La Stampa, che racconta le vicissitudini dovute al maltempo sulle montagne coperte di neve. E’ indubbiamente vero che quest’anno – e direi, finalmente – abbiamo un inverno eccezionalmente nevoso: la stagione non è nemmeno cominciata e sulle montagne abbiamo già metri di neve.

E così, il giornalista scrive che in diverse zone montane del Cuneese sessantamila persone sono senza elettricità, col rischio di rimanervi per un paio di giorni. Senza corrente, prosegue, quei paesi “piombano in condizioni settecentesche. Anche per questo la domanda di generatori si è impennata, e chi ne ha uno benedice il momento in cui l’ha comprato. Se non altro salva la spesa, accumulata in frigo.”

Dunque, ho capito che ormai per molti la natura è un fattore estraneo ed ostile da cui difendersi (l’articolo è classificato in “l’assalto dell’inverno”, come se ce l’avesse con noi), ma analizziamo la situazione: tu sei in montagna, senza elettricità, bloccato in casa dalla neve. Il tuo drammatico problema è che il latte e la carne che hai in frigo andranno a male (e questa passiamogliela ancora, dato che si suppone che il riscaldamento, che sia via caminetto, via stufa o via caldaia a gasolio, non dipenda dall’elettricità; per il cibo, esistono le scorte; e per la luce esistono tuttora le candele). E la soluzione qual è?

Comprare un generatore di elettricità, presumibilmente a gasolio, un oggetto che fa un rumore e una puzza pazzeschi, per metterlo in funzione allegramente, grazie a carburante derivato dal petrolio che ha dovuto viaggiare per mezzo mondo per arrivare fino in Valle Maira, il tutto per alimentare il tuo frigo?

Quando il problema che stai cercando di risolvere è che fuori dalla finestra hai da uno a quattro metri di neve, che naturalmente – anche supponendo, cosa tutta da dimostrare, che la semplice temperatura ambiente all’esterno salga sopra i quattro gradi del frigorifero – al proprio interno garantisce una temperatura ben al di sotto di quella del frigo?

E tu non solo trovi questa geniale soluzione del generatore e del gasolio, ma ti freghi le mani tutto contento dicendo “guarda come son stato furbo, per fortuna che l’ho comprato”?

Io spero vivamente che la colpa di questa uscita sia di un giornalista cittadino: perché se veramente le nostre valli si stanno riempiendo di generatori a gasolio con cui, persino quella volta a decennio in cui manca l’elettricità, spendere soldi ed energia per raffreddare un metro cubo del proprio appartamento, rispetto alla calda temperatura interna generata spendendo contemporaneamente altri soldi ed energia, invece di infilare semplicemente un sacchetto con carne e uova dentro i due metri di neve che hai sul balcone o di mettertene una badilata nella vasca da bagno, mi pare che siamo decisamente alla follia.

[tags]clima, energia, montagna, generatori, petrolio, elettricità, frigorifero, maltempo, neve, cuneo, cuneesi, cuneesi geniali, uomini di mondo[/tags]

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martedì 2 Dicembre 2008, 14:29

Torino nera

Per carità, qui siamo amanti della scienza; ma questa notizia ha dell’incredibile. Apparentemente è un triste episodio di cronaca: in via Po, all’angolo con piazza Vittorio, un disabile improvvisamente perde il controllo della propria auto, che sbanda e finisce sul marciapiede, sotto i portici, travolgendo i tavolini del dehors di un bar e quasi uccidendo una ventenne. Il guidatore non si capacita e non sa spiegare come sia successo.

La cosa inquietante è che il luogo e il bar sono esattamente gli stessi dove poco più di un anno fa un folle depresso, credendo di scorgere seduto a prendere un caffé l’odiato capoufficio, aveva diretto l’auto sul marciapiede, sotto i portici, travolgendo gli stessi tavolini e quasi causando una strage.

Naturalmente, voi che non usate le biopalle penserete a una semplice coincidenza; noi torinesi, invece, sappiamo che qui il diavolo è di casa, e alle coincidenze non crediamo. Se volete, lanciatevi pure in uno studio scientifico su come il particolare colore dei tavolini di questo bar, accoppiato alle forme geometriche dei portici, spinga irrazionalmente i guidatori d’auto a dirigervisi contro a tutta velocità; nel frattempo, noi cominciamo ad attrezzarci perché, in caso di ulteriori fenomeni, l’intero edificio venga prontamente trasportato a Lourdes.

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