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Archivio per la categoria 'NewGlobal'


sabato 8 Novembre 2008, 15:45

Imbecilli

Ieri, mentre tornavo dal Cairo, mi è capitato in mano l’International Herald Tribune, ossia la versione internazionale del New York Times: più o meno il più prestigioso quotidiano del pianeta.

La prima pagina e molto spazio all’interno erano dedicate al rapporto OCSE che sembrerebbe suggerire che, quest’agosto, la Georgia si è inventata di sana pianta i presunti attacchi da parte dell’Ossezia per poter cominciare a bombardare la capitale separatista, e che i russi sono intervenuti soltanto dopo che alcuni loro soldati sono stati uccisi nel bombardamento; suggerendo quindi che chiunque nell’amministrazione Bush abbia dato credito al presidente georgiano Saakashvili è stato quantomeno leggero.

Comunque, in terza pagina a margine, c’è un articoletto sull’Italia. Tenete presente che io ero all’estero e non ho quindi assistito dall’interno alle polemiche sull’ultima uscita di Berlusconi; l’ho appresa da questo articolo. Mi sembra quindi interessante riportarvelo qui, tradotto per intero, in modo che sappiate qual è l’immagine che hanno di noi nel mondo, depurata di tutte le manovre e di tutto il sensazionalismo dei media italiani; sperando che ammiriate il sarcasmo anglosassone della conclusione, che ironizza sottilmente su Berlusconi con le sue stesse parole.

SOLO UNO SCHERZO PER BERLUSCONI

MOSCA. Il primo ministro dell’Italia Silvio Berlusconi giovedì ha descritto il Presidente eletto Barack Obama come “giovane, bello e persino abbronzato”.

Berlusconi è sembrato prendere in giro il primo presidente nero d’America durante una conferenza stampa a seguito di un incontro con il presidente russo.

Il leader italiano, che ha una lunga storia di osservazioni controverse, ha ricevuto da un reporter una domanda sulle prospettive per le relazioni tra Stati Uniti e Russia, che sono sprofondate negli ultimi mesi.

Berlusconi ha risposto dicendo che la relativa giovinezza del presidente russo, Dmitri Medvedev, 43 anni, e di Obama, 47 anni, dovrebbe rendere più facile lavorare insieme per Mosca e Washington.

Quindi ha detto, sorridendo, di aver detto a Medvedev che Obama “ha tutto ciò che serve per fare affari con lui: è giovane, bello e persino abbronzato”.

Agenzie di stampa riportano che Berlusconi ha successivamente difeso il commento, definendo l’affermazione “un gran complimento”.

“Perchè la prendono come qualcosa di negativo?”, ha dichiarato a Mosca secondo l’agenzia stampa ANSA. “Se hanno il difetto di non avere il senso dell’umorismo, peggio per loro.”

Più tardi, Berlusconi ha dichiarato a Sky TV – 24 Ore che il commento voleva essere “carino”, e ha frustato verbalmente coloro che non la vedono in questo modo, definendoli “imbecilli, di cui ce ne sono troppi”.

[tags]italia, berlusconi, obama, medvedev, russia, ossezia, georgia, stati uniti, imbecilli[/tags]

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martedì 4 Novembre 2008, 13:10

Bloggare in Egitto

È istruttivo notare come Internet cambi le cose in quei paesi ancora persi nel mezzo della Storia, che non sono nè compiutamente democratici nè totalmente dittatoriali. Da una parte è necessario rispettare le usanze e le culture delle varie parti del mondo, anche quando esse prevedono la disapprovazione sociale per chi sfida l’ordine costituito; dall’altra, non si può permettere che questa disapprovazione degeneri in imprigionamento, esilio, morte.

Per questo motivo trovo istruttivo riportarvi questo video sul bloggare in Egitto, sperando che tra qualche anno non se ne debba vedere uno analogo con la nostra faccia dentro.

[tags]egitto, internet, censura, blog, libertà di espressione, diritti umani[/tags]

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giovedì 16 Ottobre 2008, 12:25

Melanzane

Ci sono cose che non sapete: almeno questo, penso che lo sappiate. L’entità effettiva di ciò che non sapete, tuttavia, è molto, molto, molto maggiore di quel che sapete di non sapere.

Purtroppo, quando ti dicono qualcosa che sulle prime sembra incredibile e ti giurano che è vero, tu non hai molti mezzi per decidere se crederci o meno; o ti fidi di chi ti sta parlando (e spesso sbagli) oppure l’unico strumento è controllare le fonti. Internet aiuta molto a trovare fonti, ma d’altra parte aiuta molto anche a creare ad arte fonti manipolate e a farle sembrare credibili. Di conseguenza, potremmo essere molto più manipolati di quello che crediamo.

Per esempio, sarà vero che gli Stati Uniti nel 1991 hanno lanciato una bomba atomica sull’Iraq, la terza della Storia? A suffragio di questa teoria, Maurizio Torrealta di RaiNews24 (giornalista ex santoriano di ferro) ci presenta un video di un veterano e alcuni dati registrati dai medici e dai sismografi. Noi non abbiamo alcun modo di sapere se il tizio nel video sia davvero un veterano, e in questo caso se sia credibile o se sia un pazzo furioso; e se i dati scientifici siano veri, e dicano veramente ciò che ci dicono che vogliono dire.

Personalmente, non ho alcun dubbio che l’esercito americano non si farebbe problemi a usare bombe atomiche se lo ritenesse necessario; ma siamo soltanto al livello della verosimiglianza, che non implica certo la verità.

E quindi, boh: io vi ho linkato la notizia, fate vobis; tanto l’unica soluzione sarebbe vedere coi vostri occhi. Ma persino in quel caso, se tornaste indietro raccontando di aver visto qualcosa di davvero inaspettato, nemmeno i vostri amici vi crederebbero.

P.S. Per completare l’atmosfera matrixiana, ho deciso di copiare Beppe Grillo e di aggiungere un P.S. che non c’entra niente, invece di fare un nuovo post. Oggi vi segnalo una delle rare – e proprio per questo meritevoli – petizioni sensate che ho visto girare (e che ho firmato) sul tema dei ricercatori precari dell’università. Ah, e attenzione: le melanzane sono appassite. Ripeto, le melanzane sono appassite.

[tags]verità, giornalismo, bomba atomica, nucleare, stati uniti, iraq, desert storm, rai, torrealta, grillo, beppegrillo, università, melanzane[/tags]

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mercoledì 15 Ottobre 2008, 11:56

Me ne frego

Commento postato ieri mattina sul blog di Flavia Amabile che denunciava i tagli alla scuola pubblica:

“Come al solito, si carica sempre + di lavoro chi gia’ fa e da’ alla scuola e chi non fa un tubo ,prendera’ solo lo stipendio, vedrete, xche’ non si fanno tante belle sezioni in cui i bambini stranieri possono imparare bene l’italiano,la storia, la cvilta’ italiana, ma so gia’ che tanti “amici del blob storceranno il naso,guai e l’integrazione? si, ma x quella i nostri figli rimangono indietro nei programmi xche’ bisogna aspettare loro,bisogna far andare alla pari loro, gli stranieri, prima loro e poi noi, anche chi ha dato un pugno al prof, chi era di origine dominicana, puo’ succedere anche con un italiano, ma li’ ci si mettono di mezzo anche i genitori,sempre a proteggere i figli ,e magari a menare loro i maestri,come e’ successo ad una maestra nostra ,assalita da una madre rumena a schiaffoni e poi ,vai a lamentarsti se riesci,e sa la signora non capisce la linua italiana, si e’ confusa, ma quando vogliono capiscono bene tutti i loro interessi, le agevolazioni che ci sono solo x loro in italia, tutti i soldi che diamo loro, tutto gratuito e io pago…. italiani scemi,dicono loro e hanno ragione, ma qualcuno non la pensa cosi’ e combattera’ finio alla fine x ideali italiani,anche se soccombera’ xche’ sono davvero troppi e si riproducono sempre +( basta guardare due mussulmane in giro,in media ci sono circa 5 o 6 figli e se li devo mantenere io ,mi girano alquanto,cioe’ li mantiene la societa’ italiana xcon tutti i giavamenti che hanno. mi direte che sono razzista ma chi se ne frega? non ho mai ammazzato nessuno io, o stuprato ,non sono mai andato a rubare ai vecchi, non ho mai guidato ubriaco e ucciso un passante ignaro. si puo’ succedere anche ad un italiano ma sembra + grave e uno straniero che ci odia puo’ noi no,noi in casa nostra, si badi bene, non possiamo +”

scritto da gio’64 14/10/2008 11:11

Che questo signore o signora di 44 anni la pensi così, scrivendolo come in un SMS, non è strano: basta girarsi un po’ attorno per accorgersi che commenti come questi sono frequentissimi, e che l’odio per gli stranieri è un sentimento diffuso, specialmente in persone abbastanza vecchie da poter rimpiangere l’era in cui “qui eravamo tutti italiani”, ma abbastanza giovani da non aver goduto dell’età in cui eravamo tutti ricchi. Quello che però mi ha colpito è l’espressione “me ne frego”: me ne frego dei giornali e delle istituzioni che dicono che il razzismo è male, me ne frego della disapprovazione sociale che mi aspetto per chi non è di sinistra o è razzista (questa confusione è aiutata dal fatto che i primi a farla sono spesso quelli di sinistra) e me ne frego persino delle leggi, in cui non credo più e anzi che vedo solo come uno strumento di vessazione al servizio di “quelli là”.

Si arriva così al caso estremo di questa signora; ma quanti in cuor loro troverebbero giusto comportarsi allo stesso modo, solo che hanno paura delle conseguenze sociali sopra esposte? Per questo il crescente “me ne frego” è preoccupante: è come se, lasciata crescere all’infinito senza mai affrontare né gli oggettivi problemi di criminalità legati all’immigrazione, né l’uso sconsiderato di termini e comportamenti razzisti da parte di politici e pubblici personaggi, la rabbia abbia ormai superato il livello sotto il quale può essere controllata grazie alla pressione sociale di chi sta attorno. Se è così, presto la vedremo scoppiare.

[tags]italia, razzismo, intolleranza[/tags]

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domenica 12 Ottobre 2008, 12:17

Denaro e fiducia

Quando Barbara Spinelli scrive, raramente si capisce che cosa, stringi stringi, ella voglia dire. Questo è il caso anche dell’editoriale di oggi sulla Stampa, che però, al tempo stesso, è molto bello in tutta una serie di richiami: primo fra tutti il legame tra denaro e fiducia, tra denaro e fede di cui parlavamo l’altro giorno.

Io credo peraltro che vi sia un legame chiaro tra la crisi di questi giorni e l’affermarsi nell’ultimo decennio dell’economia dell’immateriale: c’entra il fatto che sempre più la “ricchezza” è fatta di prodotti intangibili, che da una parte possono essere prodotti e venduti con margini altissimi e ancor più alte aspettative borsistiche, gonfiando molto velocemente la ricchezza monetaria, e che dall’altra non fanno aumentare la ricchezza concreta, quella che si tocca con mano, fatta di materia e/o di lavoro ed ingegno, quella che cambia la qualità delle nostre vite. La distanza tra i due concetti di ricchezza è secondo me una delle cause dell’ampiezza crescente e imperscrutabile delle onde finanziarie, e del distacco apparentemente incomprensibile tra denaro e realtà.

Quando ti dicono che “oggi le Borse hanno bruciato una ricchezza pari al PIL degli Stati Uniti”, infatti, tu ti chiedi: ma di che ricchezza parlano? Mica nella notte sono scomparse in un puff! case, automobili, scorte di cibo e riserve di gas e petrolio. Allora che ricchezza è, questa che esiste soltanto nei numeri scritti nella memoria del computer di una banca? Esiste veramente, e in cosa si palesa? Forse è questo, ciò che un po’ tutti stiamo cercando di capire; non siamo economisti, e gli economisti ci dicono “ma voi non capite”; però ci viene il dubbio che, in realtà, siano tutte le loro teorie finanziar-monetarie degli ultimi decenni, da Keynes in poi, a non stare più in piedi.

[tags]denario, crisi, borsa, finanza, economia, la stampa, spinelli[/tags]

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giovedì 9 Ottobre 2008, 15:00

Debiti

Mi succede, in genere, di arrivare qui a scrivere un post con opinioni chiare e spiegazioni sperabilmente lucide. In questi giorni, invece, c’è un argomento su cui continuo a riflettere e però resto confuso. Si parla infatti tanto di debiti, di crolli di Borsa, di soldi bruciati, e io ancora non riesco bene a capire: ma cosa sono questi debiti?

Noi abbiamo un concetto di debito spicciolo estremamente chiaro: debito è quando mi faccio dare dei soldi che non ho, con i quali faccio un acquisto, in cambio della promessa di restituire i soldi in futuro. E’ quindi un modo di drogare la mia vita, cioè di permettermi di vivere al di sopra delle mie possibilità demandando al futuro il problema di guadagnare i soldi necessari.

Già questo primo punto ci fa capire l’insensatezza dei comuni sistemi finanziari, senza nemmeno dover arrivare ai future e agli swap: una cosa è un debito dovuto alla necessità di rateizzare, cioè al fatto che non ho i soldi tutti insieme e allora me li faccio dare subito e li restituisco un po’ alla volta, contando sul fatto che ogni mese, rispetto a ciò che mi serve per vivere, produco un surplus di ricchezza che posso dedicare a questo scopo. Una cosa è, invece, un debito contratto (o concesso da una banca) a fronte dell’evidente impossibilità di ripagarlo, cioè di una persona che non solo non ha garanzie di poter produrre un surplus di ricchezza su base stabile per dieci, venti o trent’anni, ma non lo produce nemmeno adesso. Cosa può spingere una banca, che di queste cose dovrebbe capirne, a dare un prestito a qualcuno che chiaramente non lo potrà mai ripagare?

C’è poi una seconda considerazione: istintivamente, noi consideriamo il debito come compensato dalla ricchezza che esso permette di comprare, visto che in generale nessuno prende a prestito dei soldi solo per tenerli lì. In altre parole, a un debito di X corrisponde un valore X di qualche cosa che io, con i soldi avuti a credito, andrò ad acquistare. Tutto questo debito che adesso affossa le banche, insomma, deve pur corrispondere a una ricchezza che è stata acquistata spendendolo; ma che ricchezza è, dov’è, da dove è venuta e dove è andata a finire?

Le banche, infatti, non prestano soldi loro; prestano i soldi che i clienti danarosi hanno loro affidato. Dunque, in termini pratici, si tratta di soldi che a qualcuno non servivano, e che sono andati a finire a chi non ne aveva, permettendo a quest’ultimo di comprarsi un’auto o una casa che altrimenti non si sarebbe potuto permettere. In un certo senso, è una misura di efficienza: si fanno circolare soldi che altrimenti resterebbero fermi. In un altro senso, è una misura di equità sociale: i ricchi finanziano gli acquisti dei poveri. Salvo, naturalmente, chiedergli poi indietro il doppio dei soldi o quasi.

Eppure, se c’era del denaro inutilizzato, esso a cosa corrisponde? A ricchezze immobilizzate? Già, perché il denaro nasce come “abbreviazione” per il baratto: invece di darti una capra ti do un foglio di carta che può essere scambiato con una capra. Ancora fino a pochi decenni fa, le banconote dovevano essere coperte da altrettanta quantità di oro depositato nei caveau della banca nazionale. Poi, però, si accorsero che la copertura non c’era più da tempo, e che tutta questa quantità di denaro che circolava non era coperta da niente, se non dal fatto che la gente accettava per qualche imperscrutabile motivo di scambiare una automobile – tonnellate di metallo, plastica, gomma, nonché di ingegnosità e abilità costruttiva – con qualche foglietto di carta colorata.

In altre parole, il denaro esiste solo perché ci crediamo: è una religione. Se appena smettiamo di crederci, come succede in questi giorni, il sistema ha una crisi. Se smettessimo di crederci sul serio, e ad esempio andassimo a ritirare i nostri soldi per poi convertirli tutti in beni tangibili, il sistema esploderebbe.

Ed esploderebbe soprattutto perché ho la netta sensazione che non ci sarebbero affatto abbastanza beni tangibili da corrispondere alla quantità di denaro (e quindi, istintivamente, di ricchezza) che noi pensiamo di possedere.

Questo deriva, in parte, dal fatto che la nostra economia si è smaterializzata: sempre di più, i beni e i servizi che acquistiamo sono immateriali, dunque non tangibili, non effettivamente esistenti, legati soltanto al valore che noi attribuiamo loro nella nostra mente. Che però, da un momento all’altro, potrebbe sparire, anche perché i soldi in playstation, musica e vestiti griffati si spendono quando ci sono, ma non quando scarseggiano (in realtà è provato che nelle case popolari si taglia la carne dal menu ma non si vive senza Sky, però i consumi materiali, a differenza di quelli immateriali, non si possono comunque comprimere all’infinito: oltre un certo livello di crisi, si è forzati a tagliare i consumi immateriali).

In parte, però, questo deriva da meccanismi finanziari di base che non funzionano, che non possono venire spinti all’infinito, e che invece vengono esasperati. Il sistema, infatti, si autoalimenta: di fronte ai debiti – siano essi di un individuo, di una banca, di uno Stato – la soluzione è fare altri debiti per un importo ancora maggiore. Questo meccanismo, però, non mi sembra del tutto involontario né casuale.

Sarà pur vero che, in questi anni, le banche hanno cominciato a vedere nei clienti chiaramente insolvibili un modo per fare comunque utili; d’altra parte, se il denaro circolante e il debito circolante non corrispondono più alla ricchezza effettiva, il fatto che il capitale prestato non venga mai restituito e venga coperto con ulteriori debiti non costituisce un problema: non corrisponderà a ricchezza, ma corrisponde a ricchezza finta depositata nelle banche da ricchi parzialmente finti a cui, per fortuna del sistema bancario, non viene in mente di prelevarla.

C’è però un’altra considerazione più inquietante: il debito inestinguibile di un individuo costituisce il modo migliore di tenerlo sotto controllo, se non addirittura in schiavitù. La persona sarà costretta ad obbedire, lavorare, guadagnare a qualsiasi condizione, pur di non perdere la possibilità di pagare i propri debiti e allo stesso tempo di vivere al di sopra delle proprie possibilità.

Peraltro, questa vita “al di sopra” raramente si esplica in ricchezza vera, perché in genere il denaro preso a credito va a soddisfare bisogni indotti artificialmente mediante il marketing e la pubblicità, spesso tramite la vendita di prodotti immateriali e dunque finti, o meglio in cui il costo materiale di produzione è solo una minima frazione del prezzo di vendita, e il margine è elevatissimo. In pratica, io sistema industriale ti presto 100, che però tu spendi in qualcosa che a me costa 10, per cui alla fine io ho riavuto indietro i miei 100, ho speso 10, e vanto nei tuoi confronti ancora un credito di 100: una rendita del 90% per ogni ciclo di debito e spesa. Tu, in compenso, sei indebitato a vita; e anche se non mi restituirai mai buona parte del capitale, io avrò lo stesso guadagnato ampiamente, e in più ti tengo sotto controllo.

La questione diventa ancora più inquietante quando provate ad applicare lo stesso sistema agli Stati: già, perché tutti gli Stati del mondo sono in debito… ma perché, e con chi, e a quale scopo? Questa condizione di debito perenne della collettività, se ci pensate, è inspiegabile: come è possibile che non esista neanche uno Stato in credito, senza debiti e con le casse piene? Questa è un’altra domanda inquietante a cui mi piacerebbe tanto trovare risposta: ma per oggi credo che basti così. Per domani, dipende se il nostro sistema economico esisterà ancora.

[tags]economia, denaro, borsa, crisi, banche, debito, nuovo ordine mondiale[/tags]

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venerdì 3 Ottobre 2008, 12:29

Votare con un dito

Da qualche giorno sta girando in rete l’anteprima dell’annuale puntata dell’orrore dei Simpson, che come tutti gli anni andrà in onda subito dopo Halloween, a inizio novembre, un paio di giorni prima delle presidenziali americane. Nel trailer, Homer prova a votare per il ticket democratico Baracca & Bidé, ma…

La cosa che colpisce non è tanto che si dia per scontato che anche stavolta, come in passate occasioni, i repubblicani possano “aggiustare” dei voti. E’ invece il fatto che, in America, diventi mainstream l’idea che il voto elettronico è quanto di più imbrogliabile ci possa essere. Questo è un tema su cui molti si sono scervellati, senza trovare grandi soluzioni: come si fa infatti ad accertare che il software che conta i voti non bari?

Su piccole dimensioni – ad esempio per elezioni associative – la soluzione trovata è stata quella di pubblicare al termine delle elezioni i singoli voti in maniera anonimizzata, associati a un codice noto solo al votante. In questo modo, ciascun votante può verificare che il proprio voto sia riportato correttamente, mentre tutti possono sommare i singoli voti e verificare i totali. Il problema, però, è che pochi si prendono la briga di verificare il proprio voto; inoltre, resta la possibilità per il sistema di aggiungere voti associati a chi non si è presentato alle urne, che molto difficilmente andrà a controllare che tra i voti pubblicati non compaia il proprio. Tutto questo diventa ancora più difficile su scala nazionale, con molti milioni di voti.

E’ comunque possibile prendere delle precauzioni; sicuramente il software dei sistemi di voto dovrebbe essere di tipo libero (ma poi come si può verificare che il software che gira nel singolo seggio sia lo stesso che è stato pubblicato?); anche avere ricevute cartacee rilasciate in privato dalla macchina al singolo elettore, o messe in un’urna per un successivo conteggio cartaceo, può aiutare.

Resta però il fatto che imbrogliare alle elezioni, con qualsiasi sistema, è piuttosto semplice per chiunque gestisca la macchina elettorale; di solito questa cosa viene passata sotto silenzio per non minare la fiducia delle persone nello Stato, ma a me piacerebbe sapere quanto spesso ciò sia davvero avvenuto.

[tags]elezioni, stati uniti, simpson[/tags]

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giovedì 2 Ottobre 2008, 14:16

Ex Italia

Oggi La Stampa è in sciopero e quindi mi tocca Repubblica: è stato comunque interessante osservare che, toh, Ezio Mauro ha finalmente scoperto i problemi del nuovo ordine mondiale, la crisi degli stati nazionali, il problema di una economia non più a braccetto con la politica; che è giusto che la politica non faccia direttamente economia (come invece è norma in Italia), ma è ancora più giusto che la politica regoli l’economia e non l’opposto. Sono contento che ci arrivi anche Mauro, ma a livello mondiale si discute di queste cose sin da Seattle ’99; solo che a livello mondiale se ne parla guardando al futuro, in funzione dei nuovi modelli a rete che società ed economia vanno assumendo, e non come una riproposizione nostalgica delle lotte di classe degli anni ’70, stile bertinott-casarinico per intenderci.

Soltanto chi è rimasto agli anni ’70 può quindi trovare strana la marcia su Roma dei sindaci veneti, leghisti e democratici insieme, o irridere i primi cittadini perché invece di discettare della guerra in Iraq e dei casi giudiziari di Berlusconi si lamentano dei conti che non tornano nei loro bilanci. Ben vengano i sindaci che si preoccupano dei propri bilanci, invece di far approvare al consiglio comunale del loro paesino, come hanno fatto centinaia di comuni italiani, ridicole mozioni sulla guerra in Iraq; ridicole non perché il loro contenuto sia sbagliato o non condivisibile, ovviamente, ma perché cosa c’entra il consiglio comunale di un paesino con la guerra in Iraq?

La verità è che basterebbe depurare le nostre riflessioni sul federalismo dal tifo pro o contro la Lega che le ha caratterizzate in questi vent’anni per accorgersi che la dimensione nazionale, specie del tipo dell’Italia, non ha più senso né utilità, a parte per generare una valida Nazionale di calcio. Uno stato nazionale delle nostre dimensioni è troppo piccolo per contare a livello mondiale o per governare fenomeni ormai globalizzati: tanto è vero che la nostra economia va a rotoli qualsiasi cosa i vari governi facciano, e che tutte le volte che mettiamo becco su ciò che accade su Internet facciamo figuracce. Allo stesso tempo, uno stato nazionale delle nostre dimensioni è troppo grosso per essere efficiente, e il risultato sono lentezze e burocrazie che frenano il nostro progresso, accumuli di risorse pronte per essere sprecate o girate agli amici, e una evidente e crescente distanza dai problemi dei cittadini.

Non è un caso che i maggiori casi di successo nazionale negli ultimi anni in Europa vengano da Stati piccoli, dall’Irlanda ai paesi baltici; o da nazioni fortemente federaliste, perennemente quasi sull’orlo della secessione, come la Spagna. Tempo fa lessi sull’Economist un interessante articolo sul modello danese, quello che, nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, è riuscito contemporaneamente a garantire flessibilità, protezione, efficienza e ricchezza; bene, una delle conclusioni era che tra le principali ragioni per cui esso funziona sta il fatto che, in una comunità omogenea di pochi milioni di persone, tutti si sentono coinvolti e motivati a lavorare in quanto parte del soggetto comune, invece di vedere lo Stato come una entità mentalmente, culturalmente e fisicamente lontana (laggiù a Roma) e quindi più da fregare che da aiutare.

In altre parole, nessuno Stato può avere successo se i suoi cittadini non sono motivati a lottare per farglielo avere, e questo è molto più facile se lo Stato è percepito come locale, vicino, simile a noi.

Per questo motivo, solo un forte federalismo può salvare l’Italia; una scelta che lasci grande autonomia alle amministrazioni locali, e che lasci loro anche la gestione quasi integrale delle tasse prodotte dal territorio; che rompa la sensazione di Stato nemico, e riporti le persone ad identificarsi con esso. Il federalismo fiscale è dunque non il fine, ma il mezzo imprescindibile per ricreare il senso di appartenenza delle persone allo Stato.

Certamente, in una unità nazionale da preservare vi è anche la necessità di una solidarietà dalle zone più ricche verso quelle più povere; è quindi giusto che una parte delle tasse prodotte dal territorio vada verso il centro e venga di là redistribuita. Tuttavia, intanto deve trattarsi di una parte ridotta, perché più sono i soldi a disposizione e più è facile per la politica sprecarli senza ritegno; mentre un amministratore locale è comunque tutti i giorni sotto gli occhi dei propri elettori, lo stesso non si può dire per i dirigenti di un ministero. E poi, la solidarietà deve essere mirata, legata a obiettivi e a progetti di sviluppo.

D’altra parte, da sessant’anni le parti più ricche dell’Italia buttano soldi in quelle più povere, e da sessant’anni questi soldi vanno soltanto a finanziare la mafia, gli sprechi e il clientelismo, visto che di sviluppo non c’è l’ombra. Mi sembra quindi una considerazione oggettiva – non certo legata a razzismi o egoismi – notare che il metodo del finanziamento a pioggia del Sud non funziona, altrimenti in questi sessant’anni il Sud si sarebbe sviluppato già un bel po’. Il finanziamento a pioggia e incondizionato ha il solo effetto di deresponsabilizzare le persone; di abituarle a pensare che non c’è bisogno di prendere in mano il futuro del proprio territorio, tanto bene o male arriveranno sempre dei soldi donati da qualcun altro.

Le poche speranze di salvezza dell’Italia passano quindi da un forte federalismo fiscale e da una forte devoluzione dei poteri; questo è già evidente a chi, come i sindaci, deve fare i conti tutti i giorni con la situazione disperata sia delle proprie casse che di molti dei propri cittadini. Se questo non avverrà presto, comunque, la pressione imposta dalla competizione globale non si fermerà di certo; l’unico risultato sarà, di fronte all’impossibilità delle pubbliche amministrazioni di mantenere attivi i servizi essenziali, l’esplosione dello Stato e dell’unità nazionale.

[tags]italia, globalizzazione, federalismo, tasse, economia, repubblica[/tags]

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lunedì 29 Settembre 2008, 15:13

Chi ha paura del mercato

In parecchi, in questi giorni, hanno stappato lo champagne per festeggiare la fine del libero mercato, dopo che il Presidente degli Stati Uniti ha contravvenuto a un secolo di liberismo chiedendo un pesante intervento statale per nazionalizzare le banche e le assicurazioni in crisi.

E’ indubbiamente vero che, a livello globale, il mercato sia fuori controllo: ad aziende e cupole finanziarie globali si contrappone un potere politico ancora diviso per nazioni, quindi incapace di imporre alcunché su scala mondiale. Le Nazioni Unite sono un timido dinosauro a cui le nazioni più importanti evitano accuratamente di dare alcun potere, specie in materie economiche; il WTO (che non fa nemmeno formalmente parte delle Nazioni Unite) è uno strumento dei paesi occidentali per imporre al resto del mondo le proprie condizioni commerciali, e nelle rare occasioni in cui decide contro un paese sviluppato le sue decisioni sono semplicemente ignorate.

E’ altrettanto indubbio che gli eccessi di questi vent’anni di capitalismo non più frenato dalla paura del comunismo abbiano dimostrato l’importanza di rimettere gli “animal spirits” un po’ sotto controllo, ed avere la possibilità di imporre regole al mercato per assicurarsi che tale strumento svolga la sua funzione – quella di ottimizzare gli scambi e quindi produrre ricchezza per tutti – e non venga invece manipolato al servizio di pochi.

Permettetemi però di esprimere qualche perplessità di fronte ai molti che stanno tentando di applicare questo ragionamento, valido per i paesi sviluppati, anche all’Italia. In Italia, infatti, il libero mercato non c’è e non c’è mai stato: abbiamo sempre avuto una economia pesantemente condizionata dalla politica e da poteri di vario genere, dalla Chiesa alle maggiori aziende, fino alle logge massoniche.

Per cinquant’anni, l’economia italiana è stata in gran parte in mano allo Stato, e per il resto nelle mani di un capitalismo familiare, dagli Agnelli in giù, che ha fatto molto per lo sviluppo del Paese, ma anche creato l’abitudine a scaricare sullo Stato le perdite e tenersi i profitti. Bene o male, comunque, era un sistema che stava in piedi; dopo il crollo del comunismo, però, siamo passati a una economia di mercato per finta, dove in realtà il potere politico è direttamente occupato dagli interessi finanziari, e dove i politici di tutti gli schieramenti si preoccupano soprattutto di passare pezzi di economia agli amici. E’ successo con Telecom, è successo con le banche, è successo con le autostrade, sta succedendo ora con Alitalia.

In Italia, insomma, il mercato non c’è mai stato; e prima di preoccuparci di rimetterlo sotto il controllo dello Stato, dovremmo preoccuparci di arrivare ad averne uno vero.

Purtroppo, la vedo dura: culturalmente, gli italiani sembrano del tutto impreparati a concetti come concorrenza, meritocrazia, rischio in proprio, o all’idea che a ogni spesa debba corrispondere un’entrata, e che un diritto di qualsiasi genere può esistere soltanto quando esistono in cassa i soldi per implementarlo. Questa impreparazione è peraltro una delle cause fondamentali della nostra crisi economica, che la rende strutturale e difficilmente reversibile.

Questo vale a tutti i livelli; per esempio, tempo fa ho discusso con un insigne professore universitario torinese sul fatto che l’Università, pur contando su ampi contributi pubblici, dovesse arrivare al pareggio di bilancio, se necessario con entrate da vendita di servizi, senza convincerlo; la sua idea era che “l’Università è importante, quindi lo Stato deve far saltare fuori i soldi in qualche modo”.

Più nel piccolo, bastano le solite lettere a Specchio dei Tempi: oggi c’è una che si lamenta che in un bar in orario serale ha pagato sette euro un chinotto anche se non ha consumato l’aperitivo, e il tavolo era sporco, e il cameriere era sgarbato. Ma non basterebbe cambiare locale? Perché si deve invocare che lo Stato-mamma vada a sorvegliare tutti i camerieri del Paese o stabilisca per decreto (come chiede un altro nei commenti) che è obbligatorio che i bar ti vendano il chinotto separatamente dal buffet anche in orario di apericena? Non ci si poteva lamentare direttamente col proprietario del locale, invece di stare zitti e poi scrivere a Specchio dei Tempi?

Purtroppo, pare che il mercato sia troppo difficile da sopportare per buona parte degli italiani: il mercato, infatti, è basato sulla responsabilità individuale di tutti coloro che vi partecipano, mentre ciò che sognano questi italiani è l’uomo forte che prende le redini della cosa pubblica e sistema tutto senza che loro debbano preoccuparsi di se stessi, del proprio futuro, della propria ricchezza. Così, poi, sapranno con chi prendersela quando piove.

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giovedì 18 Settembre 2008, 11:47

I negri

Per concludere i miei racconti dall’Africa, vorrei sintetizzare (per quanto mi è possibile: quindi solo quattro o cinque pagine) quanto in pochi giorni ho appreso dei negri, osservandoli, parlando con loro e parlando con chi vive là da tempo. Naturalmente è possibile che si tratti di impressioni sbagliate, ma prima di metterle giù mi sono premurato di chiedere e trovare conferme.

I negri condividono volentieri la miseria. Anche se muore di fame, il negro trova normale condividere con un altro negro il pezzo di cibo che ha in mano, anche se è uno che non ha mai incontrato. Per strada è tutto un fiorire di amicizie e pacche sulle spalle, e tutti si sorridono e si danno una mano. Per un negro, niente è mai veramente un problema: tutto è risolvibile chiedendo una mano a chi passa di lì in quel momento. Tuttavia, i negri condividono meno volentieri la ricchezza e il potere: date il potere in mano a un negro e nel novanta per cento dei casi sterminerà piuttosto che lasciarlo. Per ulteriori informazioni citofonare Mugabe.

I negri, pur essendo molto più amichevoli e simpatici dei bianchi, non hanno la minima idea di cosa sia la buona educazione. Quelli dell’appartamento di fronte piazzano lo stereo a un volume talmente forte da far sembrare i tamarri italiani dei dilettanti. Quelli dell’appartamento di sopra, a qualsiasi ora, strascinano le sedie sui bei palchetti ereditati dai portoghesi, devastandoli. Sollevare le sedie è già troppo faticoso.

I negri sono estremamente puliti. Anche se vivono in una casupola nel nulla, non hanno l’acqua in casa e possiedono in tutto tre magliette, quelle tre magliette sono sempre lavate e spesso persino stirate. I negri sono molto attenti alla propria immagine, e se appena possono hanno i jeans alla moda e le t-shirt con le scritte in inglese, all’occidentale; magari sono tarocche, ma le hanno. Aggiungeteci il fatto che sono fisicamente molto ma molto più belli dei bianchi, e capirete il loro giusto orgoglio di sé. E sì: come testimonia anche Caparezza, hanno il pisello grande.

I negri sono generalmente pigri. Non capiscono perché i bianchi si rovinino la vita lavorando, pur avendo molti meno problemi di loro a mettere insieme il pranzo con la cena. Non è che non aspirino a una condizione migliore, ma la loro valutazione di costi e benefici tende a ingigantire i costi rispetto alla nostra, almeno quando sia richiesto uno sforzo di qualsiasi genere. Noi, grazie a secoli di prediche ereditate da Calvino e Lutero, veniamo educati a considerare normale l’alzarci tutti i giorni alle sette per uscire di casa, viaggiare in mezzo al traffico e andare a lavorare; loro non lo distinguono dalla schiavitù. In effetti, ho provato ad elencare le differenze sostanziali tra le due situazioni, ma non sono sicuro di averle trovate.

I negri, proprio perché sono pigri, sono anche furbi. Ma non furbissimi; diciamo la furbizia di un bambino di dieci anni che pensa di far fessi i genitori. Per dire, è praticamente impossibile per un bianco trovarsi in giro all’ora di pranzo o di cena senza che un collega, allievo o conoscente negro lo placchi e con una scusa qualsiasi non gli si stacchi più di dosso fino a che il bianco non si trovi sotto casa sua; a quel punto l’invito a condividere il desco è doveroso. (Come detto prima, varrebbe la stessa cosa anche a ruoli opposti, e il negro vi darebbe con generosità ciò che ha; non essendo stupidi, però, sia il negro che il bianco preferiscono attuare la condivisione del cibo nella casa del bianco.) Se non è ora di pranzo, comunque il negro con una scusa o con l’altra finisce sempre per entrare in cucina e farsi offrire qualcosa. Va anche bene così, visto che i negri a Maputo non muoiono di fame ma certo non ingrassano; è un po’ stressante per il coinquilino che sta a casa e prepara il pasto, ma presto i bianchi imparano a buttare sempre la pasta molto abbondante, che qualcuno che la mangia salta sempre fuori.

I negri sono onesti, molto di più di quel che crediamo noi. Certo, in Mozambico i frigoriferi hanno tutti una serratura sulla porta, ma si tratta più della diffidenza degli europei che di una necessità effettiva; un vero negro difficilmente ruberebbe anche solo una scatola di biscotti, e se lo fa è perché è stato educato dagli italiani. Allo stesso tempo, la loro naturale attitudine alla condivisione li rende variamente disonesti secondo i nostri canoni (ma non secondo i loro). Per esempio, i negri chiedono continuamente soldi in prestito ai bianchi, e non li restituiscono quasi mai: l’idea è che se tu glieli dai è perché non ne hai veramente bisogno. Non solo, ma non sono nemmeno riconoscenti per il prestito: anzi, più gli dai soldi a babbo morto e più ritorneranno a chiedertene, e si offenderanno – talvolta persino incazzandosi e giurandoti vendetta – se a un certo punto smetterai di dargliene. Se ci pensate, questo è perfettamente logico, se si parte dall’assunto che tu continui a non avere bisogno di quei soldi.

I negri sono semplici e ingenui. Non riescono a pianificare più di una o due cose per volta; la complessità li mette in crisi. Il futuro è una entità sconosciuta a cui si penserà “poi”; è già tanto se si ricordano cosa devono fare domani, e spesso cambiano idea in merito ogni dieci minuti. Le istituzioni (università, ospedali, ministeri) riescono a fare piani addirittura fino a una settimana, anche se è probabile che il giorno prima si scopra che manca, che so, l’aula, o il professore, o gli studenti, o che il giorno deputato al seminario la metà di essi non ci siano.

I negri, se non sanno fare qualcosa, o dopo l’ennesimo errore, si mettono tranquillamente a piangere davanti a tutti. Mentono, ma non in modo perfido o cattivo; se mai come un bimbo che non vuole ammettere con la mamma di aver rubato la marmellata, anche davanti all’evidenza. Come i bambini, non sono capaci di valutare le conseguenze sugli altri delle proprie azioni: magari si dimenticano di riportarti la macchina e resti a piedi, oppure ti danno appuntamento e poi non vengono e ti lasciano due ore ad attendere a vuoto, ma senza cattiveria o menefreghismo; semplicemente, gli è passato di mente, o non hanno pensato che la cosa potesse crearti dei disagi. Se gli fai notare i disagi, ti chiedono scusa e per loro la questione è finita lì: amici come prima e pronti a rifarlo di nuovo.

I negri, almeno attorno alla città, potrebbero migliorare senza problemi la propria condizione sociale e uscire dalla miseria; è solo che non gliene frega niente. Nella loro mente non esiste il concetto di risparmio; e come potrebbe esistere quando la vita è lunga a malapena abbastanza da mettere al mondo i figli e farli giungere quando va bene alla maggiore età? Comunque, dàgli due lire in mano e le spenderanno immediatamente in puttanate, cominciando dai cellulari e dagli Ipod taroccati cinesi. Anzi, spesso guardano male gli occidentali perché pur avendo molti più soldi di loro si presentano in Africa con un cellulare scrauso: è come se da noi un miliardario andasse in giro coi pantaloni bucati.

I negri adorano la musica, e sono degli ottimi ballerini. Oltre al canonico reggae, ai negri del Mozambico piace molto la techno, perché non è poi così diversa dalla loro musica tradizionale basata sui tamburi: per cui si assiste alle scene un po’ stranianti di un vecchio furgone scassato con la gente aggrappata fuori e stesa sul tetto, che attraversa una baraccopoli emettendo musica unz-unz a un volume che assorderebbe un ippopotamo.

Ai negri piacciono un casino le feste; per esempio, si trovano all’aperto all’inizio del pomeriggio del sabato, belli riposati, e attaccano un impianto stereo da migliaia di watt che fa vibrare le pareti dei palazzi a centinaia di metri di distanza; e stanno a suonare e ballare fino alle tre di notte. Non è previsto che ci sia nel circondario qualcuno che, durante una festa, possa preferire fare altro, o addirittura dormire. Solo a un bianco, alle due di notte e verso la dodicesima ora di musica unz devastante, potrebbe venire in mente di chiamare la polizia – anche perché la polizia è probabilmente lì a ballare con gli altri.

I negri amano i propri figli e le proprie mogli, ma amano in ugual misura le mogli degli altri. “Guarda, c’è un matrimonio!”, ci ha detto il nostro autista negro, indicando la sposa in abito bianco e agitando la mano nell’internazionale gesto delle corna. I negri si accoppiano con estrema naturalezza, cioè con qualsiasi altro negro di sesso opposto che ci stia. Adorano i propri figli, ma non si sentono particolarmente obbligati a fornire loro una educazione: da sempre, i bambini crescono allo stato brado in mezzo alla polvere della strada. Riuscire a sopravvivere è compito del bambino; per esempio, lo stesso negro che capita regolarmente a pranzo dal bianco un giorno sì e l’altro pure non si sognerebbe mai di tenere da parte un po’ del cibo e portarlo al suo bambino. Il genitore maschio, comprati i figli che verranno mediante il pagamento della dote alla famiglia della moglie, può fare ciò che vuole. Se è un bel ragazzo, ciò di solito implica il trovarsi varie amanti e una nuova moglie dopo pochi anni, e/o il morire velocemente di AIDS.

I negri sono i peggiori capi dei negri. I bianchi sono molto ricercati come datori di lavoro; specie quelli che arrivano in Africa in questi anni, con tante buone intenzioni, tanta utopia e tanto senso di colpa. I bianchi europei viziano i negri, gli fanno regali, chiudono un occhio quando fanno casino (cioè varie volte al giorno), gli ripetono le cose con la pazienza che si usa con i bambini. Il capo negro invece è uno schiavista; assapora il potere come il cane tenuto per secoli alla catena e finalmente in grado di vendicarsi. Trova naturale sfruttare e arricchirsi il più possibile: se gli dai da gestire cento lire di cooperazione, se ne intascherà almeno novanta, e solo dieci finiranno ai destinatari originali. Si ritiene molto furbo, ma tanto poi arriva la multinazionale bianca e gli piazza lì un centro commerciale dove tutto costa dieci volte tanto che nel resto della città, e i soldi ritornano prontamente verso l’Occidente (ma anche verso il mondo arabo e la Cina).

Ora, so che alcuni di voi saranno arrivati qui in fondo scandalizzati e staranno già gridando al razzismo, a partire dall’uso del termine “negro” al posto di nero. Intanto potrei dirvi che loro stessi, tra loro, si definiscono negri, e che ogni tentativo di fargli usare il termine preto (nero in portoghese) è stato accolto con sconcerto: “no, ma perché?”. Ma il vero punto è che i negri sono ben più che neri: la differenza tra negri e bianchi non è certo nel colore della pelle, tanto è vero che i neri cresciuti in Occidente e in ambienti socialmente integrati con quelli dei bianchi ne adottano senza problemi i comportamenti e i valori; anche nello stesso Mozambico, nelle élite e nelle università, ce ne sono parecchi così, senza nemmeno essere mai stati all’estero. A quel punto, però, sono neri ma non più negri, e anzi i negri spesso li guardano come dei traditori.

Il problema che gli occidentali che non sono mai stati in Africa hanno con l’uso del termine “negro” è in realtà causato dal loro fondamentale razzismo, che sta nel fatto di applicare il proprio insieme di valori anche all’Africa stessa. Il bianco, con protervia razzista, ha deciso che le proprie equazioni “gran lavoratore = buono, pigro = cattivo, efficiente = buono, disorganizzato = cattivo” si devono applicare all’intero pianeta; poi va in Africa e si accorge che là non è così. All’inizio l’approccio razzista si concretizzava nel punire i neri perché erano negri: vedi apartheid, linciaggi o quando va bene rieducazioni forzate all’etica del lavoro. Poi abbiamo finalmente capito che ciò è Male; ma ciò non cambia la natura dei negri.

Quindi, quando al giorno d’oggi l’occidentale pieno di buone intenzioni arriva in Africa e si accorge di come girano le cose, il suo cervello va in tilt: per evitare di concludere che i negri sono tutti cattivi, il bianco si inventa le peggiori assurdità. Per esempio nega la realtà: ho sentito gente sostenere che “l’Africa non è poi così disorganizzata”, mentre ripeteva per la quarta volta l’ordinazione al ristorante. Più spesso, si prende la colpa: “sono così solo perché noi li abbiamo schiavizzati e sfruttati per secoli”. E’ vero che li abbiamo schiavizzati in modo indegno e che abbiamo rubato loro un sacco di risorse naturali (che peraltro loro non sapevano come estrarre e nemmeno come utilizzare, e portando in cambio infrastrutture che loro non sapevano come costruire), ma non è vero che questa sia la causa della loro cultura; anzi, tanto di cappello a loro per averla conservata nonostante legioni di missionari salesiani che volevano convincerli di quanto sia giusto lodare il Signore lavorando in fabbrica. Anche questi sono approcci razzisti, perché continuano a sottintendere che i negri, per essere da noi apprezzati e accettati, devono per forza comportarsi come i bianchi, e vivere in città sovraffollate cavalcando scatole di latta comprate a rate. L’unico approccio onesto, secondo me, è lasciare che vivano da negri, senza applicare a loro i nostri metri di giudizio, e permettergli finalmente di decidere da soli, tutti insieme, cosa vogliono fare delle proprie società, e quale sia per loro il giusto compromesso tra fatica e sviluppo.

La negritudine, in realtà, è un sistema di vita e di morale che è molto più naturale, più semplice, meno alienato, meno frustrante e meno soffocante del nostro. Ha i suoi lati negativi, tra cui l’impossibilità di generare alcun tipo di sviluppo economico o una ricchezza materiale anche vagamente comparabile alla nostra, nonché una vita più breve e più soggetta a malattie. Per noi è immorale, perché non è basato sul sacrificio. Facilmente, però, è soltanto invidia.

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