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mercoledì 29 Agosto 2007, 11:11

La Cina impara da Microsoft

La Cina ha detto basta: basta con quella immagine fredda e grigia di biechi censori! La censura è divertente come qualsiasi altra attività su Internet! E così, come qui raccontato, prossimamente i principali portali cinesi saranno costretti ad inserire un censorino animato, modellato sul famoso Clippy di Office, che comparirà sul monitor quando meno te lo aspetti, e ti offrirà aiuto per sapere quali informazioni non è opportuno che tu legga, o come denunciare il tuo vicino di casa che usa Tor, o se il vicino che hai denunciato la settimana prima è già stato fucilato. Il tutto con una accattivante grafica a fumetti, proprio sul tuo sito preferito!

Speriamo che non lo scopra Gentiloni, se no ogni volta che apriremo un sito porno – che so, Panorama – comparirà in sovraimpressione un appuntato dei carabinieri, che in burocratese stretto ci inviterà ad essere più rispettosi della morale di Stato…

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martedì 28 Agosto 2007, 13:17

C’è amore in città

Ieri ho aperto il forum di Forzatoro, e ho subito notato un thread intitolato “Grandissima t…”; conoscendo l’ambiente, pur senza sapere nulla di nulla, ho indovinato immediatamente a chi si riferissero!

Aprendo il thread, ho avuto conferma della mia intuizione: una nota signora gobba della classe dirigente torinese, in puro stile Juventus, si è sentita in dovere di rilasciare a Repubblica una intervista piena di apprezzamenti verso il Toro – che, per carità, sono il genere di cose che ci si dice reciprocamente al bar o sui blog, ma forse su un quotidiano, da persone con ruoli di massima dirigenza dello sport italiano, non sono troppo appropriate. Del resto, anche Cairo si è distinto in passato per sfottò pubblici di ben dubbio gusto, che nascondono l’insofferenza reciproca e la guerra di potere (vera) tra l’alessandrino-milanese di scuola berlusconiana e la cupola torinese cresciuta all’ombra degli Agnelli.

Ciò detto, il thread suddetto si è rivelato pieno zeppo di insulti assolutamente creativi verso la suddetta signora, dai quali naturalmente mi dissocio, nonché delle solite storie che girano in città da anni, totalmente malevole e infondate, secondo cui la signora e il suo consorte avrebbero fatto carriera soltanto in quanto lei sarebbe stata la “migliore amica” del fu padrone della Fiat. E’ veramente disgustoso che una persona per bene, solo per aver sfottuto la prima squadra di Torino, venga sommersa di post e di mail che la definiscono “Cocainomane per osmosi da flauti suonati”!

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lunedì 27 Agosto 2007, 14:18

Formerly known as

Giunto a casa dopo un weekend senza collegamento, apro la posta e trovo un messaggio che inizia così:

Hi Vittorio,

It’s Sara and Greg (formerly known as Zeus) from the Active NZ tour!

I tizi me li ricordo, erano due simpatici americani di mezza età, di Seattle se non erro, che erano con me nel giro della Nuova Zelanda un anno e mezzo fa. Lei faceva l’infermiera, e lui era un signore che non solo si chiamava Zeus, ma aveva il fisico del ruolo, minuto e magro, ma con una grande barba grigia. Peraltro, quando ci hanno dato la bici per scalare il Divide, io ho staccato facilmente i ragazzotti palestrati di Miami, ma nel frattempo lui è partito e me ne ha dato altrettanto…

Ora, capisco che Zeus fosse un nome ingombrante, ma sono sempre stupito di come gli americani considerino i nomi come una stringa di caratteri definibile e modificabile a piacimento. Sono piuttosto curioso di scoprire cosa possa spingere uno Zeus a diventare Greg!

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domenica 26 Agosto 2007, 09:49

Los Angeles (4)

(Segue dalla terza puntata…)

Comunque, l’esperienza migliore l’ho fatta decidendo di fare qualcosa che i miei contatti locali hanno descritto come “follia”: trasferirmi da Hollywood a Marina del Rey – la sede di ICANN, sul mare vicino a Santa Monica, a una trentina di chilometri dal centro – con i mezzi pubblici, portandomi dietro valigia, computer e tutto il resto.

Si inizia bene, prendendo la linea rossa della metro, che è una vera metropolitana, con treni veloci – anche se radi, uno ogni 10-12 minuti – e tutta in galleria. Arrivati in centro, si passa sulla linea blu, che va meno bene: in pratica, è un tram che collega il centro con Long Beach, quaranta chilometri più a sud. In galleria c’è solo il capolinea; dopodichè, il tram percorre sferragliando le vie alla periferia meridionale del centro, fermandosi bellamente ai semafori. La cosa migliora un po’ quando, dopo un quarto d’ora, si gira su Long Beach Avenue, dove il tram percorre una vecchia ferrovia, sempre a raso, ma con un’ampia sede dedicata a centro strada, e precedenza sulle vie laterali. Poi, dopo un po’ di fermate, improvvisamente la ferrovia si alza, e passa su un altissimo cavalcavia. Proprio lì, nel mezzo dell’aria, si ferma, e quella è la fermata di Slauson Avenue: la mia.

Esco, e immediatamente penso: sono nei guai. Difatti, mentre il tram si allontana sferragliando, io mi guardo attorno e vedo un panorama talmente lunare che non mi sono osato tirar fuori la macchina fotografica per immortalarlo. Intorno, guardando nella piana di South Los Angeles per chilometri, non c’è un albero o un filo d’erba: soltanto terra polverosa, come in mezzo a un deserto. Sotto di me, passa una via trafficata, oltre la quale, parallela ad essa, si stende una vecchia ferrovia arrugginita, a raso, che sembra abbandonata. La traversa più vicina è a un duecento metri – c’è anche la freccia, perchè le fermate degli autobus sono là. Intorno, ci sono antiche fabbriche cadenti, magazzini di vario genere, casupole misere, vecchie auto sfondate e lasciate là a morire. Cammino fino all’incrocio, attraverso, e trovo la fermata del bus 108. E’ un palo, piantato nella sabbia sul ciglio impolverato della strada. Per aspettare, ci si può sedere sui vecchi binari, evitando il riporto dei camion. Nello spiazzo dietro di me, un vecchio messicano spinge un carrello pieno di ferraglia, mentre, davanti a una vecchia roulotte con cartelli soltanto in spagnolo, tre signori chiacchierano seduti sulle sedie da campeggio. Puro Quentin Tarantino, ma ci sono proprio in mezzo.

E sono nei guai anche per un altro motivo: ecco, a me piace fare i miei piani e seguirli. Il bus 108 percorre tutta la Slauson Avenue, una trentina di chilometri da est a ovest fino al mare e ritorno, passando circa una volta ogni quarto d’ora. Tuttavia, solo un autobus su quattro va fino a Marina del Rey, posto fighetto dove l’idea di prendere i mezzi pubblici viene solo a qualche cameriera messicana. Stando al pidieffone dell’orario sul sito, c’era un 108 per Marina del Rey entro un quarto d’ora dal mio arrivo. Però, stando al trip planner, non ce ne sarebbero stati per un paio d’ore.

Potete quindi capire il mio sollievo quando dopo una attesa guardinga, passata a controllare i messicani alle mie spalle, ho visto emergere dal riverbero caldo sull’asfalto lontano uno scassone con il numero 108 e la scritta Marina del Rey. E vai! Salgo e allungo il dollaro e venticinque: come vi dissi, qui i trasporti pubblici sono gestiti da innumerevoli compagnie private, per cui non esiste il concetto di biglietto a tempo: si ripaga ogni volta che si sale su un mezzo.

Il pullman è scassato, ma mi sorprenderà in positivo per due cose. La prima, è una piattaforma automatica per invalidi che si apre su richiesta, e tira su la carrozzina per la porta davanti: un vecchio meticcio in carrozzina riesce a prendere l’autobus completamente da solo. La seconda, è uno schermo LCD che riporta in un angolo la mappina satellitare di Windows Live, con la posizione del pullman, per capire a che punto sei dell’infinita avenue; nel grosso dello schermo scorre pubblicità, è per quello che può esistere.

Il viaggio è affascinante. All’inizio, sono l’unico non messicano; dopo un quarto d’ora, mi accorgo di essere diventato l’unico bianco. La zona è povera, sempre caratterizzata da vecchie fabbriche e magazzini di cianfrusaglie, con la ferrovia ad affiancarle tutte; a un certo punto scopro che non è abbandonata, c’è addirittura un vagone merci rugginoso che deve avere sessant’anni, e che arranca da solo, più lento di noi, attraversando le traverse ad ogni incrocio. Insomma, degrado totale; di notte deve essere certamente parecchio pericolosa. Me ne accorgo perché ho già visto, in Argentina o in Sud Africa, interi quartieri borghesi recintati dal filo spinato, e protetti dalle guardie all’ingresso. Ma non avevo mai visto, come qui, casupole cadenti, poverissime, quasi baracche, però circondate da lamiere e filo spinato. Ho come il sospetto che qui anche due dollari siano una ricchezza, e che ci si ammazzi per niente.

Poi, dopo quasi mezz’ora, finalmente lo scenario cambia: la ferrovia gira e sparisce nei meandri, e cominciano a comparire casette più dignitose, e anche qualche filo d’erba. Poi, di colpo, la strada sale; le case si fanno belline, curate, nuove, con il prato davanti, e agli angoli riappaiono negozi e servizi. Dopo questa collina c’è un parco, e lì vedo un’altra cosa che non mi aspettavo: in un angolo, ben cintate, tre pompe di petrolio, di quelle antiche, a becco, che vanno su e giù, perfettamente in funzione.

Dopo un po’, sono in una zona decisamente borghese: Fox Hills, dove l’autobus gira e si infila per viali alberati affiancati da condomini carini e da gente che fa jogging. Il pullman ormai è vuoto, a parte una enorme signora nera che prende il bus con l’abbonamento per fare un tragitto che, a piedi, sarebbe di cento metri scarsi: signora, un po’ di moto le farebbe bene. A questo punto sale un ragazzo bianco in tuta da ginnastica, con l’iPod: sono definitivamente nella civiltà, ma lui mi fa l’effetto di un alieno. Chiede se l’autobus va veramente a Marina del Rey, che non l’ha mai preso in vita sua. Gli si sarà rotta la macchina.

Dopo un’ora di bus, ci siamo; anticipo la fermata con precisione, tiro la corda che si usa per segnalare, scendo, a venti metri dal portone del palazzone in cui sta ICANN, sulla passeggiata davanti al porto. Dopo il mio meeting, avrò anche un’oretta per passeggiare e vedere questo enorme porto turistico, pieno di barche e yacht, di ristorantini di mare e finti villaggetti di pescatori per i turisti. Un altro pianeta. Ma, per due dollari e cinquanta, il mio giro di due ore sui mezzi pubblici di Los Angeles, con vista sulla vita, è stato il miglior investimento dell’estate.

E mi ha fatto anche un po’ ricredere su questa città, dove non c’è niente da vedere, ma molto da sperimentare. Sono contento di esserci stato.

(Fine!)

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sabato 25 Agosto 2007, 10:37

Los Angeles (3)

(Segue dalla seconda puntata…)

Come dicevo, l’unica parte un po’ interessante di Downtown Los Angeles è il centro antico, all’angolo tra Main Street e l’autostrada 101 (qui le autostrade le costruiscono scavando al posto dei vecchi corsi, un po’ come se per fare la Torino-Milano avessero cominciato abbattendo le case per trasformare via Roma in un trincerone a otto corsie: mica vorrai farti i semafori per arrivare in centro dalla tangenziale?). Sorprendentemente, ci sono alcuni edifici di inizio Ottocento, quando Los Angeles era messicana, e la originale missione dei frati francescani che fondarono il posto come El Pueblo de Nuestra Senora La Reina de Los Angeles del Rìo Porciuncula (quello di Assisi); abbreviato L.A., va per la maggior contrazione toponomastica della storia. Soprattutto, qui è pieno di messicani e finalmente ci si sente un po’ a casa, anche se a fianco della missione c’è un parcheggio (ma ci sono parcheggi ovunque: l’idea è che in un isolato si fanno case e in quello a fianco si fa un parcheggio sopraelevato a pagamento).

C’è una bella piazza, e c’è Olvera Street, un mercatino pieno di bancarelle di chincaglierie messicane fatte in Cina. E c’è la Union Station, la stazione dei treni, uno dei peggiori investimenti pubblici della storia americana – fu costruita nel 1939, dal 1940 cominciarono a smantellare le ferrovie e sostituirle con auto, bus e aerei. E’ grandiosa, scura e austera all’interno, allagata dal sole nei chiostri e nei cortili esterni; è ancora usata, ma solo in parte, per i pochi treni rimasti, e per farla fruttare un po’ ci hanno persino girato Blade Runner (la sede della polizia). Certo, prima di capire dove si prende la metro e dove si comprano i biglietti ci vorrà un po’, perché ogni servizio pubblico è gestito da una azienda separata, e il concetto di integrazione è inesistente. Ma vale la pena arrivare fin qui.

A questo punto dovreste aver capito che, a differenza delle città a cui siamo abituati, a Los Angeles non ci sono zone storiche da vedere, e zone non storiche da ignorare; il punto della visita è l’esperienza di vita. Per questo sono stato ben contento, quando pagavo io, di spostarmi in un motel: un classico Travelodge, che è il tipico albergo degli americani medi, per affari o per vacanza che sia. A parte Las Vegas, solo i ricchi vanno negli alberghi “all’europea”; gli altri si muovono in auto e usano i motel.

I Travelodge sono tutti uguali da un capo all’altro dell’America: c’è un ingresso dalla strada, vicino alla reception, che controlla cosa succede; poi c’è una specie di lunga casa di ringhiera su due piani, a L, che dà sul cortile interno, che è un parcheggio a pettine. Se siete al pianterreno, potete parcheggiare col muso a mezzo metro dalla porta della camera: difatti le camere danno sul passaggio coperto a pianterreno, o sul balcone al primo piano. Ogni camera ha un bel letto matrimoniale, un televisore con la TV via cavo, un frigo vuoto per le vostre cose, un forno a microonde, un vecchio condizionatore elettrico, una cassaforte, un ripostiglio, e un bagno più che discreto, che di solito funziona bene. In mezzo al parcheggio, c’è anche una piscinetta, nemmeno troppo piccola (non fosse che di solito è monopolizzata da qualche famigliola). Insomma, ci si può vivere per una settimana con vari comfort, e in occasioni passate il forno a microonde mi venne piuttosto utile per risparmiare sui pasti.

Qui io ho dormito per 95 dollari a notte tasse incluse, che per un motel è tanto, ma per un albergo di Los Angeles a “due fermate della metro” sia da Downtown che da Hollywood non è molto. In più, esso stava di fronte alla fermata della metro di Sunset/Vermont, abbastanza vicino alle uscite dell’autostrada, in una zona con vari servizi: tre o quattro fast food tra cui un simil-Starbucks, un paio di benzinai con negozietto di cibarie aperto 24 ore su 24, un bank-in – cioè un bancomat che funziona come un drive-in, senza scendere dall’auto; sembra ridicolo, ma lo rivalutate parecchio se dovete prelevare col buio… e capite nel contempo perchè la Focus americana abbia un dispositivo che abbassa automaticamente la sicura delle porte dopo dieci secondi che la guidate – e poi, un paio di ospedali – tra cui il già citato Ospedale Infantile Haim Saban – e la sede mondiale della chiesa di Scientology, caso mai abbiate una crisi esistenziale nel cuore della notte.

Del resto, in America le città vanno a zone. Può capitarvi come a me, di essere a Hollywood, dover riconsegnare a breve l’auto nell’ufficio Avis del centro città, e nel contempo aver finito i contanti. La periferia di Hollywood, però, è una zona di casette, quindi niente banche, ma un sacco di negozi, e di benzinai. Alla fine, dopo venti minuti, trovate una banca e prelevate, ma siete già quasi in centro. Così andate fino all’ufficio di noleggio, sperando di trovare un benzinaio in centro per fare l’obbligatorio pieno prima di riconsegnare l’auto. Sperate male: perché il terreno in centro serve per i grattacieli, e non ho visto un singolo benzinaio in tutta la zona. I benzinai sono rigorosamente collocati fuori dal centro e sulle avenue più frequentate, meglio se all’incrocio di due di loro; e così dovrete uscire fuori lungo Wilshire per un paio di chilometri, per trovarne uno.

Peraltro, i problemi di muoversi in un ambiente sconosciuto non si limitano al cercare banche in un quartiere di benzinai, e poi benzinai in un quartiere di banche. Fare benzina non è così facile: perchè in America nessuno mai si fiderebbe a lasciarti fare ciò che fai qui, cioè prima mettere benzina e poi andare a pagare (e nemmeno si fiderebbe a metterti benzina lui, almeno nelle città). Tutti i benzinai sono self-serve, pre-pay: metti la macchina davanti alla pompa, scendi, lasci una certa cifra alla cassa, che ti autorizza a far benzina per quell’importo. Torni alla pompa, metti la benzina, e se ne hai avanzata torni indietro a farti dare il resto. Poi, può succederti come a me, di aver messo la macchina con il serbatoio dal lato sbagliato, contando sull’estensibilità della pompa, e di scoprire che in America le pompe non sono estensibili; e così, devi improvvisare una inversione in mezzo al piazzale pieno di gente, mentre un coreano cerca di fregarti il posto e tendenzialmente anche la benzina che hai già pagato. E’ appena normale che, in tutto questo, tu faccia la manovra col serbatoio aperto e il tappo penzolante!

(continua…)

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venerdì 24 Agosto 2007, 20:37

Los Angeles (2)

(segue dalla prima puntata…)

Mulholland Drive è la strada che si snoda, in modo estremamente tortuoso, proprio sul crinale delle colline che separano Los Angeles dalla Los Angeles aggiuntiva che si è sviluppata sull’altro lato, che comprende posti come Van Nuys, Glendale e Burbank, oltre agli Universal Studios. E’ giustamente famosa non solo come posto per imboscarsi, ma anche perché la vista è magnifica, e la guida sarebbe divertente se non ci fosse di mezzo il cambio automatico. Il cinema l’ha sfruttata ampiamente per queste sue caratteristiche: del resto, sarebbe difficile ambientare un incidente stradale minimamente pittoresco in qualsiasi altro posto di Los Angeles, visto che il resto è costituito da stradoni larghi e dritti con un semaforo ogni duecento metri.

Lungo il percorso, si attraversano le più alte e remote delle villazze, perchè tutto il versante a sud è occupato dalle ville degli straricchi, e tappezzato di cartelli che invitano a non passare di lì, che sparano a vista (metaforicamente, si spera). Ci si può fermare ogni tanto a fare foto, schivando i cartelli che intimano di non mettersi lì. Insomma, un ambiente dove ti senti benvenuto… Però è davvero un bel giro.

Arrivati al passo Cuenahoga, occupato in forze dall’autostrada 101, potete persino, come ho fatto io, provare l’inseguimento alla scritta HOLLYWOOD. Già, perchè la famosa scritta sulla collina, nonostante tutte le immagini che avete visto, non solo è chiusa e guardata dai cani, ma è anche a parecchi chilometri dal mondo civilizzato (ve l’avevo detto che tutto è molto più lontano di quello che sembra…). Io sono riuscito ad arrivarci piuttosto vicino solo col mio fiuto per l’orientamento, per cui annoto le indicazioni: percorrendo il passo verso nord sul Cahuenga Boulevard, potete infilarvi nelle villette di Hollycrest come ho fatto io, anche se sparano a vista; oppure potete prendere il Barnham Boulevard. In entrambi i casi, dopo un po’ incrocerete sulla destra Hollywood Lake Drive; salendo di lì, si incrocia Wonder View Drive (nomen omen) e poi si piega a destra verso il lago Hollywood, che è in realtà un enorme bacino artificiale.

A questo punto siete veramente nella terra di nessuno, fuori dalle villette; ci sono solo il sole, il lago e qualche jogger solitario. Imboccate Montlake Drive lasciando il lago sulla destra, e dopo un po’ di curve vi apparirà la Scritta. Andando ancora avanti, entrerete in un’altra zona di villette per Tahoe Drive, fino alla sua fine; quello è uno dei punti più vicini. Proseguendo a destra, si sale e si finisce in Mulholland Highway, che è una strada strettissima: siete arrivati proprio in mezzo alla famosa lottizzazione per cui la Scritta fu creata. Le strade e le case sono quasi interamente di inizio secolo: ve le raccomando. Potete comunque scendere per la ripida Ledgewood Drive, che poi confluisce in Beachwood Drive, che sarebbe l’arteria principale di questo quartiere augusto, collinare ed esclusivissimo. Vi stupirà per quanto tempo dovrete guidare prima di sbucare sulla Franklin Avenue in un incrocio totalmente anonimo – mai direste che quella è la svolta per un quartiere tanto grande e ricco.

Ecco, questo è ciò che vale la pena veramente di fare, a Los Angeles. Ve lo dico perché, in compenso, Hollywood vera e propria è un pacco clamoroso: in pratica, si riduce a un solo isolato di Hollywood Boulevard, quello col centro commerciale, la fermata della metro (Hollywood/Highland) e il famoso cinema orientaleggiante, il Mann’s Chinese Theatre. Lì è dove mettono il tappeto rosso e fanno le riprese in televisione: anche quando sono passato io, c’era la prima di tal film Superbad – dagli autori di Quarant’anni vergine – con due sconosciuti in mezzo ai flash, e centinaia di persone in delirio. Ma in delirio perché?

Attorno a quello, il resto di Hollywood – gli isolati con le stelle sul marciapiede, che viste da vicino sono solo simpatiche decorazioni da marciapiede e anche un’idea un po’ cheap, adesso piazziamo i nomi dei compositori classici davanti al Regio e diventiamo la capitale della lirica? – sono edifici cadenti e pieni solo di negozi di chincaglieria per turisti. Basta girare l’angolo per ritrovarsi nel solito mare di casette, negozietti e fast-food col drive in.

Il centro non è tanto meglio: esso si divide in tre parti. Quella più meridionale, attorno alla settima strada, è piena di centri commerciali, alberghi storici e grattacieli di banche; non è male, ma è come la zona degli affari di qualsiasi altra città americana, cioè uno scimmiottare Manhattan. Bella la salita sulla collinetta di Bunker Hill, con il piccolo museo Wells Fargo, da cui si sbuca sul Museo d’Arte Contemporanea (pensavo che Isozaki fosse sopravvalutato, ma dopo aver visto questo suo edificio – indistinguibile dai palazzi dove abito – mi chiedo se sia veramente un architetto famoso) e sulla nuovissima Walt Disney Concert Hall, del cui andamento a nastri metallici certamente avete già visto milioni di foto.

Quella subito più a nord, invece, è la zona dei palazzi pubblici: il peggio del peggio. E’ come Bucarest, moltiplicata dieci volte in dimensione. Squallida uguale, tronfia uguale, sporca uguale, e piena di barboni uguale (anche se i barboni a Los Angeles sono ovunque, persino sull’elegante passeggiata a mare di Santa Monica). Ci sono persino i fregi a mosaico in stile Alexanderplatz.

A margine, c’è Little Tokyo. Che è una fregatura: sono due isolati, di cui uno nel parcheggio di un hotel. Vero, ci sono negozi giapponesi veri, con scritte giapponesi e persino le guide telefoniche in giapponese. Ma il cosiddetto “villaggio giapponese” è un fintume commerciale per turisti. Stessa cosa Chinatown: in realtà non c’è, perchè la rasero al suolo negli anni ’30 per farci la stazione. Poi si son resi conto che non era gentile e che ai turisti piacciono le Chinatown, e allora hanno costruito una impalcatura di tubi su una strada a mo’ di portale, e hanno detto “questa è la nostra Chinatown”.

L’unica parte del centro che merita veramente è quella messicana, di cui vi parlerò domani!

(continua…)

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venerdì 24 Agosto 2007, 16:21

Carabinieeriiii…

Oggi dovevo fare una denuncia: quindici mesi fa ho perso un paio di chiavi della macchina (la denuncia serve perché siamo in Italia, e la ditta di noleggio e il meccanico vogliono pararsi il sedere in caso di successivi casini). Così, ho deciso di vedere se c’erano un commissariato o una stazione dei Carabinieri comodi per il giro di commissioni che dovevo fare.

Sul sito della Polizia, è facile: c’è un bel link Dove siamo proprio nella testata, che porta a un modulo di ricerca, che presenta una mappa interattiva (non è quella di Google ma funziona decentemente).

Sul sito dei Carabinieri, invece… niente. Ci sono, in bella evidenza, i comunicati stampa, le gare d’appalto, persino Giochi e Download, per non parlare della leggendaria rivista Il Carabiniere, ben nota a tutti i conoscitori dell’arma. C’è un link a una misteriosa “Stazione CC Web”, che poi sarebbe una animazione 3D con una carabinieressa virtuale che sembra un incrocio tra Lara Croft e Mary Poppins. Ma la posizione delle caserme – che, a naso, mi sembra la cosa più frequente che uno vorrebbe sapere dai Carabinieri – non c’è. O meglio, c’è, se schiacciate su Informazioni, poi scrollate di un paio di paginate, e trovate Dove siamo. Ben nascosto. Si sa mai, magari così la gente va dalla concorrenza e noi abbiamo meno lavoro da smaltire.

Devo comunque aggiungere la mia solidarietà al poliziotto che ha infine raccolto la mia denuncia al commissariato di Polizia di Madonna di Campagna (proprio sotto la sopraelevata). Certo, l’inizio è stato un po’ kafkiano, con una freccia sul portone principale che dice “l’ufficio amministrativo è nel palazzo successivo”, e poi un cartello sul portone dell’ufficio amministrativo che dice “però le denunce si raccolgono in corso Grosseto 283” – e poi sta all’utente capire che corso Grosseto 283 è il portone principale da cui si è partiti. Certo, io sono entrato alle 14,15 e fino alle 15 non si è presentato nessuno, nonostante il cartello dicesse che le denunce si raccolgono dalle 8 alle 20,30 con orario continuato. Certo, il poliziotto ha allargato le braccia e mi ha detto che avrebbe dovuto mandarmi via, che non c’era bisogno di fare una denuncia per una sciocchezza simile (e concordo con lui).

Ma intanto, oltre a passare dieci minuti ad annotare i dati della mia auto a noleggio, si è dovuto subire il tizio prima di me, che voleva “denunciare” che la firma obbligatoria in corso Giulio Cesare per lui era scomoda, e voleva spostarla lì; e quelli dopo, che – oltre a conoscere quello prima e a salutarlo con grandi pacche sulle spalle – volevano denunciare il vicino cinquantenne che guardava troppo intensamente il culo di lei quando si incrociavano sulle scale. Del resto, l’ultima volta che avevo fatto una denuncia (di smarrimento del foglio complementare della vecchia Punto da rottamare: ah, la burocrazia delle auto), prima di me si era presentato un tizio per denunciare che, al suo paese in Sicilia, il vicino aveva un sacco di galline, e quindi era un sicuro untore di aviaria: non poteva la polizia andare là ed ammazzargliele tutte?

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giovedì 23 Agosto 2007, 16:26

Los Angeles (1)

In questi giorni sto scrivendo un po’ di commenti e ricordi sul mio viaggio a Los Angeles dell’altra settimana; siccome sono abbondanti, li posterò un po’ per volta, a puntate.

Nel complesso, questo viaggio resterà nei miei ricordi come alcuni giorni densi di sensazioni interessanti, e di un po’ di apertura rispetto a quella percezione di aria chiusa, di frustrazione e di asfissia che, qualsiasi cosa si pensi, si respira ormai da troppo tempo in Italia (vedi la discussione sul signor Rossi).

Parte di ciò, in effetti, è data dalle numerose esperienze intra-extra-sensoriali, cominciate con il viaggio di andata, e culminate quando, verso le tre e mezza di mattina nel mio lussuoso albergo di Santa Monica – peraltro gestito da una manica di stagisti orientali che non avrebbero saputo mandare avanti neanche una lavanderia -, dopo essermi rigirato varie volte nel letto senza riuscire a riprendere sonno, mi è apparso in persona Don Henley a cantare per intero Desperado, apposta per me, dall’inizio alla fine, e poi persino a rifarla tutta da capo come un bis, giusto per essere sicuro che il messaggio fosse chiaro: una esperienza profonda, che ti cambia la vita.

Los Angeles, in effetti, è così: un miraggio, una entità irreale che apre una finestra su un modo di vivere completamente diverso. La prima impressione non è granché, ma probabilmente è proprio perché la città è troppo diversa dalla nostra concezione: un rettangolo lungo la costa di cento chilometri di lunghezza per quaranta di profondità, con vari tentacoli aggiuntivi. Solo recentemente hanno permesso la costruzione di grattacieli, per cui ci sono solo due o tre punti dove la città, vista dalla collina, emerge in altezza; il resto è una distesa infinita di case basse, in certe zone più dense, in altre meno, intervallate da autostrade, zone industriali, zone commerciali (tendenzialmente piccole, fatte di negozietti e fast food) e degli enormi canali di cemento (da noi noti per la scena di inseguimento in Terminator 2) che fungono da fogna a cielo aperto. Los Angeles è un enorme reticolo, in cui le vie – avenue da nord a sud, boulevard da est a ovest – sono lunghe ciascuna trenta o quaranta chilometri, ed è sempre affascinante reincrociare la stessa via a distanze siderali e in tutt’altro contesto.

Ci sono, comunque, anche dei vantaggi, al di là della vitalità commerciale e culturale della città. Per esempio, il clima: non fa mai veramente freddo. Poi ci sono le spiagge: ampie, di sabbia, e completamente libere, persino davanti alle località più note (qui il concetto di “stabilimento balneare” è sconosciuto). E ci sono le colline: l’unica parte paesaggisticamente bella della città, che sovrasta tutta la famosa infilata di quartieri e comuni sui Sunset e Santa Monica Boulevard: da ovest a est, Downtown, Silverlake, Hollywood, Beverly Hills, Century City, Westwood, Bel Air, Brentwood e infine Santa Monica, lo sbocco al mare.

Ma non fatevi ingannare: non sono veramente dei quartieri o delle cittadine come intendiamo noi, con un centro, un monumento, una piazza, qualcosa che funga da punto di aggregazione. Sono distese di case, interrotte ogni tanto da qualche casa più storica o famosa che definisce il circondario. Per dire, più a sud, Wilshire Boulevard a ovest del centro è una delle zone storiche e famose; ma non è che una infilata di palazzi più belli e più vecchi, costruiti a inizio secolo sulla vecchia strada per il mare, in mezzo al generale mare di anonime palazzine e negozietti.

Le colline, comunque, meritano la visita; potete fare come me, e noleggiare una macchina, anche perchè visitare Los Angeles senz’auto è sostanzialmente impossibile. Qui, più ancora che nel resto degli Stati Uniti, vale il primo principio del turista europeo in America, ossia TUTTO E’ MOLTO PIU’ LONTANO DI QUELLO CHE SEMBRA. “Due fermate di metro” sono facilmente quattro o cinque chilometri. “Tre o quattro isolati” sono mezz’ora a piedi. “E’ solo il paese dopo” vuol dire mezz’ora di macchina, fermi negli eterni ingorghi delle insufficienti autostrade (solo una ventina, a quattro-sei-otto corsie per senso di marcia) che attraversano la città. Per dire, io, per spostarmi dall’albergo di Santa Monica a quello di Hollywood, ho noleggiato un’auto per un giorno: vista la distanza e il traffico, costava praticamente come il taxi.

L’auto si è poi rivelata essere una Ford Focus, che però non sembrava nemmeno lontana parente della Focus nostrana: berlina, stretta e alta, e con l’aria di ribaltarsi da sola. Ero peraltro l’unico che avesse noleggiato una classe A in quel posto nelle ultime tre settimane, per cui mi hanno dato l’unica che avevano: targata Oklahoma. E’ stato un po’ come girare per Torino con la targa di Caltanissetta.

Io l’ho presa e per prima cosa sono andato al Getty Center di Brentwood (da non confondere con la Getty Villa di Malibu), un enorme centro museale realizzato da un benefattore talmente sovversivo da dotare sì il tutto di un enorme parcheggio sotterraneo, ma da realizzarlo lontano (c’è un trenino di collegamento) e soprattutto da far pagare il parcheggio anziché l’ingresso al museo. Il museo è così così, una collezione di arte europea completa ma uniformemente di livello relativamente basso, a parte un paio di Rubens e di Tiziano. Il posto, però, è meraviglioso, in cima alla collina, in mezzo al verde bruciato dal sole, costruito con travertino originale di Tivoli portato fin là con una ventina di transatlantici. Potete anche guardare la città dalla terrazza, o meglio la potreste guardare se non fosse coperta – permanentemente – da uno strato di foschia rossa e solida spesso un paio di chilometri: l’aria più inquinata del pianeta, persino più di Milano.

Il vero clou, però, è stato uscire di lì nel tardo pomeriggio di una tranquilla domenica d’agosto, e imboccare la vicina Mulholland Drive, percorrendola tutta, fino a Hollywood.

(continua…)

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mercoledì 22 Agosto 2007, 10:17

Valentino Rossi

Volevo evitare la questione, perché so che su questo finirò per litigare con la maggior parte dei miei lettori, ma l’abbondanza di commenti a questo post – seppure a scoppio ritardato – mi spinge a chiarire meglio il mio punto di vista sulla questione di Valentino Rossi e della sua presunta evasione fiscale.

Che è una questione interessante, perché l’Italia si è abbastanza spaccata: una maggioranza a condannarlo in modo addirittura violento, mettendolo alla gogna su tutti i giornali; e una minoranza a farne una vittima e un eroe. Io credo che nessuno di noi abbia i dati per giudicare, ma tendo a stare dalla sua parte; per l’istintiva repulsione alle cacce alle streghe, e anche per altri ragionamenti.

Rossi deve pagare le tasse, su questo non ci piove; su questo le critiche hanno ragione. Le suddette critiche, però, partono quasi sempre dando per scontato il fatto che Rossi abbia veramente evaso le tasse, senza dargli alcun beneficio del dubbio: come mai? Io ho notato in moltissime delle invettive contro Rossi una componente aggiuntiva che svaria tra la frustrazione, l’invidia e il desiderio di vendetta; come se gli si dovesse far pagare il fatto di essere ricco e famoso, e in qualche caso anche quello di avere un commercialista più creativo del proprio.

Anche nei commenti che ho ricevuto, ho notato una preoccupante tendenza a strutturare la questione come “a lui 100 milioni di euro non servono davvero, per cui lo Stato è giusto che ne prenda 60”. Con lo stesso principio, però, si potrebbe dire che a lui per vivere bastano centomila euro l’anno, per cui lo Stato potrebbe tassarlo al 99.9%, no? Questo è il principio base delle società comuniste: tutto è dello Stato e ognuno riceve “ciò che gli serve” a giudizio del governo. La nostra società non dovrebbe funzionare così, e noto appunto alcune preoccupanti lacune collettive sulle basi filosofiche di una economia di mercato, sperando di non dover riaprire (nel 2007…) la discussione sul perchè l’economia comunista e la società moderna siano incompatibili.

Comunque, la questione di Rossi è legalmente complessa, perché esistono un accordo bilaterale per cui i cittadini italiani residenti in Inghilterra pagano solo le tasse inglesi, e una legge inglese che permette agli immigranti in Inghilterra di pagare le tasse solo sui redditi generati là e non sul resto. Vuol dire che Rossi deve pagare ad altri paesi le tasse sul resto del reddito? Non si sa, è una questione da avvocati; ovviamente Rossi sceglie l’interpretazione favorevole a se stesso, lo Stato italiano anche, e si vedrà in tribunale. Ma ciò non mi sembra poter giustificare la conclusione che Rossi ha volontariamente e consapevolmente evaso le tasse, tale da sbatterlo su tutti i giornali come un mostro; se mai, si è trasferito in una nazione che (oltre ad essere un paese molto più civile del nostro) gli praticava condizioni migliori: è un reato? Capirei fosse andato ad abitare alle isole Cayman, ma a Londra

(In qualche caso ho letto qualcuno sostenere che sì, bisogna vietare ai ricchi italiani di trasferirsi altrove, per non privare il Paese del loro apporto fiscale. Era la stessa persona che sosteneva con fuoco e fiamme che non si potesse limitare la mobilità degli immigranti extracomunitari e il loro diritto a stabilirsi in Italia: evviva la coerenza.)

A me poi inquieta molto l’interpretazione fornita dal fisco italiano, secondo cui, anche se Rossi da anni abita a Londra, il fatto che abbia “affetti” e “interessi” in Italia autorizza l’Italia a prelevare la maggior parte dei suoi redditi. E’ una mentalità un po’ mafiosa, del tipo “puoi scappare, ma di noi non ti libererai mai”. Soprattutto a fronte dell’incapacità dello Stato italiano a gestire bene i soldi che gli affidiamo (altro che Svezia), per cui il piano strategico del fisco è centrato sull’aumento della pressione fiscale sulla parte produttiva del paese, invece che sull’eliminazione degli sprechi e delle spese inutili. Se poi l’esito di tutto questo è che la suddetta parte produttiva o emigra o evade o chiude l’attività, non vedo un grande futuro per l’Italia.

In questo senso, è appena normale che per la suddetta parte produttiva Valentino Rossi sia diventato un eroe: non è mica perché avrebbe evaso, se mai è perché questo caso, che da chi vede evasori e sfruttatori in ogni ricco è visto come il prototipo dell’arroganza del singolo, da chi invece si sbatte e crea ricchezza (per sè e per gli altri) è visto come il prototipo dell’arroganza dello Stato. In pratica, per questa fetta del Paese il signor Rossi è diventato il simbolo dell’italiano intraprendente che ha unito il talento ad anni di sacrifici, ha avuto successo, e invece di venire ringraziato ed apprezzato si trova fuori dalla porta la polizia, che a nome di raccomandati, assenteisti e politici gli porta via la maggior parte di ciò che ha guadagnato. Qualsiasi piccolo imprenditore del Veneto, qualsiasi manager milanese si è identificato con lui; ma anche gli istituti di insigni economisti come Sergio Ricossa.

Non so se sia più immorale il ceto che ci governa, o quello stuolo di gente che con la scusa degli evidenti sprechi, inefficienze e privilegi della politica evade (questa volta senza ombra di dubbio) le tasse. So però che l’immoralità dei secondi, unita alla pressione fiscale più alta d’Europa per molti versi, fa molto per aumentare l’evasione e solleticare l’immoralità dei primi.

In questo circolo vizioso, più le tasse aumentano e più cresce il numero di chi trova giusto evaderle, e più aumenta l’evasione e più aumentano le tasse per chi le paga. Non credo che sia possibile spezzarlo solo con la forza: gli unici dati che ho trovato sono del 1998 (ma ne avevo letti di simili per anni più recenti), in cui, per recuperare 2498 miliardi di evasione fiscale, lo Stato ha speso 2402 miliardi di lire in personale e strutture; quanti ne abbia spesi il resto d’Italia duranti gli accertamenti, compresi quelli a sproposito, non è dato sapere.

Insomma, l’unica strada è probabilmente un patto con gli italiani, basato su tasse decisamente più basse e su uno Stato che sia un esempio di moralità.

[tags]valentino rossi, tasse, evasione fiscale[/tags]

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mercoledì 22 Agosto 2007, 00:07

Meteoromanzia

In questi due giorni sono uscito di casa varie volte.

Una volta, ieri a pranzo, ho inforcato la bici; ho fatto appena in tempo ad arrivare al mio appuntamento che ha cominciato a piovere, e ho dovuto ritornare indietro sotto la pioggia e poi per strade allagate dal temporale (in piazza Rivoli l’acqua arrivava a mezza ruota).

Un’altra volta, oggi a pranzo, sono uscito a piedi – visto che non pioveva – per andare a un appuntamento in piazza Massaua, a due minuti di distanza. Sono salito sull’auto del mio corrispondente mentre cadevano le prime gocce. Al ritorno, sono stato accompagnato proprio davanti a casa, ma mi sono lo stesso lavato nei venti metri fino al cancelletto di casa mia (intelligentemente collocato all’aperto e senza protezione).

Così stasera, quando sono uscito per andare al pub, ho deciso che non mi sarei fidato: aveva smesso di piovere da un po’, ma ho ugualmente preso l’auto che avevo previdentemente messo in garage. Naturalmente, negli otto minuti netti di macchina da casa mia a piazza Arbarello si è scatenato una specie di tifone caraibico che ha rovesciato ondate d’acqua su tutti i presenti. E io mi sono bagnato un po’ scendendo dalla macchina; ma poco, perché avevo l’ombrello. Tiè, Giove Pluvio!

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