La fine del sogno
Il quindici ottobre è ancora, a trentanove anni di distanza, una triste ricorrenza per molti. E’ il giorno in cui, a 24 anni, morì tragicamente Gigi Meroni, il numero sette del Toro; così giovane, già un mito di calcio e di vita per tutta la sua generazione.
La sua breve esistenza fu tutta nel triangolo industriale che spingeva allora il boom stupefacente dell’Italia: nato a Como, svezzato calcisticamente al Genoa, esploso definitivamente al Torino. Per la buona borghesia sabauda, tuttavia, Meroni fu il prototipo del dësgrassià : barba e capelli lunghi, abitudini eccentriche, vestiti da Beatle, mansarda da pittore (pare persino di talento) in piazza Vittorio, e vita nel peccato, convivendo senza sposarsi con una ragazza che per lui aveva mandato a monte il matrimonio concordato dai genitori. Notissimi sono gli aneddoti di Meroni che passeggia per strada con una gallina al guinzaglio, o che si traveste da giornalista per chiedere ai passanti se conoscessero Meroni, e cosa pensassero della sua vita dissoluta.
In campo era uguale: imprevedibile, immarcabile, inarrestabile, disegnava ghirigori, tanto da rimanere alla storia come “la farfalla granata”. Giocava all’ala, in un ruolo che ormai non ha quasi più senso, travolto dal calcio pompato di muscoli e ingabbiato dalle tattiche totali. Diventò subito un idolo, sia per la vita, sia per le magie del suo gioco, tanto che quando il giovane Agnelli provò a portarlo alla Juve la città insorse, e non se ne potè far nulla.
E poi, la tragica fine, una domenica sera dopo una partita vinta, in un modo apparentemente banale: investito da una macchina mentre attraversava il viale di corso Re Umberto (non avrete problemi a trovare il punto esatto: ci sono fiori in permanenza da quarant’anni). Ma la banalità è solo apparente, visto che l’investitore, neopatentato e diciannovenne, fu quell’Attilio Romero che, trenta e qualcosa anni dopo, da presidente per conto …nelli ammazzò anche il Toro; una coincidenza che se l’avessero messa in un film ti chiederesti quanto pesante avevano fumato gli sceneggiatori. Peraltro, questa è solo la versione ufficiale; vox populi vorrebbe che alla guida dell’auto ci fosse uno o una Agnelli, forse addirittura lo stesso Giovannino, da sempre amante della velocità . Qui saremmo alla fantascienza, ma del resto è difficile spiegare con la razionalità la successiva brillante carriera del mediocre Tilli all’interno del gruppo Fiat.
Ad ogni modo, quello che colpisce a distanza di decenni non è soltanto l’ennesima e indescrivibile manifestazione della sempiterna sfiga del Toro; è come questo episodio sia passato nella memoria collettiva, proprio come, per la generazione precedente, accadde per la tragedia di Superga. Sui forum, in questi giorni, centinaia di persone ormai più che adulte ricordano l’emozione di quella notizia, i poster bagnati dalle lacrime, i funerali, il derby la domenica successiva, vinto quattro a zero con tre gol del suo amico Combin e il quarto della maglia numero sette.
Succede ogni giorno che muoiano persone giovani. Alcune, però, hanno la ventura di diventare un simbolo; assumono un valore universale che va al di là del loro caso personale, e rappresenta ciò che avrebbe potuto essere e non è: la fine del sogno. Come George Best nel mondo anglosassone – identico per tipo, diverso per destino – Meroni è il simbolo della crisi latente negli anni ’60, e di come la fantasia di un mondo diverso ma sorridente, pacificamente liberato dai vecchi pregiudizi, si schiantò al suolo in un mare di buio, portando autunni caldi e anni di piombo.
Chi in quel periodo aveva quindici o vent’anni avrebbe senz’altro preferito che Meroni fosse vissuto, e probabilmente che tante altre cose, nella propria vita e in quelle di tutti, fossero andate diversamente. Dev’essere per questo che, a quasi quarant’anni di distanza, il quindici ottobre ne vedi ancora così tanti piangere.