“Beato il popolo che non ha bisogno di eroi” (B. Brecht)
Il mio club, Geneticamente Granata, era invitato da parecchio tempo per questa sera da Carlo Testa in trasmissione; solo ieri a fine partita, però, abbiamo saputo che ci sarebbe stato Urbano Cairo. E quindi, ci siamo preparati per lo show, coi palloncini, i coriandoli, le sciarpe e le maglie granata; e abbiamo avuto il privilegio di far da sfondo al presidente, e di passare la serata a un metro da lui.
La prima parte di trasmissione, difatti, è un preludio minore, che serve solo a farmi notare l’eccezionale bravura di Carlo Testa – credetemi, da casa non la si apprezza appieno, perchè ciò che vedete è solo una parte di quel che il conduttore deve fare; e Carlo recita bene, organizza bene, sorride e scherza scioltissimo, fa filare tutto senza un intoppo anche quando deve improvvisare. Non è facile come sembra, lo scopriamo noi quando tentiamo dei cori e uno parte mal sincronizzato, l’altro invece, forse per troppa tensione, viene lanciato diverso da come lo pensavamo, con tanto di mini-scazzo tra soci alla fine.
Infine, giunge il momento tanto atteso. Già l’arrivo è un delirio: si rientra dalla pubblicità in un oooooh che non finisce perchè l’Atteso non si materializza, tanto che la regia disperata finisce per inquadrare le quinte e la porta di ingresso dello studio, che non è illuminata e pare il buco di Alfredino a Vermicino.
Poi, a fatica, Urbano Cairo rompe il muro di mani tese a toccarlo, e riesce ad arrivare davanti alle telecamere, sommerso dai nostri palloncini e coriandoli e da cori di olè. E’ subito sciolto, lui e Testa fanno coppia perfetta, si fanno da spalla l’uno con l’altro.
Basta la prima mezz’oretta per esporre, in crescendo, il suo mito. Il mito di Cairo che lavora 130 ore la settimana e dorme quattro ore per notte, ma in realtà anche in quelle quattro ore pensa nel sonno a che giocatori comprare. Il mito di Cairo benedetto dal papà e dalla mamma, lui in studio, lei al telefono per elogiarlo ancora, il miglior figlio che si potesse avere. Il mito di Cairo che quando gli ricordano che l’anno scorso ha fatto la squadra in sette giorni risponde senza esitare “Come Dio!”, anche se dopo qualche secondo si rende conto e ritratta (è pure seduto accanto a don Rabino…).
La gente è in delirio, pende dalle sue labbra, urla con gli occhi: di più, di più – che difatti è il nome di una delle sue riviste… E lui acconsente, e tira fuori altri numeri. Il Toro è vostro, dice, io sento la responsabilità , lo faccio per voi, sono vostro servo. Prosegue con il giuramento sulla testa dei suoi figli (nello specifico, che non venderà il Toro ai russi), un classico tratto direttamente dal Manuale di comunicazione moderna di Berlusconi S., edizioni Mondadori. Alla fine arriva persino, senza che lui debba fare un cenno, il momento del linciaggio pubblico del nemico: alla cauta menzione di Tuttosport in forma interrogativa, prima che lui possa parlare, la folla (cioè io, noi, tutti, sciolti e indistinti nel branco adorante) batte di piedi sulla scena con un rollio lugubre che ricorda quello di un carro bestiame in partenza per Auschwitz. Se fossi in Padovan, starei attento ad uscire di casa.
E’ proprio questo che mi colpisce, alla fine: Cairo in tutto questo sparisce, è lì ma recita una scena, persino quando è onestamente sincero. E’ un personaggio retorico, che evidenzia nella loro nudità le nostre parti peggiori: quelle che ad ogni stacco pubblicitario lo assalgono a gomiti alti per avere una firma, una foto, una stretta di mano. Non lo fanno quasi respirare, lo spingono, lo strappano: tutti, non solo gli stupidi, non solo i deboli. La Gisella (lampante dimostrazione che bellezza più cervello uguale costante; ma che tette!) che dichiara in diretta di fremere per lui. Il cantante granata che gira con copie del suo CD da fargli benedire, e chissà che non ci scappi un contratto. Il tifoso che gli fa firmare la sciarpa e poi chiede conferma a me che si legga bene “Urbano”. L’ospite che ruba due volte la parola al conduttore per fare una domanda scelta apposta per far bella figura col mondo, e il fatto che la risposta sia scontata è secondario. Il vecchiardo di Geriatria Granata che prende il microfono solo per ricordare al presidente quand’è che si erano già incontrati. Tutti in tiro, nel vestito della festa, cercano di vivere di luce riflessa. Gli unici immuni, nella loro innocenza, sono i bambini, che verso lo scoccar delle undici vorrebbero essere ovunque tranne che lì, tirano calci nella schiena a Testa e dondolano dietro Cairo incuranti di rovinargli l’inquadratura.
Spero che queste righe non siano fraintese: anche a me Cairo fa un’ottima impressione, pare generalmente sincero, ed è nel complesso una persona assolutamente fuori dal comune. Ma io, su Cairo, non posso dare un giudizio. Non lo conosco; nessuno di noi lo conosce veramente. Dovrei andarci a cena una sera, guardarlo per un po’ lontano dalle telecamere, per poter provare a capire qualcosa. Dovrei parlare con l’essere umano.
So, però, che non vorrei essere Cairo. Non vorrei esserlo adesso, una vita da privilegiato in corsa a farsi tirare per la giacchetta; e non vorrei esserlo quando, come in tutte le cose, anche per lui la ruota farà un giro a vuoto. C’è troppa umanità in attesa fremente, davanti a lui: Cairo, imponici le mani. Sorridi e saluta il mio bimbo malato. Facci ridere, Cairo, facci divertire. Vendica le nostre vite frustrate da capuffici gobbi e globalizzazioni al ribasso. Facci, semplicemente, sognare.
Ma non deluderci, Cairo, perchè se no diventeremo cattivi.