Saddamorì
La notizia del giorno è ovviamente la pena di morte sentenziata per Saddam Hussein dal suo tribunale iracheno.
Chi ha seguito le notizie a intermittenza di questo processo sa che, come sempre in questi casi, ci sono dubbi sulla sua serietà dal punto di vista legale; Saddam è rimasto senza avvocato per un anno e tre avvocati della difesa sono stati assassinati via via. Ci sono invece pochi dubbi sul fatto che il regime di Saddam fosse sanguinoso e autoritario, e che abbia commesso crimini di massa; crimini che, peraltro, hanno platealmente commesso anche i nuovi potenti di Baghdad e le stesse truppe occidentali di occupazione.
E’ difficile dall’Occidente capire la mentalità dei paesi arabi; sono paesi in cui sia la repressione violenta, sia la censura, sia il conformismo verso una rigida morale collettiva fanno parte della cultura generale, ed è sottile, spesso impalpabile, il confine tra le nostre pretese di un maggior rispetto dei diritti umani e il puro e semplice colonialismo culturale. Proprio come successe in Europa dopo la seconda guerra mondiale, solo una maturazione complessiva della popolazione locale può produrre un progresso stabile verso una cultura di pace e di tolleranza.
In quest’ottica, se è positivo il fatto che il processo sia avvenuto localmente, resta da capire a cosa servirà questa pena, ammesso che resti dopo i vari appelli e che si riesca a farla applicare: anche perchè tutti sanno che il vero motivo per cui Saddam deve morire è appagare la mentalità pistolera dei telespettatori texani, e risollevare i dubbi destini politici dei neoconservatori americani. Il problema vero è tutto lì: nel fatto che, a differenza dell’olocausto europeo, Pearl Harbor prima e le Twin Towers poi non sono state devastazioni sufficienti per impregnare la cultura americana dell’idea che la violenza legale e militare, pur necessaria in situazioni contingenti, non porta mai ad alcun progresso nella pacificazione e nella crescita del mondo.