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Archivio per il giorno 9 Maggio 2007


mercoledì 9 Maggio 2007, 21:21

Inferno

Ok, avrei potuto infilarmi sulle tangenziali invece di fare di nuovo il giro dei viali (stavolta quelli esterni, Cermenate compreso). Avrei potuto fare Pavia – Alessandria; ci ho pensato, ma per una forma di lealtà sono rimasto sulla vecchia autostrada. Però l’esperienza di oggi si avvicina discretamente all’idea che ho di un girone dantesco.

Non intendo offendere chi è nato a Milano o chi ci abita; ognuno è attaccato alla propria città. Io, però, esco da questi due giorni chiedendomi seriamente come ci si possa vivere. Probabilmente, una volta che ci si è dentro, ci si abitua e non ci si rende più conto di quanto male si viva a Milano, o quanto bene si viva in altre città del Nord Italia.

Per dire, il traffico è un problema normale. Ma che l’unico posto per parcheggiare per una notte l’auto non palesemente in divieto, nel raggio di un chilometro, sia su un marciapiede, è insensato. Che tu chieda in giro e tutti facciano tanto d’occhi all’idea che tu trovi strano parcheggiare su un marciapiede, anche. Dopodichè, al mattino ti vergogni, e hai l’idea brillante di spostare la macchina e parcheggiarla un paio di fermate di metro più giù, dove non si paga.

Lo fai, e nel frattempo scopri un altro brutto angolo di Milano, la zona di corso Lodi, viale Brenta e piazza San Luigi. Dove su vie laterali strettissime e dal percorso zigzagante (era tutta campagna, cosa costava fare delle vie dritte e larghe?) ci sono auto su entrambi i lati, più sui marciapiedi, se ci sono dei marciapiedi. Se c’è uno spartitraffico, ci sono auto sullo spartitraffico. Se lo spartitraffico è troppo stretto, ci sono auto con due ruote sullo spartitraffico e due sulla carreggiata. E pare normale.

Se provi a muoverti con l’auto, incappi in un sacco di gente elegante, a bordo di un sacco di auto eleganti: Audi, BMW, fuoristrada, Cayenne. Tutte ferme. Tutte in lotta per cinque centimetri, a colpi di clacson e talvolta insulto, in cinquecento metri di auto completamente ferme. Quelli col fuoristrada, dopo un po’ prendono e passano sui marciapiedi, o persino attraverso i giardinetti.

In più, tutte le vie secondarie sono a senso unico, casuale. Di solito, si inverte a ogni isolato. Quando arrivi su una via un po’ più grande, c’è in mezzo un cordolo o una corsia preferenziale che ti costringe regolarmente a girare nella direzione sbagliata. Dopodichè, arrivi in una piazza rotonda (in modo da perdere l’orientamento) o in un incrocio a cinque vie, in cui la precedenza va per portellate.

Qualunque strada tu prenda per arrivare alle tangenziali, conquistandoti centimetro dopo centimetro l’avanzata come in una trincea, finirai poi sull’autostrada che non solo è piena di cantieri, ma è anche bloccata senza preavviso dopo Arluno. Due chilometri di auto ferme perchè una Audi, un BMW e una 159 si sono toccate e sono finite di traverso tra un cantiere e l’altro. Quaranta minuti di coda.

Ma non è solo il traffico – del resto, anche muovendosi a piedi cambia poco, visto che camminando ti trovi ogni cinque minuti contro un’auto che, due centimetri dal muro e due dagli alberi, si sta infilando sul marciapiede per cercare un “parcheggio”. E’ la gente in metropolitana che (evitando l’acqua che cola in piena stazione Duomo) si mette a litigare per chi ha il diritto di salire per primo sulla scala mobile. E’ l’albergo dove ti chiedono duecento euro a notte per una stanza microscopica col bagno scrostato. E’ il ristorante che ti fa il prezzo fisso per il gruppo compreso dolce, ma del dolce prepara metà delle porzioni necessarie e quando sono finite fa finta di niente. E’ il padrone del catering che, davanti ai commensali, si mette ad insultare le cameriere (“Cretina! Aggiungi dei bicchieri lì! Le bottiglie spostale più in là! Ma come fai a lasciare questa roba qui, che poi uno ci inciampa, scema!”) nell’indifferenza generale, come se fosse normale. Tutto in un giorno solo.

Tornando a Torino, mi sono trovato davanti a un tramonto bellissimo: si vedeva tutto l’arco delle Alpi, dal Monviso in su, con il sole a scendere dietro e tutte le gradazioni dal giallo all’azzurro. Alla fine sono arrivato a casa finalmente rilassato. Passando davanti alla Thales Alenia Space già Alcatel Alenia Space già Alenia Finmeccanica già Alenia Spazio già Aeritalia, mi son detto: la nostra economia andrà un po’ da schifo, ma nessuna quantità di denaro potrebbe convincermi ad affrontare ogni mattina quell’inferno.

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mercoledì 9 Maggio 2007, 08:57

Deglutiamoli

Non ero mai stato all’Università Bocconi in vita mia; ci sono entrato per la prima volta ieri, visto che ospitava la nostra assemblea di Società Internet.

La cosa comincia male, perché sono in ritardo, visto che il mio analista si è scordato della seduta per la seconda volta di fila (è chiaramente una sua resistenza inconscia all’incontro con me; come tale, mi sento titolato a chiedergli di pagarmi ugualmente per le due sedute). Così, a fronte di un inizio riunione alle 13 in piazza Sraffa 13 Milano, io alle 11:40 sto imboccando corso Marche a Torino.

Nel mezzo, c’è la “autostrada” Torino-Milano, quella dove ambienteranno il prossimo numero del videogioco di rally di Colin McRae: chicane ogni chilometro? segnaletica orizzontale a tre strati contraddittori? pullman greci a ottanta all’ora che superano camion a settantacinque? limiti di velocità che cambiano ogni cento metri? tutto questo e anche più: ora (nuovo!) con i cantieri anche da Novara a Milano!

Nonostante questo, con una applicazione rigorosa del principio vauto = vlimite + 40, alle 12:45 sono in viale Certosa, per infilarmi poi nel centinaio di semafori ad onda rossa che intasano la circonvallazione tra piazzale Lotto (che, scopro, è intitolato al pittore e non al più noto gioco d’azzardo) e il Naviglio Pavese. Ho ancora speranza di farcela, visto che ieri ho chiesto a Simone (l’esperto di Milano) se quella della Bocconi, a sud di Porta Ticinese, sia zona parcheggiabile e se si paghi, e lui mi fa: tranquillo! è fuori dalle mura, di sicuro non si paga.

Difatti, arrivo lì ed effettivamente non si paga, nel senso che l’intero quartiere è zona gialla riservata ai residenti; girando lì attorno, trovo in due soli punti rispettivamente venti posti blu (con macchine su tre file) e un pezzo di parco collettivizzato a parcheggio selvaggio. Penso di far brillare la macchina, ma poi, come un miraggio, appare un cartello con la P, che mi guida a un parcheggio sotterraneo da 1,50 euro l’ora (nemmeno tanto), che è proprio sotto l’Università: così arrivo in sala alle 13:15, prima che inizi l’incontro.

Ovviamente l’edificio è strafigo: vi dico soltanto che, stando alle mappe sui muri, non ha un atrio ma un “foyer”, e non ha le macchinette distributrici di cibarie negli angoli, ma una “sala break” con le suddette macchinette incastonate in eleganti chioschi di legno. Il resto è molto milanese, compreso il cartello appeso in multiple copie sul bancone del bar di fronte alle macchinette, scritto in caratteri cubitali in grassetto, che specifica che le macchinette non sono in gestione al bar e quindi il bar non fornisce gratuitamente tovagliolini e altro materiale per fruirne i prodotti.

Tuttavia, comincio a notare alcune cose un po’ strane. Ad esempio, durante la riunione, c’è sempre un fastidioso rumore di fondo, che a tratti diventa così forte da non riuscire a sentire la persona che parla a due metri di distanza. Guardiamo fuori, e scopriamo che attorno all’edificio ci sono almeno tre diversi edifici in costruzione o in ristrutturazione, con tanto di gru, muratori e martelli pneumatici. Diventa impossibile persino chiacchierare del più e del meno, e quindi ci chiediamo: ma come fanno a fare lezione?

Alla pausa, alle tre meno un quarto, andiamo a prendere un caffè e scopriamo un’altra cosa strana: il bar – pardon, la sala break – è pieno, stracolmo di studenti. Sono tutti bambinetti bauscia, firmatissimi dal primo all’ultimo pelo di mutanda, con regolamentari vite basse e marchi bene in vista. Cazzeggiano allegramente. Vabbe’, saranno in pausa, dico io: eppure alle tre e venti sono ancora lì. Esco per fare una telefonata, e verso le quattro non solo sono ancora lì, ma diventano uno sciame, una folla strabordante che annichilisce il mio Nokia insieme ai persistenti martelli pneumatici, e mi costringe a mettere giù. Sono tutti firmati. Saranno centinaia, ma sì e no una ventina hanno dei libri sotto braccio. Uno ha dei volantini di una assicurazione personale, con cui abborda le tipe dalla quarta in su (ai miei tempi però si propagandavano discoteche: come cambiano i tempi…). Due guardano il manifesto di Azione Universitaria che invita gli studenti a un concerto elettorale con Faso, Cesareo e Meyer (non sapevo fossero fascistoni). Gli altri, ridacchiano.

Per carità, la mia è una prima impressione e come tale è probabile che sia sbagliata, ma mi resta l’idea che, ecco, quaggiù non si faccia un cazzo (come peraltro, purtroppo, ormai nella maggior parte delle Università italiane).

Però non mi rassegno, mi ci arrovello, e alla fine ho l’illuminazione: gli studenti sono solo una copertura. Il vero scopo di questa Università è costruire nuovi metri cubi di cemento nel centro città col mercato immobiliare più caro d’Italia. Non può che essere così.

E, rassicurato sul luminoso futuro dell’Università italiana pubblica e privata, mi preparo volentieri per la cena.

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