Per approfondire la discussione sul Tibet, ho cercato di procurarmi altre informazioni dalla rete. I blog italiani confermano quanto ho scritto; non vi ho trovato null’altro che luoghi comuni e opinioni preconcette, fino ad un tizio – no, non lo linko – che pubblica dettagliatissime foto di cadaveri (ovviamente solo quelli tibetani), una cosa veramente disgustosa che dimostra che, pur di sostenere le proprie posizioni ideologiche e nel frattempo magari aumentare pure gli accessi al proprio blog, non ci si ferma di fronte a nessun tipo di basilare rispetto per la morte e la sofferenza umana.
In compenso, ho trovato un gran bel post di un turista francese a Lhasa, risalente a sabato; egli parla con i tibetani e simpatizza per la loro causa, ma racconta anche, con l’occhio imparziale dell’osservatore, cose che i nostri blog tutti “free tibet” si guardano bene dallo scrivere.
Per iniziare, comincia con il racconto dei cinesi linciati dai tibetani con le pietre e con le mattonelle del marciapiede, per poi raccontare che “ho assistito in un’ora a una decina di linciaggi e di risse, talvolta da parte di un gruppo di venti tibetani che inseguono e pestano a sangue un cinese”, e concludere che “viene il momento di attaccare i negozi cinesi: pochi minuti sono sufficienti per sfondare le loro serrande e bruciare il loro contenuto in mezzo alla strada”.
Poi i tibetani spiegano che stanno reagendo a tutto quel che sappiamo, che “non è nella nostra cultura di essere violenti, ma non c’è stata scelta, è a causa dei monaci”; che la loro cultura è trasmessa oralmente, e saccheggiando i monasteri i cinesi la distruggono; che i cinesi gli insegnano come diventare ricchi, ma “noi non vogliamo essere ricchi, vogliamo essere liberi”.
Racconta poi che Lhasa è una città moderna, “high tech”, in gran parte ricostruita dai cinesi negli ultimi dieci anni, ma che i tibetani si lamentano che i cinesi incassano tutti i proventi delle nuove attività e del turismo; che di colpo, migliaia di tibetani hanno dovuto imparare il cinese per trovare lavoro, e che i cinesi guardano male quelli che, venendo dall’India, sanno anche l’inglese; che “Già adesso, a Lhasa, la maggioranza degli abitanti sono cinesi. Ovunque non ci sono che cinesi. E con il controllo delle nascite, noi non possiamo avere che uno o due bambini al massimo, altrimenti tocca pagare il governo. Loro, arrivano ogni anno a decine di migliaia. Abbiamo la sensazione di esserne sepolti.”
Il turista chiede a cinque ragazze tibetane se hanno degli amici cinesi: nessuna ne ha. “I tibetani e i cinesi non si mescolano. I cinesi si riconoscono dalla faccia e dal loro modo di vestire.” Poi continua a raccontare: “Ieri, per la strada, i cinesi individuati in questo modo hanno passato un brutto quarto d’ora. Ci sono stati dei morti, ma è difficile dire quanti. I moti hanno fatto più di 100 morti secondo alcune fonti.”
I tibetani raccontano anche le torture subite dai dissidenti: “In un ristorante per la strada, se vedi un tibetano diresti che è stupido. Ma prima, quando era giovane, era molto brillante, molto colto, e molto dotato per la pittura. Un giorno si è fatto prendere dalla polizia perché sventolava una bandiera tibetana. E’ stato in prigione per 13 anni. Ha subito un lavaggio del cervello, è stato torturato con l’elettricità . Ne è uscito completamente abbrutito, e non si ricorda più niente.”
Il turista francese, prima di lasciare la città , trae queste conclusioni: “La volontà dei tibetani di essere liberi è dunque ancora così forte, forse ancora di più dopo l’accelerazione della colonizzazione cinese in questi ultimi anni. Nello stesso paese, nella stessa città , ci sono chiaramente due categorie di persone che convivono ma non si mescolano. La diffidenza e la collera soffocata dominano le relazioni sociali. Il governo cinese denuncia la morte di cinesi innocenti. Ed è vero: i cinesi linciati e quelli i cui negozi sono stati saccheggiati sono persone degne di considerazione. Ma assistendo a questo scatenamento popolare, ho capito che in questo genere di situazioni non ci sono più né onesti né malfattori. Si è tibetani contro cinesi. Questi cinesi vittime dei tibetani sono vittime anche della politica del loro stesso governo. I tibetani sperano proprio che i cinesi avranno d’ora in poi paura di venire a insediarsi in Tibet.”
Questa è la prima testimonianza di prima mano che leggo, e che non venga da un sito di propaganda di una o dell’altra parte o da qualche media occidentale con chissà quale agenda. Mi sembra che, pur confermando le atrocità che vengono commesse dal governo cinese, il racconto dimostri come la situazione sia molto più complessa, ben lontana dalla visione preconcetta e semplificata del monaco inerme davanti a un carro armato che ne danno quasi tutti i blog e i media italiani. Si tratta di uno scontro etnico tra due popoli, uno autoctono e uno emigrante, che lottano con violenza per lo stesso territorio, con i fucili, con le pietre, con le attività economiche, con l’evoluzione demografica.
Purtroppo, di questo genere di scontri è piena la storia. Di solito, nonostante gli sforzi, essi non si concludono fino a che uno dei due popoli non viene sterminato o cacciato completamente; perché purtroppo la via per la convivenza, quella che richiede la tolleranza, l’accettazione della differenza, la costruzione di una fiducia reciproca, è sempre la più difficile.
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