Cairo (la città , non la persona)
Tutte le mie idee precedenti su questo posto sono state spazzate via prima ancora di atterrare, mentre lo scassone Alitaglia (ma fatela fallire, dai, è triste vederla soffrire così) si avvitava come un cavaturaccioli cercando di infilare la pista dell’aeroporto. Ho capito che c’era un vento della forca, visto che la manica a vento accanto alla pista non solo stava permanentemente orizzontale, ma aveva l’aria del naufrago che cerca con tutte le sue forze di restare aggrappato ad un pezzo di legno per non venire trascinato via dalla corrente. Eppure, Cairo si riassume con una sola parola: caldo. Voglio dire, è il 23 marzo, a Roma piove, e qui ci sono 37 gradi: quando il pilota l’ha annunciato ho pensato a uno scherzo.
Scrivo quando sono in Egitto da circa tre ore; per la precisione, sono sul terrazzo della mia stanza d’albergo, e sto resistendo alla voglia di farmi un bagno in piscina, non tanto perché ieri avevo ancora 38 di febbre, quanto perché sto indossando i miei pantaloni da bagno e devo purtroppo dire che ci entro dentro soltanto in modo nominale, e che se provassi veramente a usarli per dimenarmi nell’acqua esploderebbero come uno pneumatico troppo gonfio. Quindi mi son messo qui, per godermi il vento e il profumo d’acqua e di erba, naturalmente entrambe artificiali, visto che siamo in mezzo al deserto; e anzi mi chiedo come facciano gli inappuntabili camerieri di questo posto ad aggirarsi a bordo vasca in gilè, pantaloni e camicia a maniche lunghe.
Prima di rientrare al fresco dell’aria condizionata, però, ho già da raccontare il mio primo impatto con l’Egitto, maturato durante un’ora di guida tranquillamente allucinata per le tangenziali del Cairo. Già , perchè dall’aeroporto a qui devono esserci una cinquantina di chilometri, tutti attraverso le infinite propaggini di questa città che ha probabilmente tra i dieci e i venti milioni di abitanti. Le tangenziali sono larghe e autostradali, ma il paragone con le altre città del genere finisce qui; in questo posto, le tangenziali e le strade in genere sono teatro di un continuo videogioco che mi ha lasciato ammirato.
Solo qui, per dire, ho visto una superstrada a quattro corsie per senso di marcia in cui viaggiano in parallelo a ottanta all’ora sette auto, quattro sulle corsie e tre sulle righe tratteggiate tra le corsie, in un miracolo di gomito a gomito che non lascia mai più di cinque centimetri a fianco o davanti o dietro a ciascuna auto, costantemente bordeggiando e beccheggiando e superando e controsuperando e oscillando verso destra e verso sinistra. Le macchine non scorrono, si incastrano dinamicamente; proprio come in Out Run, arrivano i momenti complicati in cui hai un camion lento a sinistra, un furgone carico di ceste di vimini sulla destra che lentamente si sta spostando in mezzo, due macchine che si sorpassano subito più avanti, e tu calcoli che l’unica traiettoria possibile per non schiantarti è sorpassare a destra il camion, accelerando per passare davanti al rientro del furgone, ma poi scartando ancora a destra per usare la banchina sterrata e schizzare davanti a tutti; e poi, come se tutti telepaticamente si fossero parlati e senza la necessità nemmeno di un colpetto di clacson, questo è esattamente ciò che accade. In confronto, i zig-zag che faccio io su corso Peschiera quando sono di fretta sono delle innocenti evasioni; credo che guidare qui mi darebbe tutto un altro sprint.
Tutto questo avviene su strade pari a quelle televiste in Iraq: vero, ci sono i segnali e le corsie tracciate, ma sono più che altro di bellezza. Per esempio, qui ho scoperto l’esistenza della mezza corsia: la corsia di sinistra che però a un certo punto, causa restringimento della strada, si riduce a 80 o 50 centimetri, epperò continua ad essere tracciata con la sua brava riga bianca tratteggiata, e ovviamente viene occupata sbordando a portellate in quella a fianco. E poi, ogni tanto c’è l’ostacolo traditore: improvvisamente in mezzo alla strada compaiono un carretto a cavalli, un camion in panne, una voragine, persino un blocco di cemento (mille punti). Nel frattempo, siccome la superficie è irregolare e gli ammortizzatori sono cadaveri di Tiramolla, dopo cinque minuti di viaggio hai già il mal di mare.
Così ho attraversato per quasi un’ora un infinito mare di casupole dallo scheletro di cemento e dai mattoni rossi, tutte col tetto piatto (o più facilmente un altro piano non finito in cima), tutte impolverate dalla sabbia e dal vento, tutte inframmezzate da stretti vicoli e da qualche via sterrata, tutte abitate da un mare di umanità poverissima, con torme di bambini scalzi che giocano a calcio con qualcosa che visto bene non è certamente un pallone, e sembrava più un grosso melone o un globo di creta, non so. E’ una skyline infinita di lineette orizzontali ad altezze irregolari ma più o meno costanti, una specie di segnale discreto che mura l’orizzonte, stipando il terreno di case comunque alte e comunque densissime, perché qui la terra buona è solo a raggio d’innaffio dal fiume, e gli egizi moderni sono troppi.
La cosa però strana da intuire è che la terra qui sarebbe verde e ridente di suo, coperta d’erba che cresce nel limo rigoglioso del fiume; infatti il ponte sul Nilo è uno spettacolo magnifico, una lenta e infinita quantità d’acqua che scivola piano in mezzo a una selva verdissima di piante che sprizzano dure verso il cielo, e sembrano palme più piccole. E’ invece l’uomo che desertifica il limo, costruendoci sopra case su case, strade sterrate e spiazzi da mercato di carabattole e verdure, e premendoci sopra in maniera insopportabile. Ho subito associato questa città a Pechino, ma come suo totale opposto: tanto fredda, ordinata e fiorente quella, quanto caotica, calda e decadente questa. Forse così è come finirebbe Pechino se vi sostituissimo la cultura cinese con quella arabo-cristiana…
Qui, però, a un certo punto succede l’incredibile: qualcosa che non si spiega. Perchè dopo un’ora di auto, in mezzo all’ennesimo ingorgo, all’improvviso dietro la solita riga piatta e irregolare di casupole si stagliano due punte: le piramidi di Giza. E’ indescrivibile l’effetto che fanno: anche a venti chilometri di distanza, si capisce che non c’entrano niente con questo pianeta. Eppure non si riesce a staccare lo sguardo: in fondo, sono solo due triangolini appena visibili in fondo alla foschia, eppure non si riesce a staccare lo sguardo. Non so che cosa diavolo abbiano di speciale, sarà che sono gli unici due triangoli in un mare di lineette orizzontali, sarà che punte a triangolo di cento metri d’altezza non ce n’è molte al mondo, so solo che davvero, veramente non si riesce a staccare lo sguardo. L’autista del taxi deve esserci abituato, non fa nemmeno caso a me che come un idiota passo dieci minuti buoni con lo sguardo fisso su di un solo punto dell’orizzonte.
Alla fine la superstrada sale sopra ad alcune colline, per cui perdo di vista le piramidi ed entro in un altro mondo: questi devono essere i quartieri dei nuovi ricchi (ammesso che ce ne siano). Cioè, sono densi e sabbiosi come gli altri, ma si vede che sono per ricchi: per prima cosa perché lungo la strada compaiono le pubblicità , essenzialmente di università private oppure di negozi di moda. Poi perché appare un centro commerciale, con un trashissimo carrello di cartapesta alto circa dieci metri come insegna, con tanto di cartone del succo d’arancia formato gigante all’interno. E poi perché questi quartieri sono pretenziosi: immaginate, per dire, un palazzotto mediterraneo, tre piani, cinque o sei finestre per piano, ogni finestra con l’arco e una bifora dentro, però il tutto fatto di cemento prefabbricato, replicato all’infinito, in un quadrato di trenta palazzotti per lato, separati l’uno dall’altro al più da due metri di vuoto; e all’ingresso una specie di arco di trionfo greco-romano-egizio, ampiamente dorato, con scritto il nome del progetto immobiliare.
Sì, lo so, sono tamarri: per quanto la cultura araba possieda grandi sacche di raffinatezza, e per quanto gli arabi non siano certo paragonabili ai popoli che raggiungono le vette della tamarraggine (l’intero Sudamerica in testa), e per quanto noi italiani dovremmo stare zitti quando si parla di tarri (sul mio aereo c’era quella che pareva mezza classe quinta dell’ITIS Chanel Totti di Monterotondo), gli arabi ottengono comunque lo Shakirino d’Oro in alcuni settori ben definiti, come i gioielli, i vestiti e la pomposità architettonica. E però qui è tutto nuovo, tutto in costruzione: cavolo, più che Egitto sembra quasi la Turchia.
Ovviamente il mio albergo è proprio in mezzo a questi nuovi insediamenti, dietro l’angolo della sede della CAF (l’equivalente africano dell’UEFA): l’avrà scelto Cairo-la-persona? Comunque, all’elenco di tamarraggini ho dimenticato di aggiungere la musica: il mio albergo ha appena deciso di contribuire all’atmosfera piazzando quattro enormi casse a bordo vasca che ora sparano un remix techno-trance di What A Feeling. Ecco, ora segue la musica dello spot della TIM. Vabbe’, torno dentro e sbarro le imposte.
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