Sapete che sulla questione relativa a Cina, Tibet e diritti umani ho il mio punto di vista, che non è particolarmente allineato con il pensiero unico che ha dominato i giornali e i blog italiani negli ultimi mesi. Mi sembra che troppi in Italia – dove, solo in quest’ultima estate, sono stati assolti o quasi i poliziotti che avevano sequestrato e massacrato di botte gli oppositori politici del nostro governo a Bolzaneto, si sono moltiplicate le retate di stranieri e gli attacchi razzisti ed è stata intensificata l’attività di filtraggio di siti Internet – utilizzino la questione dei diritti umani in Cina per sentirsi più buoni, e per evitare di guardare in casa propria; da parte dei politici, poi, cavalcare i sentimenti anticinesi è un buon modo per distrarre l’opinione pubblica, e magari trovare anche un comodo capro espiatorio per il fallimento economico del nostro Paese.
Comunque, ricordate le settimane che hanno preceduto le Olimpiadi? Sembrava che si stesse andando in guerra: non passava giorno senza che i giornali italiani si interrogassero su come dovessero comportarsi i nostri atleti, riportando gli appelli di politici e intellettuali al boicottaggio e alla protesta. Per un po’, il Dalai Lama ha avuto sui nostri media quasi lo stesso spazio del Papa: bastava che ruttasse e finiva in prima pagina. Le previsioni erano apocalittiche: si anticipavano grandi manifestazioni represse nel sangue, censure continue alle riprese televisive, gare continuamente interrotte dalle proteste e atleti squalificati per aver espresso le proprie opinioni. In più, per buona misura, si prevedeva anche che gli impianti sarebbero stati deserti causa mancanza di cultura sportiva dei cinesi, e che atleti e spettatori sarebbero soffocati per l’inquinamento.
La realtà , ovviamente, è stata ben diversa, cominciando dalla cerimonia inaugurale che nessuno ha boicottato – tranne Berlusconi perché non c’aveva voglia – e che tutto è stata meno che la celebrazione di un regime, lasciando con un palmo di naso tutti i critici che erano lì pronti a gridare alla scandalosa autocelebrazione della dittatura (sono comunque riusciti a criticare lo stesso la cerimonia per il motivo opposto, “non c’erano Mao e il comunismo”). Anzi, la cerimonia ha cercato di comunicare tutta la diversità e la profondità della Cina, con l’esibizione dei bambini delle diverse etnie (Tibet compreso) e facendo notare che la cultura cinese è ben più complessa di un mezzo secolo di comunismo.
Per il primo paio di giorni qualche protesta c’è stata, da parte di gruppi di due o tre esagitati che si sono pagati il biglietto aereo da Londra o da New York per sventolare uno striscione e finire presi a lazzi, a sputi o a schiaffi – a seconda dell’umore – nemmeno dalla polizia, ma dai passanti cinesi che si trovavano lì in quel momento. Per il resto, le gare sono state belle, l’aria pulita – spesso con tanto di cieli azzurri – e gli stadi quasi sempre pieni e calorosi, con ovvia preferenza per gli sport popolari tra i locali. Nessun atleta si è sognato di protestare in gara, esattamente come dovrebbe essere in un’Olimpiade, dove persino russi e georgiani hanno gareggiato insieme in giorni di vera guerra senza andare mai oltre qualche mala parola; il massimo scandalo, a parte qualche caso marginale di doping, è stato lo svedese che ha gettato via il bronzo alla premiazione per protesta contro l’arbitraggio. Ciò nonostante, nelle interviste gli atleti hanno detto ciò che volevano e nessuno li ha limitati; alcuni hanno ribadito le critiche della vigilia, altri si sono resi conto che, tutto sommato, la Cina non era poi così brutta come la si dipinge.
Il terrorismo c’è stato, ma non è avvenuto in Tibet; sono stati gli uiguri, etnia turcofona dell’estremo ovest della Cina, anch’essa indipendentista ma che, non essendo foraggiata dagli americani ed essendo addirittura musulmana, non trova altrettanto spazio sui nostri media.
All’inizio, il Dalai Lama ha elargito sante parole di pace: ha fatto gli auguri e i complimenti alla Cina, e si è messo ad aspettare. E non è successo niente: dopo tre giorni, i giornali parlavano solo più di gare e di successi sportivi. Dopo la prima settimana, il Tibet era al massimo un asterisco in fondo alla generale ammirazione per la riuscita delle Olimpiadi; niente proteste e niente clamore, anzi quel poco di esposizione da violenza che c’era se l’erano fregato gli uiguri di cui sopra e pure Putin e Bush nel Caucaso (dove, incidentalmente, l’offensiva georgiana contro gli independentisti osseti ha fatto in pochi giorni cento volte le vittime degli scontri etnici di Lhasa a marzo). E’ chiaro che così non andava bene.
Così, nella seconda settimana il Dalai Lama ha cambiato tono, e ha cominciato ad alzare la voce. Nessuno però sembrava più interessato, e così Sua Santità si è ridotta a un vecchio trucco da politico democristiano: l’intervista bomba con smentita. Mercoledì, infatti, è andato a dire a Le Monde che i cinesi avrebbero appena ucciso 140 persone in Tibet sparando sulla folla. I politici, i bloggherz – segnalo in particolare l’ineffabile Adinolfi – e i media allineati gli sono subito andati dietro, montando il caso e indignandosi a comando. I giornalisti veri hanno alzato un sopracciglio: 140 morti? In un momento in cui la Cina è sotto gli occhi del mondo? Con migliaia di giornalisti stranieri in giro per il Paese e in attesa soltanto di un caso clamoroso da riportare?
Infatti, puntuale il giorno dopo è arrivata la smentita: scusate, non ho detto ciò che ho detto – ma intanto ha riconquistato le prime pagine, e ha reinnescato il meccanismo.
Riparte quindi l’italico teatrino: primo La Russa, che dalla sua poltrona romana invita di nuovo gli atleti italiani a protestare. Ma il meglio lo dà Margherita Granbassi, schermitrice italiana appena ritornata da Pechino con una medaglia di bronzo.
La Granbassi, dopo aver passato una settimana a chiedere di non pagare le tasse, cambia argomento e passa al Tibet. Esordisce dicendoci che avrebbe volentieri boicottato le Olimpiadi (però non l’ha fatto). Quindi, dopo essere andata, aver gareggiato, aver preso la medaglia e aver avuto il suo momento di gloria senza minimamente fare nulla per il Tibet, torna in Italia e solo allora si ricorda di dire agli atleti italiani che sono ancora a Pechino che (loro) devono protestare. Aggiunge che le Olimpiadi sono state uno scandalo e che addirittura sono stati utilizzati lavoratori schiavizzati e sfruttati per realizzare le medaglie (tra cui la sua di bronzo che si tiene ben stretta al collo).
Eccezionale, infine, è l’accusa alla televisione cinese (con due settimane di ritardo) di censura dello striscione (nemmeno legato al Tibet) da lei esibito nella cerimonia inaugurale, quando la regia televisiva è internazionale e quando è noto che durante la cerimonia di apertura è vietato esibire qualsiasi cosa che non siano le bandiere nazionali, figuriamoci il classico lenzuolo “ciao mamma” scritto a pennarello, che peraltro solo un italiano potrebbe avere l’idea di sventolare in una simile occasione senza sentirsi ridicolo.
A quel punto, qualcuno deve averle fatto notare che parlare è facile ma forse è anche il caso di agire di conseguenza, e lei ha provveduto: oggi annuncia che donerà al Dalai Lama la sua maschera di gara. Addirittura! Che durissimo gesto di protesta! Di restituire la medaglia, naturalmente, non se ne parla nemmeno.
Ora, di fronte a un simile miracolo di ipocrisia – in buona fede, ma pur sempre ipocrisia – che cosa si può dire? Il problema del Tibet esiste; anzi, è possibile che ci siano stati veramente degli scontri, così come è possibile che in extremis qualche protesta avvenga anche all’Olimpiade. Il problema del Tibet, però, è lo stesso dell’Ossezia, del Kosovo, della Cecenia, dell’Irlanda del Nord, dei Paesi Baschi, del Kashmir, del Kurdistan, insomma di qualsiasi parte del mondo dove si trovino due etnie diverse che non riescono a vivere insieme (o, più spesso, che includono minoranze estremiste che non vogliono vivere insieme). In questi casi, gli scontri, le provocazioni e le violenze avvengono sempre da entrambe le parti; quando questi problemi si sono risolti senza lo sterminio o la cacciata di una delle due etnie, è perché le due etnie hanno isolato gli estremisti e hanno imparato ad accettarsi e a convivere.
Per questo motivo, quando l’Occidente prende nettamente le parti di una delle due etnie – spesso per via di interessi geopolitici, economici e militari, come in Kosovo e in Ossezia – fa quasi sempre danno; molto più utile è comportarsi con moderazione e tenere aperto il dialogo con entrambe. Ma fallo capire all’italiano medio.
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