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Archivio per il giorno 24 Marzo 2009


martedì 24 Marzo 2009, 17:07

La metro di Boston

Il nostro viaggio a Boston è finalmente arrivato a Boston, e questo è già qualcosa: siamo ospitati da un’amica che questa settimana è a Washington, e che ci ha lasciato la casa in condivisione con un’altra coppia di ospiti. E’ un’esperienza interessante, perché la casa è veramente americana, in un quartiere davvero americano, abitato prevalentemente da professori di Harvard: quindi si tratta di una immensa distesa di case indipendenti o al massimo bifamiliari, ognuna delle quali di due o tre piani. La nostra conta il regolamentare garage al piano interrato, un primo piano tutto aperto dove si trovano la cucina e il salone, un secondo piano con due camere da letto, e un terzo piano a mansarda con altre due camere da letto. Ogni piano ha il suo ufficetto ovale, ed è da quello del terzo – potere del wi-fi – che vi sto scrivendo in questo momento.

Sicuramente avrete sentito parlare di Boston come più antica tra le città americane (fu fondata nel 1630), come un centro di cultura e di politica. In realtà, la cosa che colpisce subito di Boston è che è la città trasportisticamente più sfigata d’America. Certo, la sua geografia è particolare: il centro si trova su una penisola che si protende sull’estuario di un fiume, per cui i collegamenti non sono agevoli. Qui, però, l’anarchia di mercato americana ha fatto gravi danni: tanto è vero che il progetto per risolvere il problema del traffico una volta per tutte, riempiendo la città di tunnel per trent’anni e 22 miliardi di dollari, ha lasciato in eredità non solo i conti da pagare, ma tutta una serie di polemiche; in particolare da quando si è scoperto che gli appaltatori hanno risparmiato sul cemento, fino a quando un pezzo di tunnel non è crollato sulle auto in transito.

E’ in questo scenario che ho vissuto una esperienza ridicola: prendere la linea grigia (pardon, argento) della metro di Boston, che collega l’aeroporto col centro. Già, perché qualche sospetto dovrebbe venirti già quando compri il biglietto e ti trovi davanti una scritta che dice “aspettate la linea grigia sul bordo del marciapiede fuori dal terminal”. Non è molto normale aspettare la metro in mezzo alla strada, e infatti a un certo punto arriva un bus, vecchio e strapieno di gente pigiata, con sopra scritto “SILVER LINE”. Tu lo prendi pensando che sia la navetta che ti porta alla fermata della metro, e invece no: è proprio la metro.

Già, perché in tutto questo ambaradan di lavori pubblici che partono, si incrociano, poi a metà vengono cambiati, poi cancellati e poi rifatti in un altro modo, a un certo punto hanno scoperto che non potevano far passare i binari della metro nello stesso tunnel sotto l’estuario che ospita le auto dirette all’aeroporto; e così ci hanno messo i bus. Però, quando i bus escono dal tunnel, fanno tutto un giro dell’oca per arrivare all’ingresso del percorso previsto per la metro, dove magicamente (in soli due minuti di cristoni dell’autista) tirano fuori un pantografo e passano all’alimentazione elettrica, diventando dei filobus.

Dopodiché percorrono un pezzo di strada, poi arrivano al punto dove la metro doveva scendere sotto terra; e infatti inizia un tunnel bloccato da una sbarra, al che l’autista tira fuori il telecomando e apre la sbarra, un po’ come facciamo noi per entrare in garage, e poi si infila nel tunnel. Che è un tunnel della metro, di forma quasi quadrata, largo come il bus più 20 centimetri per lato, dove invece dei binari hanno messo l’asfalto; là dove una metro sfreccerebbe a cento all’ora, c’è un povero autista che deve guidare a mano un grosso bus a venti, stando attento a non rifarsi la fiancata nelle curve. Ed è surreale arrivare a delle vere e proprie fermate sotterranee della metro, dove però invece fermano i bus. Un capolavoro di organizzazione dei trasporti pubblici, non c’è che dire!

L’America è così: prendere o lasciare. Alle volte l’esasperazione del marketing dà risultati interessanti: per esempio JetBlue ha trovato un sistema furbo per conciliare low cost e servizio a bordo da major, cioè ti dà gratis le bevande a bordo, addirittura a volontà, ma solo se le chiedi o te le vai a prendere da solo; e il risultato è che la maggior parte dei clienti, sui brevi voli interni, lascia perdere, ma intanto il servizio c’è. Altre volte invece escono fuori aborti come la Silver Line; del resto, se l’obiettivo dei servizi pubblici europei è offrire il miglior servizio possibile senza perderci troppo, l’obiettivo di quelli americani – che, come spiega Homer Simpson, sono rigorosamente per i perdenti – è di trasportare messicani, neri e turisti europei solo a patto di mantenere i conti accettabili; manutenzione, pulizia, frequenza del servizio sono le prime cose su cui si risparmia.

Ieri sera però siamo andati a fare la spesa: e così ho provato un ipermercato americano, quasi dieci anni dopo la prima esperienza a San Jose. Tutto è parecchio caro – Boston è una delle città più care d’America – ma alla fine non ci sono poi tutte queste differenze, a parte il fatto che non potrei mai vivere qui perché non esistono né il salame né lo sgombro sott’olio. Ma c’è la pasta Barilla, De Cecco, Buitoni e Giovanni Rana, e hanno persino i sughi Saclà.

D’altra parte, tutto è in confezioni giganti (c’era del sugo di pomodoro in una tanica di plastica da un paio di litri, come fosse benzina) e ovunque c’è il buffet del cibo a peso: decine di vaschette con ogni genere di piatto, dall’insalata alle bistecche, che tu puoi prendere e mescolare nel tuo contenitore, pagando poi a peso, da sei a otto dollari a libbra: ieri all’aeroporto mi sono sparato un mescolone assurdo di riso, puré, bistecca, manzo e verdure, pesce al forno e pollo in salsa barbecue, eccellente!

Però ancora non mi spiego com’è che qui le scatole di latta siano tuttora prive di anello: sarà che in ogni casa c’è l’apriscatole elettrico?

[tags]viaggi, stati uniti, boston, trasporti, bus, metro, supermercati, cibo[/tags]

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