Una città americana inglese
Boston è davvero una città americana: si capisce che siamo negli Stati Uniti perché una buona metà delle persone che incroci per strada parlottano tra loro in spagnolo. D’altra parte si vede che siamo nel New England: fossimo in California, per strada sentiresti solo spagnolo e basta.
I residui WASP, infatti, se ne stanno ben chiusi nei loro SUV, spostandosi dal garage della villa al parcheggio riservato nel grattacielo dell’azienda e di lì al valet parking del ristorante scicchettoso; è raro che camminino per strada. Questo spiega anche una differenza nei trasporti pubblici: da noi, fuori dai centri, sono abbastanza poco capillari, ma piuttosto frequenti; mentre qui preferiscono frequenze assurde (tipo un bus ogni 30 minuti, 60 fuori ora di punta) ma con linee molto distribuite, in modo che tu abbia comunque una fermata entro due minuti a piedi dalla porta di casa, dato che nessun americano bianco camminerebbe per più di due minuti (fa eccezione Manhattan, ma ne parleremo la settimana prossima).
Ieri, comunque, nel nostro primo giro per la città ci siamo adeguati alla cultura locale, e abbiamo percorso tutto il famoso Freedom Trail: una striscia di mattoni rossi che partendo dal Boston Common attraversa tutta la città portandoti davanti ai principali monumenti della rivoluzione americana (con una sola eccezione, ovvero il sito del Boston Tea Party, che peraltro non esiste più perché la città si è espansa un po’ ovunque verso il mare, quindi ora al posto del molo c’è la sala da té dell’Hotel Intercontinental). Certo, la situazione è un po’ buffa perché praticamente tutto il resto del centro, nei secoli, è stato sostituito con grattacieli: per cui la casetta settecentesca che fu la sede delle assemblee indipendentiste è circondata da edifici alti decine di metri, e nel suo seminterrato settecentesco di mattoni settecenteschi hanno direttamente aperto l’ingresso della metro.
Comunque, la passeggiata è piacevole: porta prima davanti al mercato di Faneuil Hall, a sua volta fronteggiato dalla splendida City Hall, un romantico cubo di cemento progettato da un computer impazzito d’amore, che non si capisce come faccia a non piacere a nessun altro che a me. Poi si attraversa il quartiere italiano, pieno zeppo di ristoranti e di maglie di Ibrahimovic e Del Pippero, e infine si passa su un ponte metallico di inizio secolo tuttora zeppo di traffico (ma preoccupantemente arrugginito) e si arriva a Charlestown, dall’altro lato dell’estuario, dove si può visitare il porto militare e poi salire in cima a Bunker Hill, la sede della prima grande battaglia di indipendenza americana, chiusa tra il fiume Charles e il fiume Mystic e oggi circondata da case elegantissime.
La passeggiata, presa con la dovuta calma, dura tranquillamente tre ore, ed è davvero piena di storia: ed è più di quanto si possa trovare in quasi tutte le città americane. Mentre tornavamo al Quincy Market per mangiare ai baracchini un po’ di tipico cibo americano – pollo in salsa teriyaki e pollo tikka masala – ho pensato che effettivamente valeva la pena di visitare Boston: d’altra parte è l’unica parte di Nord America che potrebbe tuttora passare per una città inglese.
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