Un bilancio culinario
Purtroppo la vecchiaia si sente, dato che oggi sono stati sufficienti due antipasti, due primi, due secondi e un dolce e mezzo (più sei bicchieri di vino) per stendermi e procurarmi la panza piena, l’allegria da vino rosso e cinque ore di sonno non appena rientrato in casa (ho fatto fatica a non addormentarmi sulla metro). Tutto ottimo come sempre, ma se sui primi siamo rimasti sul classico già sperimentato e selezionato negli anni – lasagnette della vigilia di Castello d’Annone e agnolotti d’asino di Calliano – per i secondi, data anche la coda per il fritto misto, abbiamo optato per l’affidabile polenta con merluzzo di Casabianca e per una new entry introdotta da pochi anni e che mi aveva incuriosito: il coniglio ai funghi con polenta di Montiglio Monferrato. Ecco, di questo coniglio bisogna parlare benissimo perché era davvero eccezionale: la carne era rosolata ai bordi e tenera dentro e il sugo ai funghi, con tanto di funghi interi, era eccellente. Sappiamo che il coniglio è roba da professionisti dell’area tra il basso Piemonte e la Liguria, e che mangiarlo richiede dedizione e tanto amore per via degli innumerevoli ossicini; ma questo piatto vale davvero la pena e diventerà certamente un appuntamento fisso.
Per quanto riguarda gli antipasti, che poi sono tipicamente dei piattazzi che potrebbero tranquillamente fungere da secondo, è stata la giornata del carpione: accanto a un classico rodato come la carpionata di cotoletta e frittatina con fagioli di Villa San Secondo, ho deciso di provare la tinca. Lo stand di Cellarengo era poco battuto, senza grande coda, perché anche la tinca in carpione è roba da professionisti, oltre che un piatto necessariamente non economico; eppure dietro a me c’erano addirittura dei turisti inglesi. E così ho scellato (come direbbe Faletti) un discreto sinchiuro e ho ottenuto questo:
Anche la tinca in carpione era davvero ottima: una volta aperto il pesce, eliminate le spine e ignorati gli sguardi un po’ perplessi dei non professionisti che passeggiavano intorno, la carne era tenerissima e soda insieme e il gusto del carpione era perfetto; ce la siamo sbafata tutta mentre percorrevamo la lunga, infinita coda per il ritiro del fritto misto allo stand di Portacomaro, che infatti ci siamo fatti impacchettare da portar via e che costituirà la mia cena di domani (stasera ovviamente camomilla e al massimo una residua frittella di mele). Per i lettori internazionali aggiungo che per fritto misto si intende ovviamente quello piemontese, come descritto su Wikipedia, anche se vi avverto che se mai una volta dovessi trovare nel mio fritto, come sostiene Wikipedia, una “coppia di pavesini con all’interno marmellata o crema al cioccolato”, credo che verrei alle mani con chi lo ha prodotto.
Gira che si gira, comunque, un po’ di roba si porta via: i salamini d’asino, ma soprattutto i dolci – a parte l’obbligatorio zabaione con savoiardo di Revignano che va consumato caldo sul posto. Quest’anno la torta di mele e cioccolato di Corsione è più triste, dopo che poche settimane fa si è conclusa tragicamente la lotta di Michela Sesta – ma anche questo è un modo per ricordare.
Tornando alle sagre, quest’anno l’affluenza è stata incredibile, più ancora degli scorsi anni: addirittura verso l’una e mezza hanno finito i bicchieri di vetro… Pur arrivando presto, già a mezzogiorno allo stand di Calliano ci siamo trovati davanti a una coda epica; ci saranno state svariate centinaia di persone, e la coda iniziava ad almeno cinquanta metri dallo stand (questo anche per l’abitudine degli astigiani di presentarsi lì con pentole e gamelle per portare a casa cinque, dieci, venti porzioni di agnolotti e mangiarsele per i fatti propri; basterebbe che l’asporto venisse gestito con una coda separata e/o limitato al di fuori degli orari dei pasti, tanto se porti via devi comunque riscaldare la roba, ma l’organizzazione non è certo il forte delle sagre). Dopodiché, fatto il bigliettino, mi sono accorto che lo stand funzionava a sportelli; ce n’era uno per il ritiro dei salamini, con poche persone davanti, e due per quello degli agnolotti. La coda epica terminava davanti allo sportello più esterno, mentre davanti a quello più interno c’erano sì e no una ventina di persone, in una coda separata. Che fare? Naturalmente non ci sono transenne, indicazioni, numerini o altre forme di gestione di alcun tipo; funziona tutto ad ammucchiata. Alla fine ho deciso che se la gente si infila automaticamente in fondo a una coda senza guardare come funzionano veramente le cose non è colpa mia, dunque mi sono messo nella coda corta e ho avuto i miei agnolotti in due minuti, quando la maggior parte della gente ci ha messo almeno un’ora; e i ragazzi dello stand, mentre davano gli agnolotti, commentavano perplessi “ma perché la gente si mette tutta di là e nessuno di qua?”. Mentre mangiavamo, comunque, qualcuno dal fondo del piazzale ha cominciato a capire e ovviamente sono iniziate le discussioni; come è inevitabile quando le cose sono disorganizzate, ognuno si fa una propria idea di come debbano essere le regole e poi la difende urlando il più possibile. Non so come sia andata a finire perché, avendo gli agnolotti in mano, il mio istinto di cacciatore-raccoglitore mi ha detto di allontanarmi il più in fretta possibile; niente scatena gli istinti belluini e primordiali delle persone come la fame di agnolotto.
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