Crisi e formaggio
Il formaggio è un cibo che necessita di cura, amore e investimento a medio termine: invece di consumare il latte normalmente, bisogna prenderne una grande quantità e lavorarla fino a farla diventare un piccolo grumo quasi solido, che poi va messo a riposare per mesi, talvolta anni, prima di essere consumato. Per quanto il latte ormai costi meno dell’acqua in bottiglia, la produzione di formaggio – tanto più quanto più il formaggio è duro e invecchiato – è dunque una delle meno remunerative in funzione del tempo impiegato, e in ottica industriale è una di quelle che richiedono un bel po’ di capitale circolante.
Ora è arrivata la crisi, e anche nella vita quotidiana lo si vede da tanti segnali: per esempio il fatto che sul banco macelleria dell’LD siano comparsi i “nervetti di bovino cotti Montana”, ossia non solo si siano ricominciati a vendere pezzi di bestia che ormai sopravvivevano più soltanto nei piatti storici o nel trito per cani, ma che addirittura li si sia “brandizzati” con un marchio di fama, i cui marchettari un tempo si sarebbero ben guardati dall’arrischiare una associazione con un taglio di scarto.
E così, anche il formaggio mostra segni di crisi. Infatti si è costretti ad abbassare il prezzo, e per abbassare il prezzo che si fa? Tagliare su costo e quantità del latte è difficile, visto che il prezzo è già minimo e che “gonfiare” il formaggio non è facile (per quanto si vociferasse di caseifici che buttavano nel calderone della mozzarella un po’ di plastica fusa, tanto se non è troppa non si sente); dunque si taglia sul capitale circolante, ovvero sull’invecchiamento. Invecchiare il formaggio infatti vuol dire spendere in cemento per avere lo spazio per tenerlo, ma soprattutto vuol dire ritardare l’incasso, dato che la spesa per latte e personale effettuata oggi produrrà una vendita tra sei o dodici mesi.
E dunque, ecco il profluvio di formaggi freschi freschi, che paiono appena coagulati, dal colore pallido pallido e – come riportano le confezioni cercando di vendertelo come un plus – dal “gusto delicato” (traduzione: non sa di niente). I banchi dei discount sono pieni di formaggi che guardati in faccia si vergognano da soli; di imitazioni misteriose (oggi all’LD c’era “lo svizzero”, impacchettato in modo da sembrare Emmental ma chissà cos’era) e sottoversioni sprotette (sempre per l’Emmental, va forte l’“Emmental bavarese”); ogni tanto arrischio un acquisto, ma me ne pento sempre regolarmente.
Più preoccupante è però il fatto che la stessa tendenza sia seguita anche da chi il formaggio lo fa sul serio: la stessa formaggeria cooperativa della Val d’Ayas ha smesso da un paio d’anni di fare la fontina stagionata, vendendo soltanto più le forme invecchiate al minimo di legge o quasi; formaggio che ovviamente è sempre di un altro pianeta rispetto a quello della grande distribuzione, ma che ha un gusto timido e dolce, adatto forse ai cerbiatti ma non certo ai rudi montanari. D’altra parte, perché tenere la fontina a invecchiare per mesi in più, quando la differenza finale sul prezzo è del 10% al massimo, e quando comunque i turisti milanesi si ingoiano con convinzione qualsiasi cosa purché ci sia il marchietto sopra?
E così, per trovare la fontina termonucleare – quella tenuta lì per anni, di colore tra il marrone scuro e il rosso acceso, con un etto della quale sarebbe possibile alimentare per un anno la centrale di Trino – bisogna battere le fiere e le cascine… oppure andare a Cheese, l’altra faccia del pianeta formaggio: roba buonissima per gente che può pagare 16 euro una forma da pochi etti di pecorino di Pinzani.
Chissà : temo che questa sia l’inevitabile conseguenza di un mondo che considera il cibo soltanto più una merce come tutte le altre, dimenticando il patrimonio di cultura, storia, emozione e piacere che il cibo dovrebbe portare con sé, per rendere le nostre vite un po’ più ricche. Speriamo che si riesca ad invertire la corrente.
[tags]formaggio, latte, discount, industria alimentare, crisi[/tags]