Sì, sono ancora vivi. Smarcato il punto, vorrei comunque raccontare qualcos’altro sulla veloce gita di venerdì sera a Genova, con i biglietti comprati mesi fa – poco prima che si esaurissero – per l’inizialmente unica data italiana del tour dei Jethro Tull (ora ne hanno aggiunte altre a metà luglio).
Non tutte le leggende del rock invecchiano bene; andando a vedere questo genere di concerto, c’è sempre il rischio di grandi delusioni. E c’è anche un rischio più sottile: quello di trovarsi di fronte non a un concerto ma a una messa, ossia alla stanca riproposizione di un rosario di grandi classici con quarant’anni sulle spalle, suonati secondo il canone e senza più voglia nè energia, soltanto per dare il contentino ai fan in cambio di un biglietto dal prezzo spropositato (ogni riferimento al tour di reunion dei Kiss, martedì prossimo a Milano, è puramente casuale).
La classe si dimostra sul lungo periodo; c’è chi già dopo i primi due dischi ha esaurito le idee (qualcuno ha resistito più di dieci secondi al nuovo singolo di Ligabue?) e chi continua onestamente sulla via già tracciata ma dimostrando l’assoluta mancanza di senso del ridicolo, insistendo attorno ai sessant’anni a sfoggiare vestitini di pelle aderente, chiome fluenti e acuti impossibili in versione ormai afona, cercando di negare il passaggio del tempo (a questo proposito il punto più basso degli ultimi anni è stato raggiunto quando Joe Lynn Turner ha accusato David Coverdale di cantare in playback ai concerti dei Whitesnake, al che Coverdale ha risposto ironizzando sul fatto che Turner si esibisce con una splendida parrucca; ma anche l’idea di rimettere in piedi i Rainbow sostituendo Ritchie Blackmore con lo scarsissimo figlio Jürgen Blackmore, scopo tour in paesi musicalmente gonzi tipo Russia Grecia e Albania, non era male).
I Jethro Tull si sono salvati da tutto questo, perché non hanno mai smesso di suonare e perché hanno avuto il coraggio di cambiare continuamente stile, attraversando blues, hard rock, prog rock, folk rock, new wave elettronica, AOR, jazz/fusion, world music e altro ancora, senza mai perdere la passione. Di fatto, ormai da tempo l’anima del gruppo è ridotta al leader carismatico Ian Anderson e al suo fido chitarrista Martin Barre, che hanno scelto di ridurre al minimo la produzione di nuovo materiale per puntare su una intensa attività dal vivo. Nonostante questo, il concerto è tutt’altro che un “greatest hits” degli anni d’oro; in scaletta ci sono comunque anche brani recenti e altri tratti dai periodi meno conosciuti, ma non per questo meno interessanti – talvolta sono belle scoperte per gli stessi fan.
Il risultato sono quasi due ore di musica, intervallate da una pausa centrale di venti minuti. Si parte alle 21:20 (guai a chi arriva troppo in ritardo…) in modo intimo, con brani quasi acustici; per primo, ripescato dall’oblio, Dun Ringill da Stormwatch, che si rivela un opener fantastico per creare l’atmosfera; e poi due classici deliziosi come Life Is A Long Song e Jack-in-the-Green. Il concerto si scalda passando al blues-rock di Nothing Is Easy e A New Day Yesterday, due pezzi che a tutt’oggi è impossibile ascoltare senza essere trascinati dal ritmo, per poi virare sul rock secco di Cross Eyed Mary e Songs From The Wood; questa è la parte che non convince appieno, perché Cross Eyed Mary è un classico del rock tirato (memorabile anche la cover che ne fecero gli Iron Maiden del periodo d’oro) e a quell’età non è facile averla nelle corde, e perché Songs From The Wood è talmente complessa che rifarla bene dal vivo è umanamente quasi impossibile. Prima dell’intervallo si ritorna ad una atmosfera più intima, con un pezzo nuovo – Hare and the Wine Cup – che non sfigura affatto; poi arriva un vero gioiello, una versione di Bouree in parte fedele all’originale e in parte del tutto nuova, piena di colori e cambi di atmosfera, davvero bellissima.
Dopo l’intervallo è anche meglio; l’inizio è rinascimentale, poi un altro pezzo nuovo, e poi arriva un superclassico come My God, rifatto per intero con grandissimo impatto. Persino quel polpettone melassoso di Budapest (è del periodo in cui andavano di moda i Dire Straits e purtroppo si sente) scivola via senza danno, ma si fanno perdonare perché, dritto sul finale di Budapest e senza un respiro in mezzo, Barre attacca il riff di Aqualung. E’ il delirio; viene giù la sala letteralmente, nel senso che da tutto il palazzetto centinaia di persone si alzano e corrono sotto il palco, causando l’alzata in piedi di tutto il parterre, e addirittura c’è un’invasione di palco, un tizio nudo dalla cintola in su che si arrampica e saluta la platea tutto eccitato prima di venire portato via di peso, robe che non si vedevano dagli anni ’80 insomma. Anche Aqualung è impeccabile, trascina la folla fino a che non finisce, poi la band saluta e se ne va. Il pubblico vuole il bis, e quando si intravede nel buio il tastierista che entra e si siede al piano, che cosa potrà mai attaccare? Ovviamente Locomotive Breath, per chiudere in bellezza.
Valeva decisamente la pena di vederli, anche perché la forma era notevole; la voce di Anderson c’era (da vent’anni ha problemi di voce e non sempre è al meglio) e l’esecuzione è stata impeccabile, nonostante la grande complessità tecnica dei pezzi dei Jethro Tull. Insomma, è stato persino meglio della serata che vidi a Torino ormai sette anni fa… e non capiterà certo più la scena del concerto interrotto da un tizio dell’organizzazione che sale sul palco senza preavviso e, con un accento genovese fortissimo, legge al microfono un pomposo discorso scritto con cui assegnano a Ian Anderson il notissimo premio Mandolino Genovese 2010, davanti a un Anderson basito che non sa se ridere, incazzarsi o chiamare la sicurezza.
Ah, l’approccio a Genova in auto è stato devastante come al solito (treni del ritorno a tarda sera non ce n’erano), ma il luogo del concerto – il PalaVaillant all’interno del centro commerciale della Fiumara, a Sampierdarena – non è male, anche se l’acustica è un po’ da cubo di cemento; io avevo preso la fila più bassa della tribuna est (una gradinata con seggiolini), non vicino al palco ma centrale e rialzata rispetto al parterre di gente seduta, dunque si vedeva e si sentiva comunque bene, perdipiù a prezzo ragionevole (32 euro se ben ricordo). Molto apprezzata però l’idea del parcheggio multipiano del centro commerciale aperto fino alle 3 di notte e dunque utilizzabile per il concerto. Ci mettessero anche una freccia per spiegarti come arrivarci non sarebbe male, io ci sono capitato per caso girando per le viuzze.
Setlist completa: Dun Ringill, Beggar’s Farm, Life is a Long Song, Jack-in-the-Green, Eurology, Nothing is easy, A New Day Yesterday, Songs From the Wood, Cross-eyed Mary, Hare and the Wine Cup, Bouree; intervallo; Past Times with Good Company, A Change of Horses, My God, Budapest, Aqualung; bis, Locomotive Breath.
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