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giovedì 26 Agosto 2010, 13:14

Come rispondere a chi licenzia un Paese

Mi hanno raccontato la situazione di una persona assunta da sette anni a tempo indeterminato in una multinazionale dell’ICT, una delle poche che hanno ancora una sede qui a Torino. A lei e ai suoi colleghi, l’azienda sta offrendo una buonuscita pari a 44 mensilità del loro stipendio, purché si licenzino. Avete capito bene: sono quasi quattro anni di stipendio. Ma cosa significa il fatto che una azienda sia disposta a pagare quattro anni di lavoro di una persona – dopo averla assunta, formata e specializzata per anni – senza nemmeno usufruirne?

Vuol dire che quell’azienda pensa che non solo non c’è lavoro ora, ma non ci sarà nemmeno tra quattro anni; altrimenti converrebbe comunque mantenere il dipendente in organico a guardare il soffitto, per poi ricominciare a farlo lavorare alla ripresa tra due o tre anni. Vuol dire che quell’azienda pensa che da Torino, dall’Italia è meglio scappare a gambe levate, che la nostra economia continuerà a peggiorare anche nel medio termine, che qualsiasi costo da pagare per poter licenziare i lavoratori e chiudere non è troppo grande rispetto al passivo che accumulerebbe rimanendo qui; che la scelta strategica è licenziare l’Italia.

Non è certo l’unico caso: la Fiat, dopo averci ammannito per anni spot strappalacrime sulla “azienda di tutti gli italiani”, aver incassato lustri di cassa integrazione e di incentivi alla rottamazione, ed essersi vantata di essere l’unica azienda a credere nell’Italia, ha annunciato di voler spostare le future produzioni di Mirafiori in Serbia, dove un operaio guadagna 400 euro al mese. Di fatto, è l’annuncio della futura chiusura di Mirafiori, la fabbrica simbolo dell’Italia. Quale è stata la reazione della politica? Nessuna. Qualcuno, al massimo, ha detto “no, dai, cattivelli, così non si fa, parliamone”. Per tutta risposta la Fiat ha cominciato a licenziare i sindacalisti di Melfi e a rifiutarsi di obbedire alla legge. Stiamo ancora aspettando una qualche reazione dello Stato italiano.

Governanti con un minimo di orgoglio, all’annuncio della Fiat, avrebbero risposto così: “Ah sì, vai in Serbia? Bene, sappi che sulle auto prodotte là ti metterò dei dazi di importazione talmente alti che alla fine in Italia, il tuo principale mercato, non ne venderai più una”. Ma l’argomento “dazi” è tabù: per trent’anni ci hanno inculcato il concetto che la concorrenza globale è sempre e comunque un bene e ci hanno fatto entrare in istituzioni internazionali controllate dalla finanza internazionale, dall’Unione Europea al WTO, dove ci siamo legati le mani e tagliati le palle da soli.

Io ho girato il mondo per conferenze e mi sento europeo e cittadino globale almeno quanto mi sento italiano e piemontese; penso che la globalizzazione non abbia solo aspetti negativi ma anche molti vantaggi, primo tra tutti la speranza di un mondo finalmente unito e pacifico. Non voglio certo tornare all’epoca in cui eravamo divisi in tanti staterelli che si facevano la guerra ogni trent’anni, e nemmeno mi attira la miseria pianificata dallo Stato in stile Nord Corea. Ma non possiamo neanche accettare di rimanere tutti in mezzo a una strada, o di vedere l’Italia divisa tra una cricca di arricchiti (spesso disonestamente) e una ex classe media ridotta in povertà, che si contende briciole di benessere in una continua lotta al ribasso. Non ce l’ha ordinato il medico di far parte del WTO o di accettare passivamente la competizione al ribasso e la delocalizzazione delle nostre produzioni, una operazione in cui la quasi totalità del guadagno viene intascata non dagli operai dei paesi in via di sviluppo, ma da un singolo imprenditore di casa nostra, praticamente senza ricadute sociali né qui né là.

L’obiettivo sociale primario di un’azienda, il motivo per cui scegliamo di organizzare le attività umane in questa forma, è creare lavoro e benessere per tutti, promuovendo il progresso e la sopravvivenza dignitosa dell’intera società. L’arricchimento di chi la possiede e di chi la gestisce è un effetto collaterale, anche giusto quando premia l’innovazione e l’intraprendenza, ma che non può venire prima dell’obiettivo primario; e non esiste, non è un diritto di nessuno, la libertà di arricchire se stessi impoverendo i propri concittadini.

Dunque ci sono nuovi modelli economici da trovare, nuove regole, nuovi principi che vedano l’azienda privata e il mercato come uno strumento da usare quando funziona e da rigettare quando non funziona, e non come un fine in se stesso. Discutiamone, studiamo le cose, facciamo esperimenti, magari anche errori: sarà sempre meglio che star qui ad aspettare passivamente il momento in cui milioni di italiani, per sopravvivere, dovranno assaltare i supermercati – o le ville dei Marchionne.

[tags]lavoro, economia, fiat, mirafiori, marchionne, melfi, torino, sindacato, licenziamenti[/tags]

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20 commenti a “Come rispondere a chi licenzia un Paese”

  1. MarcoF:

    Il tuo esempio sulla multinazionale dell’ICT è illuminante, soprattutto perchè si tratta di un settore che generalmente offre servizi ad altre aziende di un po’ tutti i settori (il che dovrebbe far pensare).
    Per quanto riguarda questo argomento ed in generale la situazione in Italia (ed in particolare la classe dirigente, cioè i Marchionne ed i “governanti con un minimo di orgoglio” di cui parli) mi sono divertito ultimamente a leggere questo articolo:
    http://voglioscendere.ilcannocchiale.it/post/2522405.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+Voglioscendere+%28Voglioscendere%29&utm_content=Google+Reader

  2. simonecaldana:

    C’e’ anche da dire che 44 mensilita’ di stipendio sono un po’ quello che serve per mettersi in proprio con un po’ di sicurezza…

  3. Lobo:

    Concordo. E’ un’offerta che non si puo’ rifiutare. O decidi di pesare sull’azienda (e ti aspetta un futuro d’inferno, in giro per il mondo sballottato per le varie sedi estere), o prendi i tuoi soldi, magari fai una societa’ con un tuo collega con un idea interessante, e ti metti in proprio.. magari in Liechtenstein.

  4. Giacomo:

    Utile la notizia dell’offerta dell’azienda ICT, ma il resto del post è farcito di luoghi comuni, sembra che parli di cose che hai letto solo nei peggiori articoli di giornale.

    Prova a informarti meglio perché la situazione che descrivi non è reale così come non è reale il mondo che preconizzi.

    Scusa lo sfogo, ma questa volta davvero non sei informato.

  5. Davide Amerio:

    Anni fa lessi un libricino di quelli clandestini che raccoglieva in sintesi i numeri dei costi delle cig nel nostro paese dal 1977 al 2000. Un numero impressionante di ore di cassa integrazione a sostegno delle “grandi” aziende, palancate di miliardi che non hanno prodotto occupazione.
    Qualche mese fa parlavo con un amico benestante di alcune sue conoscenze:imprenditori che sono andati a mettere la fabbrica nei paesi dell’est, pagano una miseria gli operai e girano con 5 uomini di scorta. Due in casa e tre fuori.
    E’ davvero solo retorica quella di cui parla Vittorio?
    Qual’è il significato di una azienda inserita in un contesto sociale? Vogliamo provare a rispondere a questa domanda in maniera sensata oppure ci vogliamo raccontare le storielle neoliberistiche da laboratorio accademico?
    La distribuzione delle risorse è una questione si o no?
    Essere ricchi e vivere in una campana di vetro perchè se metti il naso fuori casa c’è una marea di gente disposta a farti la pelle per prenderti il portafoglio per sopravvivere… è una prospettiva che ha a che fare con la libertà individuale, il liberismo economico, o con la stupidità?
    Si parla di ITC. Bene: la Fiat ha ceduto ua società ITC ad una grande azienda ITC internazionale che ha subito iniziato a portare il lavoro in India perchè lì gli ingegneri costano meno. Ha senso sostenere una azienda perchè poi, nell’ottica della globalizzazione, il lavoro finisca altrove?
    La globalizzazione doveva essere la panacea che avrebbe risolto tutti i mali del mondo. Non mi pare proprio e se leggiamo un po’ i libri, per esempio quelli della Loretta Napoleoni, Economista, esperta in economia criminale, mi sembra proprio che siamo lontano dall’obiettivo dichiarato.
    E’ davvero così sbagliato pensare che qualcosa va corretto?
    E’ davvero sbagliato pretendere che chi commercia con “made in Italy” abbia almeno il 60/70% di produzione in Italia ?
    Si dirà, ma in Italia ci sono troppi costi.
    Bene, affrontiamo questi costi… che non sono solo il costo del lavoro ma ben altri, tra i quali ci sono la corruzione e lo spreco.
    In molti parlano di precarizzazione… dei contratti. In realtà si è precarizzato il concetto di lavoro tracimando la filosofia della flessibillità in precarietà. L’opportunità di rendere il lavoro un mercato fluido che si muove secondo esigenze produttive è stata clamorosamente mancata da una classe dirigente incolta e compiacente verso le imprese grandi.
    Il problema del lavoro riguarda tutti: dal 20-enne al 60-enne. Perchè si parla tanto dell’età della pensione ma non di come ci possano arrivare quelli che hanno compiuto 45-anni di età che le aziende cercano di buttare fuori e non vogliono più assumere?
    C’è un mondo che è sbagliato perchè si pensa alle grandi teorie, ai massimi sistemi, e non alla realtà quotidiana.
    Non credo le parole di Vittorio siano luoghi comuni, quanto comuni riflessioni per problemi quotidiani ed ordinari.

  6. vb:

    @Giacomo: Mi piacerebbe sapere nel dettaglio quali sono le affermazioni che consideri false, in modo da poterne discutere.

    Comunque non vorrei essere frainteso, sono il primo a sostenere che nel mondo del lavoro in Italia manchino meritocrazia ed efficienza, che ci siano costi inutili dovuti agli sprechi e ai parassiti, che ci sia molto da fare per migliorare la qualità dei nostri prodotti e la nostra capacità di innovare e dunque anche di competere in un mercato globale. Ma tutto questo è inutile se l’unica condizione possibile per competere è guadagnare come un operaio serbo o cinese; ed è anche utopico pensare che tutti gli italiani possano diventare ricercatori universitari o comunque puntare a lavori “top di gamma” eliminando del tutto il lavoro non qualificato.

    L’idea dei dazi non è certo una soluzione a tutto, come scrivevo nessuno vuole diventare la Nord Corea dell’Europa, ma in certe situazioni, per non farsi mettere i piedi in testa, perché no? E in generale, non sarà ora di cominciare a organizzare l’economia in funzione del benessere sociale di tutti anziché la società in funzione della massimizzazione di PIL e profitti?

  7. ff:

    La risposta breve sarebbe uguale a Giacomo, siccome non ho tempo mi concentro su un dettaglio che è alla base di tutte le cavolate che ho letto: accostare “funzione sociale” e “azienda” è la madre di tutto quello che non va nel mondo del lavoro. Con ciò non escludo che liberamente un imprenditore possa decidere di avere una funzione sociale o che si possano fare cooperative, ma se davvero pensi che un’azienda debba avere un funzione di tipo sociale stai violentando i principi base che spingono a rischiare e fare impresa.

  8. Piero:

    > “L’obiettivo sociale primario di un’azienda, il motivo per cui scegliamo di organizzare le attività umane in questa forma, è creare lavoro e benessere per tutti, promuovendo il progresso e la sopravvivenza dignitosa dell’intera società. …”

    E’ un principio tipico dell’economia di comunione dove gli utili sono messi in comune, destinandoli secondo tre scopi: per aiutare gli indigenti, per promuovere una nuova cultura, la “cultura del dare” e per sviluppare l’impresa stessa.

    Esiste una tesi in merito, reperibile in rete, un pdf: http://www.revisorietici.net/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/D.4c19394e18168901dc8c/P/BLOB%3AID%3D1, “Il contributo dell’Economia di Comunione a una cultura della responsabilità d’impresa” e che può essere presa come spunto per trovare nuovi modelli economici, nuove regole, nuovi principi su cui discutere.

    Voglio ricordare che l’utile o profitto è la differenza tra i ricavi e i costi. La destinazione dell’utile è di solito regolata dalla legge in base alla tipologia dell’impresa e al suo statuto. Mettere in comune gli utili significa, in parole povere, restituire il maltolto.

  9. Davide Amerio:

    Attendo con ansia di essere illuminato dai sapienti per le cavolate…sempre che trovino un po di tempo da dedicare al volgo.

    Quanto a cavolate… la separazione dell’azienda, come concetto, dal resto dell’ambiente in cui opera, dicasi sociale, è una “cavolata”.
    Un’azienda si avvale di beni a lei esterni, di persone, ed è soggetta a regole imposte dalle leggi della comunità.
    Ci sono molte definizioni di azienda, e se ne può discutere molto ma, in definitiva, un’azienda opera dentro un contesto sociale,ne viene influenzata e lo influenza essa stessa. Continuare ad immaginare le aziende come macchinette per la produzione di profitti pura e semplice è quanto mai riduttivo e non corrispondente alla realtà, ma solamente a certe teorie liberistiche che hanno prodotto, e continuano a produrre, danni diretti ed indiretti.
    Da non confondere questo aspetto con le “questioni” sociali di difesa del lavoro o di protezione nella fasi di transizione… che è altro aspetto; qui forse, per troppo tempo, ci sono state delle commistioni e delle furberie che poco hanno a che fare con la tutela del lavoro e con il rilancio dell’impresa.

  10. vb:

    La discussione è interessante proprio perché fa emergere grosse differenze su ciò che persone diverse pongono alla base della società…

    @FF: Immagino che per te i “principi base che spingono a fare impresa” siano l’arricchimento personale e la voglia di primeggiare. Tutto bene, e nelle teorie economiche liberiste (sottolineo “teorie”…) la somma degli istinti personali determina l’ottimo per la società. Ma quando nella realtà ciò non accade, perché la legge dovrebbe tutelare soltanto l’imprenditore e non anche le sue decine, centinaia, migliaia di dipendenti e le loro famiglie?

    Tu pensi davvero che una società possa prosperare ed essere stabile nel medio-lungo termine se al vantaggio di alcuni corrisponde la povertà di altri?

    E, al di là di tutto, anche dicessimo che questo è l’istinto delle persone e poco ci possiamo fare (ma qualcosa ci facciamo, altrimenti non saremmo uomini ma bestie), questa prospettiva non ti provoca interrogativi etici? La legge non dovrebbe moderare l’istinto?

  11. Lobo:

    “Tu pensi davvero che una società possa prosperare ed essere stabile nel medio-lungo termine se al vantaggio di alcuni corrisponde la povertà di altri?”

    A dir la verita’, si. Il mondo funziona cosi’ perche’ la GENTE funziona cosi’.

    La gente che ha voglia di fare, nel bene o nel male, finira’ in cima.. o “piu’ in cima” degli altri. E da quel piu’ in cima mettera’ le basi per rimanere in quella posizione.. cosa che ha come effetto collaterale di tenere gli altri piu’ in basso.
    E’ un po’ come per i brevetti: chi ha un idea, ha il diritto di sfruttarla? se si, per quanto?
    Certo, se riuscissimo a annullare i legami di parentela (che so, riproducendoci tutti in vitro senza sapere chi sono i nostri parenti), quelli di amicizia (annullando i nostri contatti sociali di qualsiasi genere),gli stimoli sessuali, magari le cose cambierebbero.
    Ma sarebbe preferibile?

  12. Lobo:

    chiaramente in quest’ottica anche il concetto di eredita’ va estirpato. I figli non possono fare i lavori dei padri, ecc ecc ecc. Un po’ estremo, ma non piu’ estremo dell’idealismo “volemoci bene e siamo tutti uguali”.

  13. Et:

    #Lobo: ‘o signur!!! Ma allora sono tutti cattivi là fuori!!! Io non esco!!!

  14. Lobo:

    fai bene a non uscire. e’ pericoloso la fuori.

  15. vb:

    @Lobo: La gente funziona così, per istinto. La legge però dovrebbe proprio servire a regolare gli istinti a vantaggio di tutti; se no, il primo a cui stai sui coglioni per aver guardato la sua ragazza segue il suo istinto, ti ammazza e poi dice “eh ma la gente è fatta così”.

    Questo non vuol dire sognare il mondo in cui tutti sono grigiamente identici… l’ho già detto venti volte… ma anche in un mondo in cui chi è più intraprendente e capace viene premiato ci sono diverse gradazioni di premio e diverse assunzioni di responsabilità. Anzi, proprio perché una persona è più intraprendente e capace secondo me deve avere anche maggiori responsabilità verso il resto della società.

  16. Luca:

    Sono d’accordo con quest’ultimo commento di Vb, riguardo a questo vorrei segnalare un libro che spiega molto bene questo tipo di organizzazione sociale: “Utopia” di Tommaso Moro.
    Forse già il titolo la dice lunga sulla possibilità di organizzarsi in quel modo ma ci si può comunque avvicinare a un’organizzazione sociale di quel tipo.

  17. Gian:

    Gentili pensatori chi di voi ,in un momento di ozio, si e’ soffermato a riflettere sulla parola “PREGIUDIZIO” ?

    il pregiudizio e’ il giudizio precompilato ,prematuro senza oggettivita’ (con tanta soggettivita’) .

    E’ un male del volgo ,viene esaltato per scopi propagandistici dai governanti per portarsi a casa i voti esaltando l’ES piu’ recondito .

    Il pregiudizio e’ il pane quotidiano dei BAR ,dei luoghi di aggregazione …ricorda quasi lo spulciarsi dei parenti “primati” .

    “il mondo funziona cosi’ perche’ la gente funziona cosi'” e’ una frase degna di un saggio sulla diseguaglianza delle razze umane o qualcosa di simile .

    Chi siamo noi per essere certi di dare un giudizio certo e oggettivo ?

    Qulcuno di voi si sara’ forse lodato per avere in mano la verita’ oggettiva sulla complessita’ delle persone ?

    Meditate …la mia non e’ critica fine a se stessa ,serva invece per “stuzzicare” la filosofia che e’ in oguno di noi .

    Siate voi stessi , senza TV ,senza giornali …siate voi stessi nel mantenimento della vostra norma “soggettiva” ,nel pensiero che vi rende unici ,diversi uno dall’altro .

    L’uomo che conosce l’umilta’ ripudia il pregiudizio , l’uomo che ripudia il pregiudizio puo’ essere creativo .

    L’uomo creativo e’ meritocratico …

    Ritornando al post di V.B. : questi imprenditori e in generale la cultura capitalistica libera non meritano piu’ alcun commento .

    Nei loro meeting parlano della globalizzazione come fenomeno divino o naturale (la globalizzazione imposta dal Nazareno) .

    Ascoltai Montezemolo a mezzo di Radio Radicale : > e poi ancora :>.

    Lui quanti anni ha ?

    Quanti imprenditori Italiani diventano tali poiche’ figli o amici di imprenditori ?

    Io aspetto …saremo noi a pagargli la tessera per la bocciofila .

    con sincerita’

    Gian

  18. Piero:

    In effetti la legge serve per regolare o moderare l’istinto. Ma è sbagliato, perché dovrebbe essere lo Spirito e non la Legge a regolare l’istinto.

  19. robxyz:

    Sono molto in sintonia con le idee che hai espresso, Vittorio: non so se tu l’abbia letto, ma vorrei consigliarti un ottimo libro, “Manifesto contro il lavoro” scritto da un collettivo di studiosi tedeschi nel 1999 e tuttora attualissimo. Integra molto bene i concetti da te ben espressi.
    Io troverei ad esempio molto attuale una pianificazione di impresa sullo stile di quello pensato e voluto da Adriano Olivetti negli anni ’40, quello che invece mi fa riflettere sono alcune reazioni immediate e di chiusura quando si esprimono opinioni serenamente critiche come le tue: perchè il semplice porre delle alternative a qualcosa che palesemente non funziona a dovere porta subito critiche e viene etichettato come “cavolate”?

  20. MarcoF:

    Altro articolo molto interessante, più di taglio economico:
    http://www.noisefromamerika.org/index.php/articles/Due_o_tre_cose_di_politica_economica#body

    In particolare gli ultimi due capoversi parlano di FIAT, dando un’interpretazione e dei giudizi – del tutto personali, ovvio – di come si sta comportando e cosa sta cercando di comunicare alla società italiana (il problema è: ci riesce a comunicare? quello che viene recepito dalla società italiana è quello che effettivamente vorrebbe comunicare?).

    Vorrei comunque aggiungere un paio di cose:

    Si dovrebbe comunque ricordare quando Fiat acquistò dall’IRI a metà anni 80 l’Alfa Romeo e quindi lo stabilimento Alfa Sud di Pomigliano (nel senso come si arrivò a quel passaggio di proprietà e a quali condizioni economiche), come anche si dovrebbe ricordare quanto abbia ricevuto come contributi per la realizzazione di Melfi; se dicessimo che quei 2 stabilimenti (ma probabilmente anche altri) sono stati fatti al 60-70-80% con soldi nostri non saremmo molto lontani dalla verità; questa cosa più di tutte penso dia fastidio ai privati ed agli imprenditori (medi e piccoli) italiani, quando sentono parlare di Fiat e che oggi la criticano per diversi motivi.
    Mio padre ha visto nascere lo stabilimento di Pomigliano e ci ha lavorato come impiegato dalla sua nascita fino all’80 circa, gli proposero infatti di trasferirsi per seguire questo nuovo progetto: mi ha sempre confermato che era uno stabilimento estremamente sindacalizzato e la voglia di lavorare non è stata mai molta (almeno fino a quando ci ha lavorato lui, ma si sa parliamo degli anni ’70). Come anche mi raccontava che al momento della realizzazione il progetto dava l’impressione della classica cattedrale nel deserto ovvero ci si doveva confrontare con la totale assenza di un indotto auto locale.

    Mettere dei dazi sulle auto prodotte all’estero, come proposto, potrebbe sembrare teoricamente una soluzione, ma nel mondo di oggi la vedo di difficile attuazione; qualche anno prima che Fiat acquistasse Alfa Romeo quest’ultima sembrava fosse in procinto di accordarsi con Nissan per progetti futuri (oltre alla bellissima Arna che invece è diventata realtà, purtroppo). Questi progetti futuri avrebbero potuto materializzarsi anche in stabilimenti produttivi in Italia, come in anni successivi sembrava potesse accadere anche per altri costruttori come Ford e Toyota.
    Fiat non ha mai voluto concorrenti in casa propria e penso non se ne sia mai fatto niente per l’influenza che poteva esercitare: averla lasciata spadroneggiare così è stato un bene? Oggi sarebbe così traumatica la sua decisione di andare in Serbia? Il mercato dell’auto è in contrazione da molti anni e quindi da un punto di vista di forza lavoro impegnata in questo settore in Italia poco sarebbe cambiato, ma oggi saremmo sicuramente un’economia ed una società più abituata a confrontarci con l’estero e meno chiusa su se stessa.

 
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