Torino a Shanghai
Quella di oggi era l’ultima giornata piena a Shanghai, e l’abbiamo usata per varie cose.
Prima ho fatto un po’ di shopping, ma senza grande soddisfazione. Da quando sono arrivato mi sono chiesto se, tra i tanti marchi occidentali presenti qui, ci fosse anche il nostro orgoglio cittadino Robe di Kappa. Dopo due giorni ho smesso di pormi la domanda: posso dire senza ombra di dubbio e con grande ammirazione che Kappa è il marchio europeo più diffuso per le strade, e che si vedono continuamente cinesi vestiti con le magliette torinesi.
Speravo dunque di potermi rifare un po’ di guardaroba a prezzi stracciati… e invece ho scoperto un piccolo problema. E’ vero che esistono a Shanghai vari negozi Kappa, tra cui uno nel centro commerciale vicino alla nostra fermata della metro e un altro nel centralissimo mall all’angolo tra Nanjing Dong Lu e Piazza del Popolo; la città è piena di giganteschi palazzi commerciali costruiti negli ultimi cinque anni, con sei o sette piani ciascuno pieni di negozi eleganti ognuno dedicato a un marchio diverso. Il problema è che sono entrato in almeno due negozi Kappa e sono uscito a mani vuote, perché c’è una leggerissima differenza culturale.
Pare dunque che la cosa meno vistosa che si può vendere ai giovani cinesi di oggi sia una polo a strisce orizzontali giallo fosforescente e azzurro evidenziatore, con un gigantesco logo Kappa da una parte e un altrettanto gigantesco ricamo o toppa o bandiera italiana dall’altra (ho visto anche una polo con il drapò del Piemonte e mi sono commosso, anche se il cinese che la indossava non aveva la minima idea di cosa fosse). Polo a tinta unita, manco a parlarne; esistono solo al mercato dei falsi e solo con i marchi considerati fighetti dagli occidentali (Lacoste, Fred Perry eccetera). Io ormai ho una certa età , e va bene il promuovere il marchio di abbigliamento cittadino, ma non mi va di coprirmi di messaggi pubblicitari dalla testa ai piedi, e nemmeno di andare in giro vestito di rosa shocking…
Mi sono dunque limitato a comprare un paio di scarpe da ginnastica Li Ning a prezzi quasi occidentali (25 euro in saldo); Adidas, Nike e compagnia bella vanno dai 50 euro in su, anche se si possono trovare a 15-20 euro dai venditori casalinghi e nei mercatini del falso (senza garanzie sulla qualità ). Insomma, Shanghai per queste cose non è poi così conveniente; vedremo se altrove sarà diverso.
La seconda parte della giornata è stata dedicata a un’altra esperienza da raccomandare: la visita al museo dei poster di propaganda. Si tratta di un museo che non esiste sulle carte e sulla segnaletica stradale, ma compare solo sulle guide per occidentali; è ospitato nello scantinato di un condominio qualsiasi, nella parte più periferica della Concessione Francese. Arrivando all’indirizzo segnalato troverete dunque il cancello di un complesso di palazzine, e vi guarderete attorno con aria smarrita finché il portiere, individuatovi al volo, vi dirà “hello” e vi darà un bigliettino che spiega dove andare.
Il museo contiene decine e decine di poster della propaganda governativa cinese, dal 1949 agli anni ’80, divisi per epoca e con didascalie esplicative. I titoli dei poster sono bilingui ma le spiegazioni storiche sono solo in inglese, il che fa supporre che il museo sia visitato soltanto da occidentali. Del resto qui l’attitudine verso Mao è chiara: dimenticare, o meglio riconoscerlo come mitica figura storica come noi Garibaldi e poi non parlarne mai più, come se tra il 1949 e il 1978 la Cina avesse attraversato un buco nero.
I poster non sono solo esteticamente e comunicativamente bellissimi, ma raccontano bene la storia cinese di quegli anni, i vari cambiamenti ideologici e propagandistici e soprattutto l’entusiasmo, vero o apparente che fosse, di un paese giovane e fiducioso, in lotta contro il nemico americano e contro la miseria atavica. Particolarmente interessanti il poster del 1950 intitolato “Il popolo tibetano festeggia l’arrivo dell’Armata Rossa e la liberazione di Lhasa” e quello con una signorina su sfondo viola che porge un documento e un inquietante vaso di vetro pieno di pillole, incitando al controllo delle nascite. C’è anche una sezione di dazibao (da noi noti come tazebao), i poster deliranti con cui gli studenti della rivoluzione culturale denunciavano i propri docenti come reazionari e li facevano spedire in rieducazione a lavorare nelle campagne, presto imitati dai loro coetanei europei.
Eravamo lì ad ammirare i poster nel museo deserto (senza cinesi la pace è garantita) quando è giunto un gruppo di altri italiani, praticamente i primi che abbiamo incrociato… sembravano persone di una certa età in cerca delle proprie radici ideologiche, e alla fine abbiamo incrociato e riconosciuto Gian Paolo Zancan, già presidente dell’ordine degli avvocati di Torino e senatore dell’Ulivo. Abbiamo chiacchierato simpaticamente e loro ci hanno detto di essere qui “al seguito della missione del Regio”: pare che il Teatro Regio stia facendo una tournèe da queste parti e si sia portato dietro varie personalità cittadine in vacanza, con le relative consorti. Non pensate subito male come ho fatto io per deformazione professionale, sono sicuro che i conti della missione sono perfettamente in ordine.
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