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Archivio per il mese di Ottobre 2010


lunedì 4 Ottobre 2010, 16:34

Un giro per la città di Londra

Se al medio turista italiano, portato in avanscoperta a Londra da Ryanair, chiedessero qual è il centro della città, qual è il punto in cui tutto converge e che tutto simboleggia, sono sicuro che direbbe Piccadilly Circus o al massimo Trafalgar Square. La risposta è però sbagliata: il centro di Londra, sin dall’epoca romana, si trova da tutt’altra parte; per la precisione, si trova in questo palazzo per uffici anni ’60, dai marmi verdi, che vedete sulla sinistra nella foto qui sotto.

londonstone-1.jpg

Non vi pare? Bene, andiamo più vicino:

londonstone-2.jpg

Quella che vedete, incastonata in una anonima nicchia in un muro qualsiasi, è la pietra di Londra: la London Stone che la leggenda vuole piantata da Bruto di Troia, mitico fondatore della città; la pietra da cui partivano tutte le strade romane attraverso la Britannia, e da cui si misuravano le distanze. Fino al diciottesimo secolo stava nel mezzo della strada, ma poi disturbava il traffico e la inglobarono nell’adiacente chiesa di San Swithun, che poi fu distrutta dalla guerra e sostituita dal triste palazzo che vedete. Ora la pietra sta lì, nel piscio di un falso tombino, dimenticata dal mondo, al centoundici di Cannon Street.

Londra è una delle città il cui centro è migrato repentinamente negli ultimi secoli; quella che era la periferia ovest (West End) è diventato il centro, quello che era il centro è diventato un grigio quartiere di uffici, e quella che era la periferia est (East End) è diventata una roba che in compenso Quarto Oggiaro è un giardino d’infanzia. Il grigio quartiere di uffici, però, ha una particolarità: rispetta in maniera inquietante le proprie origini romano-medievali. Nemmeno il grande incendio del 1666, l’anno del diavolo, poté ridisegnare la Città di Londra: i re e gli architetti immaginarono grandiosi boulevard su cui ricostruire una città razionale sopra le ceneri di quella antica, ma prima che potessero batter ciglio tutti i proprietari di ogni fazzoletto di terreno edificabile avevano già ricostruito le loro case sulla pianta preesistente, visto che la speculazione immobiliare non aspettava nessuno nemmeno nel diciassettesimo secolo.

Questo è solo l’inizio del nostro percorso; da Cannon Street – uno dei due cardini romani sulla direzione est-ovest – si scende a quello che oggi è l’approccio di un anonimo ponte di cemento che usurpa il nome di London Bridge. Per secoli, leggermente più a valle del ponte attuale, stava il ponte di Londra l’unico vero e inimitabile, prima fatto di barche, poi infine di pietra; coperto di casupole e negozi come il Ponte Vecchio a Firenze, ma anche di comode latrine per cagare direttamente nel Tamigi. Se rinunciate al ponte moderno, potete scendere un attimo verso il Monumento, una colonna di dimensione abnorme sita vicino al forno da cui partì l’incendio che rase al suolo la città quasi completamente; e da lì verso il fiume, ripercorrendo quella che un tempo era la strada che portava al ponte.

Oggi finite invece in Lower Thames Street, una anonima strada trafficata; da lì potete però deviare sulla sponda del fiume e arrivare al mercato del pesce di Billingsgate. Qui, per secoli, hanno attraccato le barche dei pescatori che arrivavano dal mare, e da qui le pesciaie col cestino sulla testa si spargevano a vendere la merce. L’edificio attuale è ottocentesco e adornato con fantastici pesci di ferro battuto e pesci dorati sul tetto.

La passeggiata pedonale sul fiume è fredda e nuvolosa, piena di barche sullo sfondo arzigogolato del Tower Bridge e dell’immenso cantiere dello Shard, l’ennesimo grattacielo firmato Renzo Piano che si staglia contro il cielo bianco e grigio. Questo è davvero uno di quei posti salvati dall’acqua e che l’acqua potrebbe riprendersi in ogni momento; uno di quei posti pieni di fantasmi innamorati che un londinese (acquisito) del secolo scorso avrebbe descritto come “when she’s walking by the river and the railway line / she can still hear him whisper / let’s go down to the waterline”.

Proseguendo lungo il fiume arrivate alla Torre di Londra, il castello dei re; la folla di turisti sul Futile Galles (sì, c’è una via che si chiama così, del resto c’è anche una Futile Francia dopo il parco di Saint James) vi potrebbe impedire di notare la torretta circolare che dà accesso al condotto sotterraneo della London Hydraulic Power Company, 1868 – all’epoca un ritrovato della tecnica, oggi è chiusa e i piccioni beccano le briciole dei panini dei turisti che ci mangiano attorno.

Da qui comincia il Muro di Londra; il tracciato delle mura romane, rimaste in piedi fino a tre secoli fa, e ora visibili nel percorso arcuato delle vie. Gli edifici sono ex grandiosi e comunque relativamente moderni, ma le vie si chiamano Attraverso il Muro (ma va’) e Frati con le Grucce, a ricordare che un tempo a Londra c’erano più chiese che fognature.

Arrivate così alla porta di Aldgate, che non esiste più – ma esiste la strada, guardata giusto dalla chiesa di San Botulfo fuori Aldgate. Di lì si risale ancora per Bevis Marks, e per la sua parallela – Houndsditch, la Fossa dei Segugi, così chiamata perché un tempo era il fossato a protezione esterna delle mura, e però era già mezzo secco e ci buttavano dentro la monnezza e i cadaveri dei cani. Oggi la zona è dominata dal suppostone del grattacielo della Swiss RE, un razzo di vetro in attesa di decollo amichevolmente detto “il cetriolo”; da anni tutti sperano che infine decolli per levarselo dalle scatole.

Qui si supera Bishopsgate, la Porta del Vescovo – pochi metri più in là sta la stazione di Liverpool Street. Tutto questo quartiere è pieno di edifici moderni, al massimo di inizio Novecento, e però si vedono vicoli e vicoletti dalle dimensioni decisamente medievali, magari trasformati in passi carrai o in passaggi sul retro di nuovi bisonti di cemento. La via, poco più in là, si chiama direttamente London Wall; costruita negli anni ’50 sul tracciato delle antiche mura, dopo che esso era stato “liberato” dai bombardamenti.

Girando verso il centro, si punta su Via Filo & Ago (Threadneedle Street) – vediamo se indovinate quale corporazione aveva qui sede in epoca medievale. Tagliando sulla destra, si passa in uno dei pochi angoli della City ancora vagamente ottocenteschi, Throgmorton Street – una via storta e buia dove a un certo punto resiste l’insegna ben più che centenaria di uno dei ristoranti della catena Lyons, i più antichi McDonald’s della storia. Si spunta infine sul retro della sede dell’Impero del Male: la Banca d’Inghilterra, la prima banca centrale della storia. Gli ornati di marmo sanno di tronfia dominazione, di tre secoli di gente strozzata dal credito al guinzaglio.

Si arriva così infine alla Guildhall, il municipio o meglio la Sala delle Corporazioni; Londra è una città di mercanti e sin da poco dopo l’anno Mille è governata non dalle istituzioni inglesi, ma dalla Corporazione della Città di Londra, una struttura felicemente massonica in cui erano rappresentate le varie gilde e che aveva rivendicato con successo una discreta indipendenza dalla Corona, dato che il vero padrone di un Paese non è chi lo governa ma chi presta i soldi a chi lo governa.

Anche la Sala delle Corporazioni fu ricostruita varie volte, anche di recente, ma conserva un finto aspetto medievale, giusto per farti credere che almeno qualcosa si sia salvato dall’incessante ciclo di abbatti-e-ricostruisci-per-vendere-a-prezzo-più-alto che caratterizza da sempre la storia di Londra. Infatti, le rovine del passato non si conservano nelle ere di successo, ma nelle ere di decadenza; e Londra, superato l’incendio, fu per tre secoli la capitale del mondo, senza la voglia di conservar niente perché niente valeva i soldi della futura crescita economica.

Da qui, verso il Tamigi si trovano Via del Latte – altro pezzo di mercato – e Via dello Scolo, nota per il canaletto non proprio profumato che portava giù verso il fiume una parte dei liquami del centro. Verso l’interno invece si trova Love Lane, il Vicolo dell’Amore, che ora è una larga, anonima, corta via che potrebbe indurvi in errore, facendovi pensare di esser stata costruita insieme ai palazzi che la circondano, nel Novecento, e intitolata alla pace degli hippy. Nulla di più sbagliato; semplicemente, nel Medioevo questo era il vicolo dei troioni, comodamente sito dietro il municipio.

Poco più in là c’è Noble Street, che come dice il nome è tutt’altra roba, per quanto fosse anch’essa a comoda e breve distanza da Love Lane; è qui che si può vedere uno dei pochissimi pezzetti di muro romano ancora sopravvissuti. Le mura qui facevano una curva ad angolo retto, inglobando un forte romano di forma quadrata; la zona martoriata dai bombardamenti porta ancora qualche segno dell’antichità, come il giardinetto con annesso pret-a-manger che sostituisce l’antica chiesa di Sant’Olaf. Dietro si trova quel mostro anni ’60 che è il Museo di Londra, e poco più in là c’era l’antica porta di Aldersgate.

Da qui potete infilarvi nella via che si chiama Little Britain, il cui percorso tortuoso rappresenta un altro pezzetto di Londra non dico medievale ma ottocentesca senz’altro, e poi attraversa l’Ospedale di San Bartolomeo, che nel tempo ha invaso tutto il quartiere, e sfocia davanti al mercato vittoriano di Smithfield.

Questo era, da sempre, il mercato generale di Londra; prima del mercato vittoriano c’era una piazza e prima ancora un prato, subito fuori le mura, dove sin dalla notte dei tempi si vendeva il bestiame, tranne nelle due settimane della Fiera di San Bartolomeo, un baccanale post-pagano in cui tutto poteva succedere, dalle impiccagioni all’ubriachezza molesta fino all’esibizione di donne barbute e nani da circo. A metà Ottocento decisero di spostare il bestiame molto più fuori dalla città e di costruire questo mercato di ferro battuto, una meraviglia anche perché sotto ci misero la prima metropolitana del mondo, attualmente la Circle/District/Metropolitan Line, che dopo essere passata sotto Farringdon Street (seguendo il fiume Fleet intubato) svolta tra le case e sotto il mercato si dirige verso l’est.

Siamo ormai fuori dalle mura, e attraversata la valle del Fleet si risale verso Holborn, un tempo borgo fuori dalla cinta muraria. Su un lato sbocca l’anonima Fetter Lane, che era in origine una delle prime strade periferiche dall’altro lato del Fleet, piena di casette seicentesche e poi di casermoni popolari abitati dalla feccia. Il grande incendio del 1666 finì, miracolosamente, proprio all’angolo di Fetter Lane; è dunque qui, all’angolo con Gray’s Inn Road, che sopravvive quello che è praticamente l’unico edificio antico di Londra, una casa di legno di epoca Tudor piuttosto malmessa.

Per trovarla abbiamo dovuto girare tutta la città, camminare per tre ore e allontanarci un po’ dalle antiche mura, perché ancora oggi la City non ha tempo per altro che per mangiarsi viva giorno dopo giorno, lei e i suoi abitanti, nel ciclo incessante dell’iniziativa economica privata, portata avanti dallo stress di milioni di vite impiegatizie private di ogni vero significato. Eppure, Londra è ostinatamente legata ai fantasmi del passato; il suo fascino deriva proprio dal fatto che – a differenza delle città italiane – della sua storia bimillenaria non resta sostanzialmente nulla, e nonostante questo, a parte qualche cambiamento nella foggia dei vestiti e negli strumenti, funziona da sempre allo stesso modo.

[tags]londra, city, storia, romani, medioevo[/tags]

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domenica 3 Ottobre 2010, 16:36

I cantieri del quartiere Parella (3)

Vorrei riprendere l’incresciosa vicenda dei cantieri nel quartiere Parella solo per segnalare che, pochi giorni dopo il mio post precedente, l’incrocio sotto casa mia si presentava così:

parella-3.jpg

Come era facile prevedere, c’è subito stato un bell’incidente i cui detriti, peraltro, sono ancora lì dopo un paio di settimane.

Ma ovviamente gli incidenti sono sempre colpa degli automobilisti, mica del Comune…

[tags]torino, parella, cantieri, lavori, appalti, incidenti, traffico[/tags]

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sabato 2 Ottobre 2010, 13:33

Il diritto di sparare stronzate

Giovedì sera, a Londra, salendo sull’aereo per ritornare a casa, sono ritornato a contatto delle vicende italiane: mi han dato in mano il Corriere. Apro, sfoglio, a un certo punto trovo un titolone su “il professore che vorrebbe uccidere i disabili alla nascita”. Guardo a fianco, e mi trovo una grossa foto a colori di Joanne Maria Pini con dietro una bandiera della Lega

Ho conosciuto Joanne circa un anno fa, all’IGF Italia di Pisa; all’epoca era nel direttivo del Partito Pirata italiano e abbiamo chiacchierato a lungo dei nostri temi, dai diritti digitali alla decrescita felice, trovandoci d’accordo su tutto (no, non abbiamo parlato di disabili). Ci siamo rivisti altre due o tre volte negli scorsi mesi, e fu lui ad avvertirmi quando prima delle scorse regionali Renzo Rabellino (sì, proprio il signor Lista Grilli Parlanti No Euro) contattò il Partito Pirata per aggiungere anche quel simbolino alla sua collezione di liste (ma pensate un po’…). So che è uscito dal Partito Pirata in mezzo a un flammone gigantesco; non sapevo che adesso bazzicasse la Lega, né riesco a capire bene come una persona pro diritti digitali e decrescita possa finire a farsi le foto con i padani, anche se devo ammettere che ieri sera in TV ho visto Gomorra e pure a me è venuta la voglia di correre immediatamente ad abbracciare Calderoli.

Che sia un intellettuale eccentrico è dir poco; che, come molti intellettuali, abbia il gusto per la provocazione è altrettanto vero; ciò nonostante non mi sembra in grado di far male a una mosca. Ho scoperto che la discussione è avvenuta sulla bacheca Facebook di amici e ha coinvolto vari altri amici (il più furioso con Joanne è il mio collega Roberto Dadda), il che mi ha permesso di leggerla tutta. La frase come descritta dai giornali è ovviamente una disgustosa stronzata, ma se leggete l’intera chiacchierata non trovate proprio quello; trovate le affermazioni “prima della didattica viene la genetica” e “Tornare indietro di 40 anni? Alla Rupe Tarpea bisognerebbe tornare!”, nell’ambito di una discussione piuttosto accesa.

Per quel po’ che lo conosco, non mi stupisce che Joanne possa aver tirato fuori un’iperbole del genere, insieme alla preoccupazione sul degrado genetico dovuto alla fine della selezione naturale della razza umana, con i rischi evolutivi che ciò comporta; una cosa scientificamente fondata che pensano in molti, ma che non dicono proprio per non essere subito etichettati come razzisti. Si tratta comunque di una opinione personale che si può non condividere ma che rimane legittima fin che non si trasforma in apologia di reato (diverso sarebbe se Joanne avesse aperto un gruppo “organizziamoci per uccidere i disabili alla nascita”). E’ una opinione che vale come quella di qualsiasi altro privato cittadino, dato che Joanne non ricopre alcuna carica di responsabilità pubblica, che non insegna educazione civica ma armonia al Conservatorio e che non risulta che abbia mai discriminato alcun allievo disabile. Il discorso, peraltro, verteva sulla domanda se sia meglio dare ai disabili una istruzione separata o integrarli nelle classi e francamente, pur non avendo le competenze pedagogiche per esprimermi, non credo che sia una domanda dalla risposta così chiara, né che prevedere corsi speciali per chi ha diversi ritmi di apprendimento sia per forza una discriminazione, se no sarebbero razzismo anche le scuole speciali per ciechi o i corsi di recupero per chi è stato rimandato a settembre.

Io credo che ognuno di noi sia libero di cazzeggiare e anche di provocare; abbia, insomma, il diritto di sparare stronzate, specie in un ambiente molto informale come Facebook. Mi disgustano dunque piuttosto le reazioni trombone e paracule di quelli che stanno gerarchicamente sopra a Pini, fino alla Gelmini, a cui di sicuro dei disabili non frega alcunché, visto come ha massacrato i fondi per le attività di sostegno in tutta Italia. Nessuno di questi signori si è peraltro indignato per le sparate ben più gravi di molti ministri della Repubblica, che, avendo una posizione pubblica, hanno anche responsabilità pubbliche su ciò che dicono – ma che, a differenza di Pini, hanno la possibilità di segargli la carriera.

Comunque, anche in questo post ci sono sicuramente delle frasi su cui, dopo averle estratte dal contesto, un giornalista in cerca di audience può costruire un caso. Quella su Calderoli, per esempio, è ottima per fare un bel titolo tipo “I grillini torinesi confessano: in realtà sono leghisti”, magari aggiungendoci che “Vittorio Bertola ha persino un sito in piemontese” (vero), “scoprendo” che tra i miei contatti Facebook c’è un ex consigliere comunale della Lega (vero: è il padre della persona che ha girato molti video del Movimento piemontese), e aggiungendo una mia bella foto davanti alla statua di Alberto da Giussano a Legnano (qualche mese fa son stato lì sotto per un po’ ad attendere Elena: e se per ridere ci fossimo fatti una foto sotto la statua e l’avessimo messa in rete?).

La mia frase in questione è evidentemente una iperbole per strapparvi un sorriso; avessi voluto essere serio avrei scritto “ieri sera in TV ho visto Gomorra e mi sono venuti molti dubbi sulla possibilità di integrare me e quella gente nello stesso Stato”, ma non sarebbe stato divertente. Credo che tutti voi siate abbastanza intelligenti da capire che il contesto e il tono con cui si dicono le cose è rilevante, abbastanza scafati da non fidarvi più di quel che scrive un giornale, e (anche se questo ormai in Italia è sempre più difficile) abbastanza tolleranti da rispettare l’opinione dell’altro anche quando vi disgusta. So che molti italiani non sono così, ma non mi importa: se vogliamo migliorare questo Paese, dobbiamo cominciare a trattarci da persone intelligenti.

[tags]giornali, informazione, discriminazione, disabili, corriere della sera, joanne maria pini, conservatorio, milano, calderoli, lega, retorica[/tags]

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venerdì 1 Ottobre 2010, 15:31

Simpaticamente Milano

Milano è una città che sa come farsi odiare.

Lo pensavo proprio ieri, a mezzanotte e mezza, nella Stazione Centrale completamente deserta, con un unico treno ancora da partire – la S11 delle 0:38 per Chiasso (nel dubbio i monitor la riportavano una decina di volte, per far sembrare che il traffico fosse molto di più). Ero appena sceso dal bus da Malpensa ed ero passato per la stazione per fare il biglietto del treno per Torino di oggi, dato che prendendolo dal passante non ci sono biglietterie né macchinette automatiche e dunque bisogna assolutamente farlo prima.

Nel corridoio sotterraneo davanti alle macchinette, oltre a me, c’erano due tizi: una era chiaramente una barbona o drogata, sui trent’anni (ne dimostrava cinquanta), e l’altro aveva l’aria straniera ed era pieno di valigie. Mi fermo davanti a una macchinetta; il tizio straniero, vedendomi in giacca e cravatta, viene da me con aria disperata e mi chiede “do you speak English?”. Alla fine mi racconta che è americano, è arrivato da Malpensa pure lui e che sta cercando di capire come andare al suo albergo, lì in zona, ma trova soltanto barboni e gente poco raccomandabile (una esperienza aliena per lui, dato che negli Stati Uniti se vedono un barbone per strada, che non stia accucciato nel suo angolino e che approcci la gente, spesso lo prendono e lo sbattono in galera).

Mi fa vedere l’indirizzo, io tiro fuori il cellulare col navigatore e controllo: è a una decina di minuti a piedi. Lui mi ringrazia, mi dice “I’ve been here for one hour and a half and you’re the first Italian that I like”, e mi chiede se secondo me è sicuro andarci a piedi, che non si fida. Io spiego che non sono di Milano ma di Torino, dunque non saprei: di giorno il quartiere è tranquillo ma comunque non è dei migliori, essendo vicino alla stazione, e non so come sia di notte. Lui mi dice “I should have come to Turin rather than to Milan, people here are horrible”, e conclude che nel dubbio prenderà un taxi.

A quel punto ci salutiamo, gli auguro buon giro, ed esco dall’ingresso principale per dirigermi verso la fermata del 5, per andare a casa. Sono stanco morto e ho solo voglia di andare a dormire, e che succede? Me lo vedo arrivare lì, dal lato della piazza, che scorre sui binari e si ferma al primo semaforo. Comincio a correre per il piazzale, penso che non ho voglia di aspettare altri venti minuti, che già mi sono dovuto puppare (oltre a tutto il viaggio da Londra) un’ora su un bus Autostradale ammuffito e strapieno, che doveva partire alle 23:15 e invece è partito alle 23:29 perché quello della concorrenza partiva alle 23:30 e facendo così gli ha portato via un bel po’ di passeggeri (ah, il mercato regolamentato all’italiana); e che domani devo comunque alzarmi alle 7 per andare presto da un cliente che poi a metà mattinata deve andare via.

Il tram riparte, si avvicina alla fermata, io accelero, corro ancora più veloce… finché d’improvviso mi ritrovo per terra di faccia, con la mia borsa di libri che volano per aria e lo zaino pesantissimo (con dentro portatile, macchina fotografica, lettore MP3…) che dalle spalle mi capitombola addosso alla testa.

E’ successo che qualche genio del male, nel ristrutturare per l’ennesima volta piazza Duca d’Aosta per farla sembrare più figa in cartolina (cioé senza gli spacciatori e le gang di etnia varia), ha messo nella parte centrale delle leggerissime rampe in discesa che improvvisamente e senza alcuna segnalazione visibile si separano dal piano della piazza creando un gradino sempre più alto. In pratica, o uno corre guardando per terra o il gradino è totalmente invisibile; io ci ho messo il piede per storto e la caviglia si è girata in qualche modo.

Ero lì per terra con un male cane, e ovviamente l’unico che è venuto ad aiutarmi è stato un ragazzo di colore (c’erano due tizie italiane poco pi in là che hanno cambiato rotta per far finta di niente). Io ho ringraziato, mi sono alzato, ho verificato che la caviglia comunque funzionava ancora, ho ringraziato la solidità del vestito grigio cinese e ho zoppicato fino alla fermata, vedendo il tram andarsene in lontananza. Ho deciso che qualunque cosa fosse successa alla mia caviglia io avevo sonno, ero stanco e volevo solo andare a casa; e allora ho aspettato il successivo 5, mi ci sono issato sopra a braccia e mi sono subito tutti gli scossoni delle meravigliose “vetture storiche del 1927”, una roba che se girasse per le strade di Abidjan gli ivoriani protesterebbero subito che sono vecchie, ma che ATM furbescamente ti vende come “recupero del patrimonio storico di Milano”.

Sono sceso in via Aselli e ho zoppicato fino all’adiacente fermata della 93, sperando di trovarne ancora una; infatti da lì a casa c’è una piacevole passeggiata di dieci minuti, che però con una gamba sola è meno piacevole, per non parlare del fatto che poi avrei dovuto anche inerpicarmi su per tre piani di scale. E invece no, ormai era l’una e l’ultima 93 passava a mezzanotte e quarantotto, e allora mi sono dovuto rassegnare e cominciare a zoppicare verso casa bestemmiando in undici lingue.

E’ stato in quel momento che ha cominciato a piovere.

[tags]milano, turisti, stranieri, stazione centrale, tram, atm, infortuni[/tags]

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