Ancora!
Metto a verbale che il momento in cui sono finalmente entrato in albergo risale a non più di dieci minuti fa: non so che ore siano in realtà , qui l’orologio dice le dieci e un quarto di sera. Essendo uscito di casa stamattina alle nove e mezza, se non sono ventiquattro ore di viaggio sono almeno ventidue.
Mi stupisco sempre di come faccia il corpo a resistere a questa innaturale giornata di trentatre ore; dopo un po’, il tempo semplicemente collassa, e si entra in un tunnel spaziotemporale dilatato indefinitamente. Ho anche lavorato, ho guardato The Pursuit of Happyness (decisamente meglio di come mi aspettavo, anzi complimenti a Will Smith che prende un polpettone dal messaggio dubbio – lui è infelice perchè non ha soldi, poi diventa ricco quindi è felice – e riesce a renderlo credibile e persino emotivamente coinvolgente; tuttavia, Smith è talmente mattatore che immagino abbiano preso Muccino solo perchè scrivere “regia del mio gatto Fuffi” pareva brutto).
La business class Lufthansa è una mezza delusione, anche se è sempre molto meglio che pigiarsi in economy. Ti mettono su una sedia motorizzata in ogni direzione, che quando ci sei sopra ti senti il protagonista della pubblicità delle auto che diventano robot; schiacci un bottone ed essa contemporaneamente si allunga, si allarga, si appiattisce e si gira per mettersi in posizione “relax”. Però, la presa di corrente non accetta prese tedesche (!); la presa Ethernet è finta; c’è il video on demand invece dei film a ciclo continuo, ma fa poca differenza, e poi l’action thriller di Bollywood con una figona senza senso era disponibile solo in hindi. Inoltre, il servizio del pranzo, che è circa lo stesso dell’economy ma servito con tovaglioli e cerimonie, dura come un matrimonio: a un certo punto volevo chiedere se almeno mi davano insieme lo ius primae noctis su una delle hostess.
Soprattutto, già a Caselle, causa due ore di ritardo del Torino-Francoforte, mi hanno dumpato in automatico sul Monaco – San Francisco di due ore dopo; io ho cercato di avvertire l’organizzazione di ICANN in vari modi, e pietendo la hostess lei è andata dal capitano col numero di cellulare austriaco di Roberto Gaetano, che è stato faxato alla torre di controllo, che gli ha telefonato e gli ha lasciato un messaggio in segreteria. Tutto inutile: a SFO, passata l’immigrazione e la dogana, non c’era nessuno ad attendermi.
Ora, cosa fareste voi se vi trovaste a SFO alle sette e mezza di sera, con in mano solo l’indicazione Four Seasons Hotel di Palo Alto? Beh, saltereste sul taxi; ma a me di far spendere a ICANN tra gli ottanta e i cento dollari di taxi non andava, e in più mi piacciono i treni. Così, mi sono fidato dei pannelli (lo scortesissimo bigliettaio mi ha persino diretto alla macchinetta automatica per fare i biglietti, che non aveva voglia di farlo lui) secondo cui con una fermata di Bart potevo poi, con cinque minuti di attesa, prendere il Caltrain fino a Palo Alto Centrale.
Mi sono così avvicinato incuriosito al Bart – che in The Pursuit of Happyness, che è ambientato nel 1981, si vede in quasi ogni scena – e pota, ho capito come hanno risparmiato sul film: ci sono ancora le stesse carrozze del 1981! E non le puliscono dal 1981! Noi ci lamentiamo dei nostri trasporti pubblici, ma dovreste vedere quelli americani. In più, ovviamente il mio treno aveva cinque minuti di ritardo: per cui mi son visto sfilare la coincidenza sotto il naso – mentre facevo il secondo biglietto alla macchinetta, che sono due società separate e ben si guardano dall’accordarsi, che poi sarebbe un cartello oligopolistico! – e ovviamente il treno della seconda compagnia mica aspetta la coincidenza con quello della prima, anzi se può parte più di corsa ancora, perchè la gente s’incazzi con gli altri per il ritardo. Quello successivo, ovviamente, era dopo soli 68 minuti.
Così, ho festeggiato il tramonto in un venticello tiepido che è poi divenuto una bora gelida, alla stazione d’interscambio di Millbrae. Ho preso il Caltrain, sono sceso a Palo Alto, e… oddio, di taxi neanche l’ombra! Non ho una mappa, non ho un indirizzo, sono in un parcheggio di periferia… qui butta maluccio. Vado alla fermata degli autobus per chiedere informazioni, ma della decina di presenti solo due parlavano anche inglese, tutti gli altri solo spagnolo, al massimo potevo chiedergli del coche fantastico.
Così mi sono diretto a piedi verso [Stanford] University Avenue, sperando di incocciare in un taxi. Ma ero talmente fuso che ho fermato due ragazzi per la strada per chiedere dove era una fermata dei taxi, e loro mi hanno fatto notare che ne avevo due a cinque metri da me… E però, questa è stata la nota positiva della giornata: perchè il tassista era nero e somalo, quindi amante degli italiani, e abbiamo passato il viaggio a sparlare degli Stati Uniti. Breaking news, i neri vivono di merda pure in California. Alla fine gli ho dato una mancia del cinquanta per cento, e sono entrato nel mio lussuosissimo alberghissimo dalla puzza sotto il naso, col ristorante finto italiano e gli stuoli di cameriere in divisa che negli occhi hanno l’inconsapevole palpito represso della rivoluzione che prima o poi verrà , quando sarà divenuto consapevole.
Nel frattempo, io vado a farmi la doccia e poi a letto senza cena: anche perchè, ad essere precisi, oggi ho comunque fatto una colazione, tre pranzi, una merenda e una cena, anche se sulla nomenclatura ci sarebbe da discutere. Buona… boh, quello che è lì da voi.