Magia e silenzio
Quando hanno abbattuto lo Stadio Filadelfia, il 26 febbraio 1998, io avevo 23 anni. Ero tifoso del Toro già da venti, andavo regolarmente allo stadio da una decina abbondante, ed ero già stato abbonato per un certo numero di stagioni. Eppure, non ero mai stato al Fila.
E così, io il Filadelfia, prima che cessasse di esistere, non l’ho mai visto.
Ho scoperto della sua esistenza soltanto negli anni successivi, leggendo sui giornali le prime polemiche sulla ricostruzione promessa e mai fatta, su tutte le successive vicissitudini. La prima volta che, curioso, ci sono andato, ho fatto fatica a trovarlo: “ma è veramente questa roba qui?” Io sono un sentimentale, ma proprio non riuscivo a capire che cosa avesse quel prato di particolare. A dire il vero, non riuscivo nemmeno a capire bene come mai in un presunto monumento cittadino si dovesse entrare da un buco nella recinzione.
Poi è arrivata quest’estate pazzesca, cominciata per me timidamente, in fiduciosa attesa della fidejussione del presidente Romero; diventata poi un affanno di reload continui sulle pagine del forum di Toronews; e infine, sfociata nella settimana di passione in piazza, favorita da un agosto da cani, vuoto e solitario, in città . Da allora, il Filadelfia è diventato piano piano una meta sempre più frequente, prima come luogo di ritrovo, poi anche solo per meditazione, dipanando un fascino segreto che prima o poi, immancabilmente, ti avvolge.
Forse la svolta definitiva è stata in una fredda domenica di fine gennaio, quando, non sapendo che fare, ho tirato fuori la bici senza una meta particolare. E sono finito lì, al Fila, nel silenzio più completo. Poco più in là c’era la folla, distratta e rumorosa, davanti allo stadio Olimpico appena terminato, o nei giardini in piazza d’Armi; ma quel prato era uno specchio per pensieri in libertà .
Eppure, il Fila non è uno specchio neutro. Rimanda agli occhi attenti le tracce dei fantasmi di ottant’anni di vita, storie belle e brutte, esistenze passate che emergono all’improvviso dall’erba e dal cemento, e ti chiedono: e tu? Avrai la storia tragica di Gigi Meroni, o quella leggendaria di Enzo Bearzot? Salirai anche tu un giorno sull’aereo sbagliato per un premio beffardo, come Dino Ballarin, o ne sarai graziato da un caso miracoloso, come Sauro Tomà ?
Se il calcio è la metafora della vita, il Fila è una Divina Commedia lunga cento metri, fatta di volti, di sudore, di sangue, di vite uniche e diverse chiamate a raccolta. Lo è, però, solo per chi sa vedere, capire, immaginare.
Ci sono tuttavia delle esperienze che facilitano la comprensione; una di queste fu, nello scorso febbraio, proiettare le immagini del Grande Torino, di notte, sopra l’intero campo. Un’altra invece è stata quella di giovedì, con ventimila persone in una festa grandiosa, completamente autoorganizzata da decine e decine di tifosi, che spesso senza nemmeno parlarsi e conoscersi sono passati dal Fila, chi per due ore, chi per due giorni, chi per due mesi, a tagliare gli sterpai, rimuovere immondizia, portar via macerie, smontare gli accampamenti clandestini, ripiantare l’erba del campo, e poi montare transenne e palchi, organizzare partite per 180 bambini, preparare una grigliata di dimensioni inusitate, allestire stand e banchetti, accogliere ex calciatori e vip vari, organizzare un concerto con gruppi di rilievo nazionale, e gestire l’esibizione della squadra e del presidente di fronte a un entusiasmo strabordante. Questa festa è stata un miracolo di grandi proporzioni, e se anche è vero che, come dice Gramellini, “la speranza è l’ultima a morire, e dopo arrivano i tifosi del Toro”, credo che stavolta il vecchio cuore granata abbia fatto davvero gli straordinari.
Di quanto sopra, però, nulla è stato emozionante come i due minuti di silenzio che hanno ricordato la tragedia di Superga. All’improvviso il mondo si è fermato, e una folla traboccante di ventimila anime si è zittita in modo così completo che si sentivano le auto due isolati più giù, e persino le televisioni nei salotti delle case di fronte. E’ stato uno dei momenti più eccezionali della mia vita, perchè un silenzio così denso non si trova da nessuna parte, tantomeno nel bel mezzo di una città in piena ora di punta. Lì, ogni persona si è trovata a fare i conti col vuoto e con le domande del Fila; anziani signori in lacrime che ricordavano la propria infanzia, e giovani smarriti che forse erano lì per la prima volta, ed erano un po’ storditi da quel punto interrogativo così impietoso.
Vi scrivo queste cose perchè dopo quest’estate molto è cambiato, nel rapporto tra Torino e la sua squadra di calcio. Se l’anno scorso, per un Toro-Ascoli di campionato, allo stadio c’eravamo io e gli ultras, quest’anno anche Toro-Avellino è una partita da pienone. Adesso, tutti sono del Toro, tutti ne parlano, tutti si vantano di questa rinascita; ci sono persino dei poveracci che, per rubare qualche voto, si candidano alle elezioni sotto il simbolo del Toro. Eppure, il Filadelfia è rimasto un po’ ai margini di tutto questo; molti, moltissimi tifosi non l’hanno ancora veramente scoperto.
In un’epoca di calcio caciarone, parolaio, volgare, venduto, il Filadelfia restituisce tutta la diversità di questa maglia e di questa città ; concede il brivido del vuoto, il brivido del nudo. In uno stato di devastazione figlio di infinite bugie e prese in giro, elimina le finte giustificazioni facilone e ti riporta sempre, come un martello, a quella domanda: e tu? Stai anche tu dalla parte del rigore, della serietà , della fatica, della capacità , della vita talvolta tragica e talvolta dolce ma in fondo in fondo giusta, con cui il Toro ha conquistato ogni centimetro di ciò che ha, con cui Torino ha conquistato ogni centimetro di ciò che ha, spesso per poi vederselo portar via dai maneggioni e dagli arroganti?
Anche io spero che il Filadelfia venga ricostruito, almeno come centro sportivo per gli allenamenti; anzi, ho tutta l’intenzione di continuare a vivere questa storia. Ma ogni tanto, di fronte alla magia strapotente di quel vuoto così esplicito, mi chiedo se non sarebbe meglio conservarlo così.
In conclusione, credo che un medico vi direbbe che soltanto un pazzo, vittima delle proprie allucinazioni, può vedere tutte queste cose in un prato spelacchiato, in qualche moncone di gradinata. Se è così, però, è bello essere pazzi tutti assieme; perchè, per dirla con Saint-Exupery, “l’essenziale è invisibile agli occhi”.