La notte in cui ci facemmo Toro
Attenzione: questo è un post molto lungo…
C’è un momento in cui il Toro ha vinto la serie A. Non è stato in campionato, non è nemmeno stato ieri sera. E’ stato quando, giovedì notte, dopo l’andata persa per 4-2 ci siamo guardati tutti negli occhi – la curva, i tifosi a casa, quelli sul forum, e penso anche i nostri giocatori – e ci siamo detti: ci daremo per vinti? No, mai. A quelli che tremavano, che chinavano la testa, che avevano paura o si sentivano perduti, abbiamo ringhiato e abbiamo ripetuto una semplice verità : che nella vita tutto ma proprio tutto è possibile, basta crederci veramente. Crederci, da solo non basta, ma è un requisito assolutamente necessario. Quello è stato il momento in cui abbiamo conquistato la serie A.
Il resto sono stati due giorni di tensione e di attesa, resa però serena dalla consapevolezza di potercela fare; ma con il batticuore crescente, fino a domenica sera. Arrivo dentro lo stadio, finalmente, alle 19, e le curve sono già piene: fatico a raggiungere il mio posto. Sono al balcone del secondo anello, nel centro perfetto della curva Primavera, appoggiato alla ringhiera contro i tamburi: l’ombelico del mondo. L’aria è solida, un muro di tensione, un arco elettrico invisibile che unisce le due curve.
Giusto il tempo di acclimatarmi ed entrano in campo i mantovani per il riscaldamento: e lo stadio esplode in un treno di fischi, decine di migliaia di persone che assordano gli aspiranti toreri. Il Mantova replica mandando in campo il giullare, nella forma del suo presidente Lori, un figuro inquietante dotato di riccioli biondi tinti, occhiali da sole alla moda e una truzzaggine straripante, che te lo immagini istintivamente bello carico nei bagni del Billionaire, magari in compagnia di Lapo.
Solo un truzzo del genere potrebbe pensare di presentarsi nello stadio del Torino stracolmo di tifosi e mimare con le braccia, con perfetta incoscienza e saltando come un bambino di cinque anni, un aeroplanino che si schianta sotto il settore del Mantova, probabilmente senza nemmeno rendersi conto di quanto ciò sia offensivo per i figli di Superga. E poi ci si stupisce che ci siano stati incidenti.
Poi entrano i nostri, ed è un’ovazione. Nel frattempo, lo stadio si riempie; a un’ora dall’inizio è già delirio. In Primavera secondo anello non ci si muove quasi più, arrivano da noi quelli che vogliono partecipare ai cori, quelli che vogliono iscriversi, i semplici curiosi attirati dai tamburi e dai sacchetti di coriandoli.
Mezz’ora prima dell’inizio vengo spedito a distribuire i palloncini bianchi sul lato destro della curva, con ordini precisi, darne uno a testa, non tirarli, spiegare di non farli vedere fino all’arrivo delle squadre. Il tutto è un’utopia. Appena mi affaccio, un’orda mi travolge come un fiume in piena, mi strappa di mano i palloncini come se fossero banconote da cinquanta euro, se li contende, li gonfia e comincia a giocarci, come bambini al colmo della felicità . Non c’è modo di controllare la curva, stasera: non c’è più nulla di calmo nella nostra furiosa attesa.
Il tempo vola, e siamo già all’ingresso delle squadre; un mare di fischi sommerge completamente lo speaker, e non capiamo nemmeno se veramente esista un’altra squadra di cui sta venendo letta la formazione. Quando viene annunciato il Toro, gli olè fanno tremare lo stadio. La coreografia è bellissima, palloncini da noi, bandiere di là , la scritta dorata “FORZA TORO” nei distinti, tutto lo stadio a scacchi bianchi e granata. E dire che non c’è stato modo di organizzare, in certe zone nemmeno di passare per distribuire il materiale per benino.
Arriva finalmente il fischio d’inizio, e comincia il gioco del calcio. Quel che si vede però non è calcio, e soprattutto non è un gioco; è una sfida vera, in cui ognuno dei sessantamila è coinvolto totalmente fin dal profondo dell’anima. E così, non si creano grandi azioni, e la palla è spinta dai nervi più che dai piedi; tanti falli, tanti ammoniti, tanta, tantissima tensione. Ma siamo tranquilli, perchè i nostri (e quanta differenza dall’anno scorso) sono tesi, ma non hanno paura.
Oddio, un po’ di paura sugli spalti comincia ad affiorare, quando dopo mezz’ora non si è ancora cavato un ragno dal buco, nemmeno una vera grande occasione. Tuttavia, non molliamo, e qualcuno lassù ce la manda buona, sotto forma di un fallo da rigore ineccepibile. E’ il primo infarto della giornata; in curva ci sgoliamo di non fare “ooh”, abbiamo paura per i giovani nervi di Alessandro Rosina, che a vent’anni si prende una responsabilità di quelle che hanno spesso steso anche i grandi campioni. Non ci riusciamo, la curva è ingovernabile, fa come vuole. Io, dentro di me, nego che un tal Dorigo abbia mai giocato al Torino, e fisso Rosina.
Lui si avvicina, sta per calciare il rigore. E’ proprio di fronte a me, dritto, vicino. E a quel punto succede qualcosa di miracoloso: mi guarda.
Sì, Rosina mi guarda, e mi dice: questo non lo sbaglierò, fosse l’ultima cosa che faccio nella vita. Ma non lo dice solo a me. In quell’attimo lunghissimo, prima di muoversi, guarda negli occhi, uno a uno, tutti i sessantamila granata del Delle Alpi. E poi prende la rincorsa, rallenta, riprende e spiazza il portiere, tirando un rigore da manuale.
Lo stadio esplode, la prima paura è vinta: stasera non siamo sterili, stasera ci siamo. Tutto è possibile, basta crederci.
Eppure, è ancora durissima: l’atteggiamento del Mantova non cambia, difesa con grande ordine e attacco su palle inattive. All’inizio del secondo tempo un colpo di testa mantovano, proprio sotto la Primavera, mi fa quasi venire un infarto: in un istante lunghissimo mi passano davanti agli occhi tutti i fotogrammi della mia vita, prima che il pallone esca di tanto così, venti centimetri al massimo.
Poi, però, lo stadio esplode una seconda volta: è Muzzi, il nostro gladiatore, a infilare la porta (almeno così intuiamo dai festeggiamenti, visto che le distanze cosmiche del Delle Alpi rendono il tutto invisibile). L’esultanza è incontenibile, i giocatori del Mantova sono impietriti. Io perdo ogni forma per una trentina di secondi, intorno a me è il caos, io sto fermo sul mio ombelico, padrone dello stadio, e semplicemente urlo. Adesso siamo in vantaggio noi.
E così, devono cominciare a giocare anche loro; e a questo punto sale in cattedra il perverso arbitro Farina, che comincia disperatamente a cercare la “zona Brambilla“, ogni loro azione una punizione scientificamente assegnata sulla tre quarti, ogni nostra azione invece tutto regolare. Alla decima punizione contro di noi, sempre nello stesso fazzoletto di terreno, non ne posso più, e approfitto di una pausa nei cori per urlare “Farina gobbo di merda!”, riscuotendo consensi.
Ma c’è sempre più tensione, compresa la mitica Marzia (ormai un’istituzione) che, con il fuoco nelle vene e la frenesia del soldato alla prima battaglia campale, abbandona balconata e megafono e sale a “discutere” con un tifoso che lamenterebbe poco impeto nei nostri cori. Sotto di noi il Mantova crea qualche rischio, e ogni angolo e ogni punizione imposta da Farina è un infarto potenziale, fino quasi a farci svenire. I quattro minuti di recupero sono una coltellata, ma poi finiscono e si va ai supplementari.
E lì, si inizia presto con il terzo miracolo; uno dei nostri buoni lavoratori del pallone, Davide Nicola, si inventa il gol della carriera. Anche questo è appena intuito, ma non importa: un grumo vivente di almeno un centinaio di persone, giocatori riserve dirigenti raccattapalle fotografi e infiltrati, zampetta sotto la Maratona come un grande ragno, che tutto abbraccia e corre convulso. Se il delirio può diventare iperdelirio al cubo, questo è ciò che succede allora: siamo in Paradiso, convinti di avercela fatta.
E’ a quel punto che Farina decide di tentare l’opera d’arte, prima quando Fantini si candida all’eredità di Tricarico facendosi cacciare da incosciente, e subito dopo assegnando il terzo rigore in due partite a favore del Mantova. Gufiamo, ma non c’è nulla da fare: palla nel sacco e inizia la sofferenza.
Non che non ci siamo abituati, ma centoventi minuti di finale per due anni di fila sono troppo per chiunque; alcuni cedono e si voltano con le spalle al campo. Altri quattro minuti di recupero, roba mai vista per un primo tempo supplementare: più che coltellate sono raffiche di mitra. Il Mantova attacca con l’uomo in più, la nostra difesa è mediamente ordinata, Brevi resiste e Doudou si fa amare definitivamente, azzeccando la sua miglior partita in maglia granata dopo mesi di panchina.
Il finale, e non può essere altrimenti, è paura e preghiera. Intorno a me, più che cantare, contano i minuti, e da lanciacori ci si trasforma in orologi umani. Io sono in trance, i nervi li ho dati, il cuore resiste, l’energia è finita ore fa, rimane solo la volontà . Mi arrabbio con i miei amici quando provano a lanciare cori di festa, che secondo me portano immensamente sfiga; Marzia mi sfancula di brutto. Il Mantova tira di qua e di là , ma stasera non può finire male, qualcuno dall’alto o noi con le nostre menti deviamo quei tiri e li buttiamo fuori ogni volta di qualche centimetro. E’ una partita a calciobalilla in cui gli altri possono rullare, tirando palloni impazziti che incocciano giocatori e sponde. Ma il minuto di recupero è già quasi festa.
E così, finisce in gloria. Con un abbraccio incontenibile di tutto e di tutti. Con innumerevoli “rapporti quasi omosessuali”, ma anche eterosessuali, dove possibile. Con una eiaculazione di tifosi dalla Maratona al campo, che avvolge e travolge tutto e tutti. Con i giocatori che esibiscono il fisico nudo nel giro di campo, e Doudou che fa sbavare tutte le signore e signorine presenti.
Con lo speaker che prega “gli occupanti del settore ospiti di rimanere seduti ai propri posti” (e rosicare in silenzio, aggiungo io), mentre questi si divertono a tirare razzi sui tifosi dei distinti e seggiolini ai festanti in campo, che peraltro li provocano con boschi di braccia piegate nel gesto dell’ombrello, e alcuni anche mimando l’aeroplanino di Lori come sfottò. I mantovani fanno i duri, poi a un certo punto la polizia decide di prenderne un paio: dieci poliziotti dieci entrano da sotto nel primo anello e millecinquecento presunti “ultras” scappano a razzo impauriti.
Noi della Primavera ci limitiamo ad andare vicino al loro settore e mostrargli bello grosso il due aste “Non ce n’è” (tra l’altro, siamo una delle pochissime tifoserie in Italia ad averlo scritto giusto) e farci le foto con loro schiumanti di rabbia sullo sfondo; evitiamo con grazia i loro lanci di bottigliette finchè un finanziere del “gruppo antiterrorismo” non viene a pregarci di sloggiare (aho! va bene che assomiglio a Bin Laden, però…).
Dopo è soltanto festa; Torino è tutta granata, dalle periferie al centro; per la prima volta in vita mia, a Porta Palazzo vedo girare con bandiere granata persino gruppi di immigrati (e ne sono felice). Via Po, via Roma sono piene zeppe di tifosi; gobbi in giro, nessuno. Il clima è talmente festoso che spunta per strada l’avvocato Marengo e nessuno gli dice nulla, anche perchè il suo sorriso prestampato stavolta sembra troppo sincero.
Tutto questo lo sento anche un po’ mio, mio come di tanti altri. Non so se siano stati proprio la mia notte in piazza, o il mio commento su questa o quella partita in questi mesi, o il mio grido di ieri sera, o la mia strisciolina di guida telefonica, ad essere decisivi, determinanti in questa infinita lotta di millimetri e secondi. Probabilmente, ieri sera, tutti noi siamo stati il Toro; tutti noi siamo stati decisivi.
Insomma, questa serie A ce la siamo proprio meritata. Andando a riprendere l’auto per tornare a casa dopo la festa, passo nella piazza del Comune. In questa serata, quasi un anno dopo, è completamente deserta. Meglio così.