Sarò licenziato per questo
Chi mi conosce più da vicino sa che io e il mio socio abbiamo alcune, ehm, lievi divergenze sulla concezione dei rapporti lavorativi all’interno di una azienda moderna.
Una delle cause di discussione più frequenti in questi ultimi mesi è stata la legittimità del fatto che io blogghi in orario d’ufficio. Per me è del tutto normale che una persona con un ruolo di dirigente (ma anche un normale tecnico, se la cosa non degenera) abbia una allocazione flessibile del proprio tempo, che include una certa percentuale di tempo dedicata ad attività pubbliche o all’autoapprendimento; questo tanto più se non è assunta ma è retribuita in forma di consulente. Al contrario, per un manager che viene dal marketing il fatto di spendere anche solo dieci minuti sul proprio blog tra le 9 e le 18 è non solo un tradimento del proprio dovere di buon lavoratore, ma addirittura potenzialmente una giusta causa di licenziamento o di rottura del contratto.
La discussione è interessante: come cambiano i diritti degli individui in un mondo del lavoro flessibile? La flessibilità va solo a danno del dipendente, o ci sono anche forme di flessibilità vantaggiose, come quella di poter fare ciò che si vuole del proprio tempo purchè si raggiungano gli obiettivi? Per tutti noi che svolgiamo di fatto un lavoro dipendente, a progetto o in partita IVA, senza essere assunti, fino a dove l’azienda ha diritto di pretendere il rispetto di un orario e di mansioni definite in modo “classico”? E se l’azienda lo fa, non dimostra intrinsecamente di nascondere un rapporto di tipo subordinato sotto la forma (detassata) della consulenza?
Io, come sapete, non sono affatto legato alle tradizionali forme di rapporto lavorativo, che considero anzi obsolete in moltissimi casi, e persino inique verso tutti quelli che, nella mia generazione, sono poi costretti a lavorare in modo totalmente precario per permetterne la sopravvivenza. Allo stesso tempo, trovo che la flessibilità debba valere in entrambe le direzioni; se un’azienda non vuole concedertela, può sempre assumerti.
22 Settembre 2006, 15:09
Come dissi una volta al responsabile del nostro Servizio Personale che affermava “l’orario di ingresso deve essere rispettato da tutti in ogni caso”: “Sì, ma come faccio a spiegare ad un mio collaboratore che l’orario di ingresso in ufficio deve essere rispettato sempre, invece quello di uscita è puramente indicativo?”. Ovvero la flessibilità è tale se ho un vantaggio per entrambe le parti, azienda e lavoratore, che può essere per quest’ultimo quello di rendere il periodo di permanenza in ufficio più conforme alle mie esigenze, come entrare in ufficio tardi oppure passare un po’ di tempo su Internet o alla macchinetta del caffé, altrimenti non è flessibilità ma solo sfruttamento…
Saluti
Alberto
22 Settembre 2006, 17:39
/subscribe Alberto.
Inoltre tutti i maniaci delle regole dimenticano sempre che un essere umano produce male se gli girano le palle. Credo dipenda dal fatto che a loro non succede. Il che li rende non umani. (oppure ipocriti).
22 Settembre 2006, 21:07
>E se l’azienda lo fa, non dimostra intrinsecamente di >nascondere un rapporto di tipo subordinato sotto la forma >(detassata) della consulenza?
bravo, hai fatto centro!
22 Settembre 2006, 21:44
/subscribe Simone (la parte del girano le palle ;))
Io credo che a qualcuno, sempre costretto ad aver a che fare con l’affanno derivante dalla propria mediocrità , sfugga il concetto che il lavoro possa essere gratificante in sé e talvolta anche divertente. Per questi il dipendente entusiasta è solo uno che sta cazzeggiando e che non è sfruttato abbastanza. La cosa più triste è che questo atteggiamente è ben vivo anche in quelli che dovrebbero essere centri di ricerca o di “eccellenza” (in realtà dove sto io ce c’è ben poca, statene alla larga).
Ecco ora rischio il posto anch’io e ne sono quasi felice.
22 Settembre 2006, 22:39
Una riflessione da parte di uno stacanovista sottopagato:
spesso le cose migliori le faccio quando riesco a concentrarmi per un breve lasso di tempo su un problema senza affannarmi a trovare soluzioni con il fiato sul collo.
In quei momenti rendo al 110%.
D’altra parte però vedo con fastidio le persone che cazzaeggiano senza concludere nulla e senza prendersi impegni o responsabilità su obiettivi.
Se dovessi definire il migliore dei mondi lavorativi possibili pernserei a lavorare SOLO per obiettivi senza orari o obblighi.
Ritengo con tristezza che viviamo in una società (torinese direi) che valuta le persone e il lavoro solo sulla quantità e apparenza NON sulla sostanza ovvero sui risultati prodotti.
22 Settembre 2006, 22:40
Una catena di montaggio esige che tutti gli operai lavorino contemporaneamente. E che l’operaio sia triste o felice, concentrato o alterato alla catena non importa nulla.
Ma in settori intellettualmente più evoluti le cose non stanno così: un po’ di distrazione rende più efficiente e produttivo il lavoratore.
Si diceva che la “new economy” (ma si chiama ancora così?) fosse una rottura con il passato anche dal punto di vista delle metodologie di lavoro (e non è detto che fossero più leggere: le belle brandine in ufficio…), ma se ad essere flessibile devono essere solo lo stipendio e la stabilità del lavoratore probabilmente non ci siamo.
22 Settembre 2006, 22:44
Mi è venuta in mente questa vignetta di Dilbert:
Scena: colloquio di assunzione
Candidato: “Come ricompensate i lavoratori più produttivi?”
Manager: “In nessun modo. Aumentiamo loro il carico di lavoro finchè la produttività non torna nella media”
22 Settembre 2006, 23:00
Sul fatto che le persone, anche in un mondo flessibile, debbano comunque prendersi responsabilità e raggiungere obiettivi, non ci piove; il punto non è certo quello di giustificare il cazzeggio a tempo indeterminato o l’imboscamento.
Il problema è sull’allocazione del tempo extra; in altre parole, se io raggiungo i miei obiettivi in modo accettabile in un tempo inferiore alle 8 ore, mi ritengo libero di rilassarmi e distrarmi in quello che avanza – anche perchè è proprio questa distrazione a permettermi di essere produttivo nel tempo dedicato agli obiettivi stessi.
Dal punto di vista di chi ti paga, però, sorge naturale il ragionamento da “catena di montaggio”, quello in cui il prodotto è strettamente proporzionale al tempo lavorato: allora, quel tempo che avanza potrebbe essere dedicato a produrre ancora un pochino, o realizzando gli obiettivi in modo non solo “accettabile” ma “eccellente”, o realizzando altri obiettivi addizionali. E quindi, l’azienda potrebbe avere ancora di più da te, senza spendere una lira in più. E visto che ti paga anche in quel tempo, perchè rinunciarci?
Io ritengo che il ragionamento non funzioni, in un contesto di lavoro intellettuale, proprio per via del meccanismo di cui parla la vignetta di Dilbert sopra citata: prova ne è che la mia produttività da quando ho smesso di bloggare in orario di ufficio è probabilmente calata, anzichè aumentare.
22 Settembre 2006, 23:53
Il ragionamento da catena di montaggio non funziona affatto nel caso di lavoro intellettuale. Senza lasciare spazio all’iniziativa individuale ci si ritrova in breve tempo con dei dipendenti che non sono più aggiornati. Io sto attraversando un periodo di carico da mulo a causa di questa miopia dirigeziale e di alcune situazioni contingenti. Il risultato è che, oltre ad essere calata la mia produttività , è anche calato il rate con cui mi tengo aggiornato con le cose (sia per questioni di tempo che per voglia). Guarda caso il direttore che vuole che le cose vadano così viene dal settore industriale…
La mia utupia sarebbe una situazione come in Google. Lì i dipendenti sono *obbligati* ad avere un proprio progetto personale cui dedicare, rendicontandolo, un 20% del tempo di lavoro.