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Archivio per il giorno 20 Settembre 2006


mercoledì 20 Settembre 2006, 19:19

A testa bassa

Non so da dove venga questo ritaglio che mi hanno girato in una delle infinite catene di mail che intasano la mia casella, ma, come per gli sfottò dei gobbi dopo Crotone, è difficile reagire in altro modo che chinando la testa:

Caro elettore di sinistra

Lo dico davvero a malincuore, ma dopo la devastante performance di questi primi mesi potrebbe davvero essere il caso di ritirare fuori le magliette con la scritta “IO SONO UN COGLIONE” che alcuni di noi indossavano orgogliosamente in campagna elettorale… e di indossarle con un altro spirito.

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mercoledì 20 Settembre 2006, 02:29

Pearl Jam, lo spettacolo del rock!

Questa sera a Torino, nel nuovo Palaisozaki (ma trovargli un nome no? casa mia mica la chiamo col nome dell’architetto), suonava uno dei gruppi storici della mia adolescenza, i Pearl Jam; una band che per qualche anno, diciamo la prima metà dei ’90, fu sul tetto del mondo del rock, e che poi sprofondò in una serie di dischi sempre più anonimi, finchè la persi quasi di vista.

Avevo sentito i due singoli del nuovo disco in radio, e mi erano piaciuti molto; eppure, fino a pochi giorni fa non sapevo nemmeno se andare. Mi ero appuntato la data, e mio zio mi aveva incuriosito offrendomi un biglietto per il parterre. Alla fine, mi sono messo d’accordo con un amico, ma avendo deciso che siamo troppo vecchi abbiamo optato per i posti a sedere, comprati via Internet, sperando che fossero decenti (non c’era nemmeno una piantina).

La serata non inizia affatto bene; arrivo verso le 20,15 e tutto intorno alla zona olimpica è il caos. Mi reco a colpo sicuro a parcheggiare nel piazzale sterrato appena costruito come parcheggio dello stadio, e scopro che è incredibilmente sbarrato! Così mi tocca la banchina del controviale di corso Galileo Ferraris, e un discreto pezzo a piedi. Intorno ci sono le auto più varie: un discreto numero con targa francese, e altre ancora meno spiegabili (un taxi di Aulla?!?).

All’ingresso, ci sono tonnellate di bancarelle di magliette, ma solo due paninari, ovviamente presi d’assalto (il Comune sta cercando di sterminarli, e non si capisce perchè). E poi, c’è una sola biglietteria per tutto, residui, ritiro biglietti Internet, accrediti stampa… ovviamente c’è una fila enorme, che però si rivela piuttosto veloce.

Entriamo, e dentro è il caos; ci sarà una decina di migliaia di persone che ha il posto numerato, e non c’è praticamente alcun cartello per indicare i settori, se non delle decalcomanie appese nei posti meno visibili che si potessero immaginare. L’unico modo è chiedere agli steward, alcuni gentili, altri che non gliene può fregare di meno.

Arriviamo al nostro posto (secondo anello, settore 303) alle 21 in punto, e, orrore, è una vera piccionaia! Sembra il terzo anello del Delle Alpi, con il palco piccino picciò, e perdipiù coperto in parte da una barriera di plexiglass trasparente, ma solo in teoria. E’ la moda olimpica torinese: posti tutti a sedere ma da cui non si vede niente, perchè le barriere di plexiglass, i montanti di alluminio, i parapetti azzurrati, ai fini del calcolo delle visibilità vengono equiparati al vuoto, come se non ci fossero. Che il tutto funzioni lo crede solo Chiamparino.

Del resto, la scarsa visibilità comincia a esserci impedita da quelli che, ovviamente, si alzano e vanno ad affacciarsi al parapetto. Dovrebbero stare seduti, ma d’altra parte, signori, s’è mai visto un concerto rock dove la gente sta zitta e seduta, perdipiù in un posto dove si vede pochino? Ma chi le pensa queste strutture, un vecchio sessantenne che va a vedere solo Orietta Berti? Davanti a noi una famigliola insiste nello stare seduta ai propri posti e nel prendere a urlacci tutte le coppie di fighetti che gli si piazzano davanti, scambiando con loro risate di scherno, vaffanculi e insulti vari. Non scatta la rissa solo perchè la più accesa è una signora; il raro steward passa e fa finta di non vedere, direi che anche a lui frega solo di vedere il concerto.

Il quale concerto inizia puntualissimo, alle 21,05, cogliendo tutti di sorpresa; e la situazione peggiora. I Pearl Jam attaccano con qualche pezzo classico, tra cui Animal e Elderly Woman Behind The Counter…, ma è un disastro: sembra di sentire una radiolina messa di fronte a un muro di cemento, con un riverbero infinito. L’acustica, insomma, è orrenda, la visibilità è ridicola e sto per metterci una croce sopra: Palaisozaki mai; come l’Olimpico, tanto bello ma totalmente inadatto per quello per cui sarebbe stato costruito, un vero spreco di soldi pubblici.

Io e Andrea pensiamo già a come far causa per farci ridare i soldi, quando, tentare per tentare, decidiamo di provare ad andare in un altro settore. Basta già andare nella metà inferiore del secondo anello – quella in cui i numeri di settore iniziano per 2 – perchè le cose cambino nettamente. Lì, intanto, si è tutti in piedi (nonostante la teoria dei posti a sedere) e non ci sono scazzi; in questo modo, si può almeno cantare e ballare. Poi la gente è rada, perchè molti si sono spostati in basso, e si trova posto senza sgomitare. E comunque, la visibilità è buona, e anche l’acustica, probabilmente grazie anche a qualche aggiustamento dal mixer, migliora notevolmente.

E così, comincia il vero concerto; proprio durante il trasloco Eddie Vedder legge un testo in pseudoitaliano, per spiegare che “in tempi di guerra, cantiamo parole di pace”. Attaccano quindi con i due singoli del nuovo disco, prima Life Wasted e poi World Wide Suicide; questo secondo, con mia sorpresa, mi esce fuori a memoria e lo canto tutto – ma sono le melodie vocali di Eddie ad essere straordinarie e a scolpirsi da sole in testa, con quella voce che ti riempirebbe di brividi anche se cantasse il bugiardino del Maalox.

Il gran tiro mi esalta e finisco già la voce, ma per fortuna i PJ vanno avanti e fanno quello che, direi, è l’ultimo disco (che non ho mai sentito) per intero o quasi. Temo la noia e invece queste canzoni, pur al primo ascolto, sembrano una più bella dell’altra. Certo, la gente non le sa, e solo un paio di manipoli di scatenati le cantano, in cima al parterre; ma l’atmosfera è bella, raccolta, con delle belle luci di coreografia, e si fa molto apprezzare. Passa un’oretta, e ne esco – oltre che rappacificato con l’Isozaki, che anzi sfoggia un bel colpo d’occhio e una ottima acustica nei pezzi meno rumorosi – voglioso di comprare il nuovo disco.

Poi, però, ci fanno capire di avere un po’ scherzato, e attaccano i pezzi vecchi; e il concerto si trasforma. Fanno Do The Evolution per scaldarsi, ma la vera svolta è quando attaccano Rearviewmirror, uno dei superclassici della mia adolescenza, che ho cantato e suonato da solo e in gruppo in tutti i modi e tutte le versioni possibili. Lo attaccano alla velocità della luce, quasi hardcore, con una chitarra anfetaminica costretta nevroticamente in un reticolo di pennate, che costruisce il riff ossessivo sotto la voce di Eddie.

In platea la cantano quasi tutti, ma il primo miracolo della serata deve ancora venire. La canzone ha una parte centrale – una manciatina di battute, sul disco – in cui rallenta di colpo, e diventa quasi una pila; dove l’energia si accumula in una sacca di sospensione per poi esplodere nel finale. Bene, qui tutto il palazzo è l’accumulatore, ed è l’energia dei nostri movimenti, contorti sotto una luce blu, ad impilarsi. Ma poi, invece di esplodere, loro rallentano, scemano, e vanno avanti per diversi minuti a guardarsi, improvvisare, fare assoli in questo ritmo che è foriero di attesa e di tensione insieme, come una delle infinite “scene prima del duello” che citavo giorni fa parlando di Sergio Leone. E quindi respiro, stacco la spina, resto sorpreso e un po’ sperso, e mi chiedo dove vogliono andare a parare, se attaccheranno qualcos’altro, se finirà così; e nel frattempo, piano piano, impercettibilmente, loro ricominciano ad accumulare e poi di botto attaccano, in un tripudio che scuote il palazzo, la parte finale, a velocità ancora più supersonica, “saw things, saw things, clearer, clearer, once you were in my rearviewmirror”, con quella scivolata subito dopo che sembra uno scordamento improvviso della tonalità, e un finale devastante, in cui loro pestano, tutti urlano e fanno i cori, e sembra un sacrificio umano e una rivolta di piazza contro la condizione esistenziale degli esseri umani, e bisognerebbe spaccare le chitarre per poterci stare dietro. Dopo un’altalena di emozioni io non ne ho più, e quando la canzone si sblocca di botto mi risalgono su dallo stomaco quindici anni di vita, i flash uno dopo l’altro, chiari e ben visibili, di tutto quello che è rimasto indietro nello specchietto; rischio seriamente il collasso psicoemotivo per improvviso vomito mentale. E difatti, dopo l’accordo finale, loro scappano esausti dietro le quinte per l’intervallo, e io quasi mi accascio sulle poltroncine.

Cinque minuti e la band è di nuovo sul palco; ora si fa sul serio. Questa musica mi riporta dritto ai miei terribili sedici anni, alla prima volta che sentii i Pearl Jam, presentati da Radio Rai come “una delle maggiori promesse dell’anno, segnalati come sicuro successo dalla Sony; era una sera in macchina all’inizio di corso Allamano, sul postale guidato da mio padre con cui io e mio fratello subivamo, quali pacchi, l’ordinaria riconsegna settimanale da un genitore all’altro. Non sono mai bei ricordi, l’adolescenza è tormentata di suo e la mia lo è stata probabilmente più della media; questo forse spiega come il trasporto emotivo di stasera sia prevalentemente sofferente.

Il concerto ricomincia con Jeremy, e anche qui è tutto un flashback. Quel video che durò un anno su tutti gli schermi fece il successo della band, con la sua storia violenta e malata che viene ricantata ora a memoria da quasi tutto il pubblico. Dopo il breve intermezzo di Lukin si torna ai classici, stavolta Better Man, una canzone struggente e anche l’unico singolo orecchiabile di Vitalogy, un disco per il resto duro e alienato, da veri nerd sospesi tra il tentato suicidio e la follia definitiva (resta tuttora il mio preferito). Ma Better Man è facile, inizia piano e poi si lancia a tutto vapore, e Eddie fa cantare due strofe al pubblico, che risponde subito, “she dreams in color she dreams in red, can’t find a better man”.

Penso che non si possa andare oltre, e invece, a sorpresa, arriva anche di meglio: attaccano Black, una canzone che sta nelle mie radici; quando suonavo in un gruppo, difatti, la facevamo sempre, ed era uno dei nostri pezzi più forti. E anche se all’epoca non potevo ancora capire fino in fondo la disperazione di cui parla (“All the love gone bad / turned my world to black”), la conosco ancora nota per nota, le svisate di basso, i legati di voce e poi ancora il finale lunghissimo e arroccato su quel motivo in falsetto che cantavo io, proprio io, e che ora cantano in ventimila all’unisono. Anche a noi succedeva che il pubblico si unisse al falsetto ed andasse avanti a cantarlo da solo, ma qui, quando loro infine smettono di suonare, noi non vogliamo lasciar scappare questa emozione; per parecchi secondi il pubblico continua a cantare e battere le mani a ritmo mentre loro stessi guardano stupiti ed Eddie si inchina sul palco.

Tremor Christ è un altro pezzo del quadro di Vitalogy, e uno di quelli piuttosto oscuri; anche qui la conosco nota per nota, ma si vede che non è una favorita del pubblico. A questo punto quindi loro giocano l’asso e attaccano Alive, forse la loro canzone più famosa, il cui ritornello viene cantato in coro da tutti i presenti, non uno in meno, ed è un muro di voci che non ho mai sentito, nemmeno allo stadio quando si fa “La gente”; una sensazione davvero impressionante.

Anche questo è un gran finale, e difatti escono; ma poi tornano di nuovo e attaccano Blood, di cui viene esaltata l’anima funky, mentre l’urlato di Eddie parte a un volume pazzesco (mixeriiistaaaa!). Tutto il palazzo si fa rosso sangue, mentre a un certo punto, su una delle varie riesplosioni della canzone, Eddie fa un salto con spaccata altissimo, davvero incredibile; se qualcuno fosse riuscito a fermare in una foto proprio quell’attimo, sarebbe la foto del rock al suo massimo.

Segue Even Flow, anche questa attaccata a una velocità incredibile, quasi speedcore; e non è la fretta di finire, e nemmeno l’abitudine che porta sicuramente a velocizzare i pezzi suonati e risuonati, ma veramente una carica energetica che deve scaricarsi, e che esce in un ritmo frenetico, negli assoli, nelle pose e nelle corse avanti e indietro per il palco. Nel lungo pezzo centrale un platinato Mike McCready si spara un assolo pazzesco scendendo addirittura giù dal palco, e per risalire suona una nota lunga e gonfiata che tiene con una mano mentre con l’altra si arrampica, per poi riprendere il resto dell’assolo come niente fosse. E subito dopo, Matt Cameron si produce in un assolo di batteria, signori un assolo di batteria nel 2006, ed è straordinario, mica una palla unica come buona parte di quelli di quando l’assolo di batteria era obbligatorio per legge.

Finisce che loro sono visibilmente contenti, e il pubblico è in delirio; potremmo andare avanti tutta la sera, a catarsi adolescenziali e cori generali, con grande soddisfazione. Eddie promette che non passeranno altri sei anni prima del prossimo tour europeo, e io penso che sono talmente preso da questo concerto che se domani non giocasse il Toro potrei andare fino a Pistoia per risentirli.

Nel frattempo, però, attaccano Baba O’Riley degli Who, e io immagino mio zio, grande fan dei mezzi morti e mezzi quasi, in delirio là in basso nel parterre. Ok, è un bel pezzo, grazie, Eddie salta e si dimena in tutti i modi possibili, e nel frattempo accendono le luci e ci accingiamo ad andare… quando d’improvviso sul palco compare un contrabbasso elettrico e, a sorpresa, ci regalano ancora Indifference. Detto tra noi, la suonano maluccio, ma non importa; che emozione risentire il pezzo simbolo della depressione adolescenziale e post-adolescenziale, la canzone che ha inculcato in milioni di giovani di tutto il mondo un progetto di vita come questo:

Oh, I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam
Oh, I will make my way through one more day in hell…
I will hold the candle till it burns up my arm
Oh, I’ll keep takin punches until their will grows tired
Oh, I will stare the sun down until my eyes go blind…
I’ll swallow poison until I grow immune
I will scream my lungs out till it fills this room
How much difference
How much difference
How much difference does it make
How much difference does it make

Negli anni l’ho ascoltata in vasche da bagno di acqua ormai gelida, nella mia stanza con le luci rigorosamente spente, persino da ubriaco: ah, quanta depressione gratuita! In effetti dovrei fargli causa, ma stavolta la fanno con tutte le luci del palazzo accese, e la canzone diventa innocua, più un “come eravamo quando tu avevi la metà dei tuoi anni” che una vera minaccia.

Infine, il concerto si chiude davvero, con loro che si stringono e si abbracciano sul palco davanti a un meritatissimo, lunghissimo applauso.

Ho la sensazione che i Pearl Jam siano finalmente usciti dal tunnel, e siano diventati un gruppo maturo; che, anche come persone, abbiano superato le proprie disavventure e infelicità per diventare quarantenni solidi e adulti. E che quindi, come altri gruppi di spessore, siano pronti per regalarci altri dieci o vent’anni di buona musica, magari non più geniale, ma sempre di gran classe.

Se poi dal vivo continueranno a regalare serate come questa… che concerto, ragazzi! Onestamente non ne ho visti molti con questa energia e questa emozione, anzi forse non ne ho visto nessun altro! Dopo un concerto ROCK come questo, con la R la O la C e la K maiuscole, sarebbe da andare a scolarsi una bottiglia di Jack Daniel’s dal manico della chitarra, e che diavolo! In onore dei bei vecchi tempi in cui si è giovani e, con l’anima disperata e utopica del rock, si pensa di poter cambiare il mondo o in alternativa autodistruggersi prima di dovercisi adeguare, e poi invece non succede nè l’una nè l’altra cosa e ci si ritrova un po’ più delusi e cinici di prima, ma in fondo più sereni, e sempre pronti a roccheggiare quando ce n’è l’occasione. Sono carichissimo, ma mi bastano un paio di sorpassi alla GT4 in mezzo al traffico (che cazzo ti fai i fari, vecchio amante del liscio, con quella Panda di merda piantata a due all’ora in mezzo al corso!) per liberare l’energia senza danno alcuno. Lunga vita al rock’n’roll!

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