Fuori
Ieri ho deciso di utilizzare la mia pausa centrosettimanale – mercoledì e giovedì, privi di qualsiasi appuntamento – per andare in montagna. Ho casa in val d’Aosta, in un piccolo villaggio di palazzine moderne, isolato e conficcato su un dolce declivio davanti al vuoto mozzafiato della grande curva della valle principale. Nel villaggio stanno ancora costruendo, e questi blitz infrasettimanali – in cui sono ovviamente l’unico abitante del villaggio, oltre al custode e agli operai – creano sempre scompiglio al piano dei lavori: a ottobre sono rimasto senza gas (e quindi senza riscaldamento, con dodici gradi in casa) fino alle sei dei sera, cavandomela con un termoventilatore elettrico da dieci euro; stavolta stavano dipingendo di rosa la facciata, e mi sono trovato le finestre incerottate e coperte, anche se per fortuna avevano finito e ho potuto regolarmente spalancare
Comunque, questo ritiro spirituale in mezzo alla natura, preso nelle giuste dosi, è eccezionale per calmare lo spirito, ma anche per permettermi di portare avanti alcuni progetti di lungo termine (ancora non di pubblico dominio) di cui vi parlerò presto. Finisce però che passo buona parte del giorno a percolare, ossia a riflettere sui problemi miei e del mondo nei thread a bassa priorità del cervello, tra una partita alla playstation, un po’ di cucina e qualche passeggiata.
Oggi c’era il sole e la giornata era eccezionale; sono uscito tardi, a metà pomeriggio, e già nel bosco subito sopra le case c’era soltanto il silenzio, mentre la luce di taglio faceva brillare tutti i colori delle foglie, dal verde all’arancione, al giallo, al marrone e al rosso. Dieci chilometri più sotto, in fondo alla valle, si vedeva un balugine lattiginoso e globulare che pulsava bianchiccio, avvolgendo in una nebbia di plastica i paesi dell’autostrada. Qui, però, l’aria era pulita, ferma, come in una fotografia avvolgente che, non avendo preso la macchina, non potevo fare; ma era anzi più bello che il momento fosse un pieno a perdere, unico come un battito di ciglia.
Ho risalito il crinale, scollinato nella valle di Ayas e seguito la costa della montagna; non pensavo di andare lontano, mentre il cielo si ingrigiva e la luce cominciava a svanire. Eppure, in un attimo mi sono ritrovato al bivio, e ho preso la strada che non avevo mai fatto, quella che punta verso il mistero dell’alta montagna, del Monte Zerbion a picco sulla testa e del Monte Rosa lontano in fondo, e sconsiglia di farsi prendere con un perentorio segnale di divieto di transito: “ANCHE AI PEDONI – PERICOLO DI CROLLI”.
Certo c’è pericolo di crolli, davanti alla nuda natura delle montagne, dove un cammino da soli diviene un viaggio, e dove il bosco e la roccia si snodano sempre uguali e sempre diversi nello spazio e nel tempo. Forse il motivo per cui ci chiudiamo in case fisiche e mentali è proprio la paura di non capire l’infinito, di non riuscire ad abbracciarlo per intero, e di finire dentro la pazzia del desiderio di scoperta che alimenta se stesso, quello che spinge da millenni gli esploratori a spingersi troppo lontano, a morire al Polo Sud o nel gelo dei meandri della propria mente. Ci vuole coraggio per apprezzare le proprie proporzioni, per realizzare la propria infinitesima dimensione e profonda irrilevanza rispetto all’universo, e nonostante questo viverci insieme in pace, senza sentirsi impotenti e senza delirare di controllo e potere, arroganti desideri che ci sono possibili solo in un mondo recintato e artificiale (castrato all’ennesima potenza) costruito dall’uomo per l’uomo, ma non nel mondo reale.
Bastano poche curve per arrivare alla prospettiva del crollo, sotto forma di una galleria completamente buia che trapassa una roccia di cinquanta per cinquanta per cinquanta metri, sdrucciolata chissà quando dall’alto del monte sulla strada medievale che sto percorrendo. E’ una trachea buia e inospitale di cui non si vede il fondo, costellata di rocce cadute qua e là , e tende a suggerire che, dopotutto, il pericolo potrebbe esserci davvero. E’ l’astuzia del genere umano a suggerirmi la via, sotto forma di uno stretto cornicione rimasto agibile tra la roccia e la vecchia strada, e già percorso da altri esseri animati prima di me. Seguo la traccia come prima di me i lupi e i cerbiatti, e sbuco da un groviglio che non diresti, proprio dall’altro lato della galleria.
Ma dopo qualche altra curva arriva la seconda galleria, e nel frattempo è freddo e quasi buio, e sono a quasi un’ora di cammino da casa. Decido che è giunto il momento di tornare indietro, e che la mia esplorazione, per oggi, si è spinta a sufficienza. Al ritorno, però, voglio far valere il coraggio di un Prometeo senza torcia, in onore di quegli esseri umani che, nei millenni precedenti a noi, hanno fatto ben altro per permettere alla storia di giungere fino a qui.
Imbocco la galleria a passo sicuro, sfruttando la luce che arriva alle mie spalle, e confidando nella lunghezza ridotta, e nel fatto che l’altro lato apparirà a breve. Eppure, la luce si affievolisce, e nulla succede. Il passo si fa incerto, poi cauto, perchè non vedo nè sento nulla, privato dei miei sensi e quindi in balia del destino. Potrebbe esserci un gradino, una voragine, un troll o la porta dell’inferno, ma io posso solo contare sull’udito e sul tatto dei piedi, perso nel buio dietro il buio davanti.
A un certo punto, però, ho l’illusione di una lievissima stella cometa, come una sottile traccia color nero chiaro sullo sfondo color nero scuro, che piega di colpo a sinistra; sembra una di quelle impressioni che restano sull’occhio dopo una vista abbagliante, e potrebbe essere anche una tentazione di una strega cattiva. Dopo dieci passi nel buio, però, la traccia salvifica si fa più credibile; mi avvisa della parete di roccia che segna una inspiegabile curva ad angolo retto, segno di quando l’ingegneria mineraria si faceva a picconate e speranza nel Signore. Ironicamente, la traccia curva è il riflesso della fioca luce esterna sul grosso tubo di gomma che segue la strada per chilometri, portando l’acqua dai monti alle alte borgate: l’unico elemento moderno in un viaggio alle radici del tempo.
E’ quasi buio, anzi dopo poco è buio proprio, e anche all’esterno i passi si fanno incerti. Dopo mezz’ora sono sopra casa, e soltanto allora realizzo che, residuo di quando ero nella galleria, ho ancora il pugno sinistro stretto e serrato attorno al mio pollice. Non c’è niente da fare: alla fine siamo sempre un novantanove per cento di animale, regno di istinto e di archetipi nascosti, che finge di essere quell’un per cento di spirito e ragione, e se ne vanta pure. Se qualcuno che è puro spirito ci guarda, starà senz’altro ridendo gentilmente di noi.
25 Novembre 2006, 05:42
(accidenti quanto scrivi bene, niente di strano che non ci siano commenti, mette soggezione, oppure non tocca nell’ordinario?)
no,io invece che per una volta mi sorprendo ancora a sfinire la mia solitudine gironzolando a quest’ora di notte per siti o informativi o quasi tutti stupidi mi fermo un’altra volta a dire qualcosa da due bicchieri di troppo, anzi di più perché mentre scrivo me ne servo un altro.
C’è un posto a Marsiglia a me particolarmente caro, una spiaggia di roccia che si chiama “pierres tombées” ai piedi di una parete imponente di roccia defragmentata, raggiungibile in un’oretta di cammino a passo tranquillo.
Per un impedimento o per un altro sentimentale o materiale, per tre anni di seguito non sono riuscita ad andarci più pur trovandomi più volte a una sola ora di cammino, l’anno scorso ci ho rimesso piede una volta e mi sono nutrita a lungo del senso di appagamento consecutivo. Quest’anno a pasqua ero ancora a Marsiglia e non ho fatto in tempo ad esprimere l’intento di ripercorrere ancora una volta quella strada che l’ho saputo bloccata per sempre: une pierre est tombée, una pietrona squadrata grossa come una stanzetta ha spiaccicato l’incauto che è tornato indietro per riprendere le sue cose nonostante l’annuncio fragoroso della roccia che tremava, e di conseguenza les autoritées hanno sigillato gli accessi “per sempre”.
Fossi stata ancora bambina o ragazzina avrei trovato decine di accessi ulteriori per raggiungere quel posto in barba ai divieti, lo facevo su un roccione durante tutte le vacanze in toscana con grande disperata impotenza dei miei per ritrovarmi sola a respirare il senso di un mondo oltre quello che ci fanno vedere. Ora invece mi sembrava solo una brillante burla del destino.
Invece l’anno scorso in Grecia mi è successo il contrario, attraversavo speditamente in macchina con la mia bambina le bellissime montagnole tra il golfo di Corinto e Lamia quando un esagitato blocco di polizia ci mette addosso un ansia incredibile (avete mai provato a seguire una strada in base ad una cartina greca? ), chiudendoci la strada ed indicandoci una deviazione veramente inverosimile – una specie di anfratto sterrato con pendenza a rotta di collo – al grido di “follow this car”, (quella davanti, che si era defilata disinvoltamente in un istante).
Ebbene quel sentierino disastrato percorreva il fondo del burrone della strada statale dove il grave incidente occorso aveva impedito il regolare svolgimento del traffico, fino a rimontare vertiginosamente – a patto di avere un sano senso dell’orientamento – al di là del luogo momentaneamente indisponibile.
Solo che nessun poliziotto sano di mente, nessuna autorità consapevole delle proprie funzioni avrebbe dovuto intenzionalmente dirigerti laggiù: quella stradina era tutta crivellata di sassi e sassoni precipitati dall’alto, metri e metri cubi installati nell’asfalto alla fine della loro pesantissima corsa, per non parlare dei vetri rotti delle macchine che lassù in alto avevano osato troppo.
e poi non so più dove volevo arrivare, è tardi e semplicisticamente concludo con la fatua osservazione che quando intraprendi un sentiero non percorribile in base al senso comune le pietre che ti potrebbero crollare addosso sono tante, ma di solito non sono mai quelle a cascarti addosso.
un saluto
francesca
25 Novembre 2006, 10:17
Purtroppo sono di corsa (vado via per il weekend), però ci tengo a dire subito che questo è il genere di esperienze e di sensazioni che mi piace sentir raccontare dagli altri. Si parla sempre troppo di questioni pratiche e razionali, e troppo poco delle nostre esperienze interiori, specie di quelle in relazione alla natura.